UN  VESCOVO  IN  MEZZO  ALLE  VICENDE  DEL  SUO  POPOLO

 

Ambrogio esprime le prime chiarificazioni nel rapporto fra Chiesa e Stato

 

 

 

1. Un pastore leale e libero verso l'autorità civile

 

Il lealismo di Ambrogio è evidente nella missione che si assunse nel 383, quando andò a Treviri dall'usurpatore Massimo per difendere l'imperatore Valentiniano II ed evitare che quegli scendesse bellicosamente a Milano.

Ambrogio lasciò la sua comunità per alcuni mesi, fece un viaggio pesante, andò nella "tana" del nemico, rischiò di non essere compreso persino dai suoi: fu di un lealismo a tutta prova, a difesa della legittima autorità imperiale.

Ma verso questa stessa autorità Ambrogio, così leale, è libero: si comporta con schiettezza e verità davanti ai potenti, senza compromessi.

In particolare, quando nel 390 Teodosio vendicò l'omicidio di un ufficiale a Tessalonica con una carneficina di molti innocenti allo stadio, Ambrogio chiese riservatamente ma fermamente all'imperatore di sottoporsi a penitenza.

Ambrogio chiese, e Teodosio accettò: per la prima volta nella storia, un monarca si riconosceva pubblicamente sottomesso a leggi eterne di giustizia, e un vescovo rivendicava a sé il diritto di giudicare ed assolvere anche i re.

Ecco alcuni brani della lettera che Ambrogio inviò all'imperatore in quei frangenti: Ambrogio comincia col tratteggiare il temperamento di Teodosio:

 

Ascolta, dunque, augusto imperatore, ciò che ti devo dire. Che tu abbia zelo per la fede, non posso negarlo; che fu abbia timore di Dio, non posso non riconoscerlo; ma hai un carattere impetuoso: se uno cerca di calmarlo, lo volgerai tosto alla misericordia; se uno 1o eccita, ne accrescerai via via il furore, così che non ti riuscirà facile richiamarlo alla ragione... Questo tuo carattere impetuoso ho preferito sottoporlo in segreto alle tue riflessioni piuttosto che provocarlo forse, con un mio pubblico intervento. perciò ho preferito venir meno, in parte, al mio dovere piuttosto che all'umiltà; come pure, che in me gli altri lamentassero la mancanza dell'autorevolezza episcopale piuttosto che tu dovessi desiderare in me la reverenza verso chi mi è sommamente caro, affinché - frenato l'impeto - tu conservassi intatta la facoltà di prendere la tua decisione. Ho addotto, quale motivo, il mio stato di salute, realmente tutt'altro che buono, e che non può avere sollievo se non da uomini di grande mitezza: tuttavia avrei preferito persino morire piuttosto che non attendere il tuo arrivo per due o tre giorni. Ma non potevo fare altro (Ambrogio, Lettera 11 fuori collezione, 4.5: SAEMO 21, p.235).

 

Ambrogio quindi si sottrae all'incontro con l'imperatore per inviargli riservatamente questa lettera ed evitare una pericolosa contrapposizione pubblica. Viene poi il punto centrale della lettera:

 

Ti ho scritto questo, non per turbare il tuo animo, ma perché gli esempi di questi re [Davide in particolare] ti inducano a togliere questo peccato dal tuo regno; e lo toglierai umiliando davanti a Dio la tua anima. Sei un uomo e hai subito la tentazione: vincila. Il peccato non si cancella se non con le lacrime e la penitenza... Consiglio, prego, esorto, ammonisco perché mi addolora che tu - che eri un esempio di pietà senza pari, che avevi raggiunto il vertice della clemenza, che non tolleravi che i singoli colpevoli fossero esposti al pericolo - non sia addolorato per la morte di tanti innocenti. Anche se hai combattuto con grande successo, anche se hai meritato lode in altre imprese, tuttavia il culmine delle tue opere fu sempre il sentimento religioso. Il diavolo t'invidiava questa che era la tua dote più eccellente. Vincilo, finché hai ancora i mezzi per vincerlo... Io non ho verso di te alcun motivo per esserti ostile, ma ne ho per temere; non oso offrire il sacrificio, se tu vorrai assistervi. Forse ciò che non è lecito a chi ha versato il sangue di un solo innocente, sarà lecito a chi ha versato il sangue di molti? Non lo credo. Infine ti scrivo di mia mano questa lettera, perché tu sia il solo a leggerla... Trascuro il resto, e avrei potuto prendere dei provvedimenti; ma per amor tuo ho portato pazienza, a quanto credo. Il Signore faccia sì che tutto proceda in pace... Se credi, ascolta i miei suggerimenti; se, ripeto, credi, riconosci la verità di quanto dico; se non credi, perdona la mia condotta con la quale sto dalla parte di Dio (ivi, 11.12.13-14.17: SAEMO 21, pp.237,239,241).

 

Teodosio accettò e fu riconciliato, probabilmente la notte di Natale del 390.

Nel Discorso in morte di Teodosio Ambrogio elogiò i gesti dell'imperatore penitente:

 

"Ho amato" (cfr.Sal 114,1) quest'uomo che preferiva chi lo rimproverava a chi lo adulava. Depose ogni insegna regale, che solitamente indossava, pianse pubblicamente nella Chiesa il suo peccato, che quasi a sua insaputa aveva commesso, perché ingannato da altri, con lamenti e lacrime invocò il perdono. Lui, l'imperatore, non si vergognò di quello di cui si vergognano i privati cittadini, di fare cioè una pubblica penitenza, e in seguito non passò giorno in cui non piangesse il proprio errore (Ambrogio, In morte di Teodosio, 34: SAEMO 18, p.235).

 

 

2. Cristianesimo e paganesimo

 

Ambrogio riconosceva pure impellente il dovere di richiamare tutti a un rinnovamento sociale, di cui la vita di fine IV secolo, non solo a Milano, aveva estremo bisogno.

L'antica tradizione romana (repubblicana soprattutto) aveva conosciuto le grandi virtù sociali dell'onestà, della giustizia, del rispetto del diritto, del coraggio, della dedizione alla patria e Ambrogio ricordava con nostalgia e con ammirazione quell'antico ordinamento.

Lo descrive nel libro sui sei giorni della creazione parlando della vita sociale delle gru:

 

Con quale consuetudine libera e spontanea le gru di notte esercitano una scrupolosa vigilanza!, Potresti vedere sentinelle opportunamente scaglionate e, mentre tutti gli altri membri dello stormo riposano, alcune fanno la ronda e spiano che da qualche parte non si tramino insidie, e con un vigore instancabile esercitano ogni sorveglianza. Poi, trascorso il tempo del servizio di guardia, la gru, compiuto il proprio dovere, si abbandona al sonno dopo aver starnazzato per svegliare la compagna cui deve trasmettere il turno di servizio. Quella subentra volonterosa e non rinuncia al sonno protestando e tirando in lungo le cose, ma prontamente balza dal giaciglio, compie il suo turno e con eguale cura e disponibilità rende il favore ricevuto. Non ci sono diserzioni, perché l'attaccamento al dovere dipende da natura; sicura è la vigilanza, perché la loro volontà è libera. Osservano questa regola anche in volo e rendono più lieve ogni fatica con qualche distribuzione dei compiti, sostenendo a turno l'incarico della guida. Una va innanzi alle altre per il tempo a essa stabilito e, per così dire, fa da esploratrice; poi si volta e cede a quella che la segue l'incarico di guidare lo stormo. Che c'è di più bello del fatto che la fatica e l'onore comuni a tutti e il potere non sia preteso da pochi, ma passi dall'uno all'altro senza eccezioni come per una libera decisione? Questo è l'esercizio di un ufficio proprio di un'antica repubblica quale conviene in uno stato libero. Così da principio gli uomini avevano cominciato ad attuare un'organizzazione politica ricevuta dalla natura sull'esempio degli uccelli, in modo cioè che la fatica fosse comune, comune la dignità, ciascuno imparasse a dividersi a turno le responsabilità venissero ripartiti obbedienza e comando, nessuno fosse escluso dalle cariche, nessuno esente dalla fatica. In questa situazione politica ideale nessuno insuperbiva per l'esercizio ininterrotto del potere né si abbatteva per il lungo servire, perché da un lato l'avanzamento, conferito com'era secondo un ordine di funzione e per un periodo limitato, non suscitava invidia, e dall'altro sembrava più tollerabile perché comportava un comune compito di sorveglianza. Nessuno osava tiranneggiare un altro, del quale, perché destinato a succedergli nella carica, avrebbe dovuto sopportare a sua volta l'alterigia; a nessuno era grave la fatica, perché la dignità che sarebbe venuta in seguito l'avrebbe compensato. Ma quando la bramosia di potere cominciò a conservare le cariche raggiunte e a non voler deporre quelle ottenute, quando il servizio militare cominciò a essere non un diritto di tutti, ma un asservimento, quando non si seguì più un ordine nell'assumere il potere, ma la voglia di rivendicarlo, anche la stessa fatica delle cariche cominciò a essere sopportata con maggiore difficoltà; e una fatica che non si assume volontariamente, lascia presto il posto all'incuria. Con quale contrarietà gli uomini compiono il servizio di guardia con quanta difficoltà ognuno monta di sentinella negli accampamenti quando gli tocca un incarico pericoloso la cui esecuzione viene pur affidata per ordine imperiale! Per la negligenza si minacciano punizioni; e tuttavia spesso l'incuria prende furtivamente il sopravvento e non si osservano i turni di guardia. La costrizione, che impone l'obbedienza a chi è riluttante, provoca di solito avversione; non c'è nulla, per quanto facile sia, che non presenti difficoltà quando si compie di malavoglia. Quindi la fatica ininterrotta toglie la buona disposizione, e il potere continuo e prolungato produce arroganza. Quale individuo troveresti disposto a rinunciare spontaneamente al potere, a ceder l'insegna del suo comando e a diventare volontariamente l'ultimo, da primo che era? Noi poi litighiamo non solo per le prime posizioni, ma spesso anche per quelle di mezzo e pretendiamo nei banchetti il posto d'onore e, se una volta ci è stato usato un riguardo, lo vogliamo per sempre. Per questo fra le gru esiste la tolleranza nelle fatiche, la modestia nei posti di comando (Ambrogio, I sei giorni della creazione, VIII, 15, 50-52: SAEMO 1, pp.301,303).

 

Ambrogio non voleva perdere questi valori "laici", e la famosa discussione con Simmaco per non ricollocare la statua della Vittoria nel senato fu intesa da Ambrogio non come un'opposizione alla romanità e ai suoi valori, ma come un impegno a conservare quei grandi valori proprio ridando loro vita grazie al cristianesimo che si sostituiva al paganesimo.

L'altare della dea Vittoria era stato collocato in Senato, per indicare la protezione della dea sul Senato, sulle sue decisioni, sulla città e sull'Impero: era già stato tolto, poi nel 384 Simmaco voleva ricollocarlo e motivava la sua richiesta a partire dalla necessità di non perdere gli antichi valori che avevano sostenuto Roma per secoli:

 

Su che giureremo fedeltà alle vostre leggi e alle vostre persone? Da qual religioso timore sarà atterrito un animo menzognero, Per non mentire quando rende testimonianza? Senza dubbio, tutto è pieno della divinità e nessun luogo è sicuro per gli spergiuri, ma vale moltissimo a incutere il timore della colpa l'essere richiamato senza tregua da una presenza divina. Quell'altare garantisce la concordia fra tutti, quell'altare è un preciso invito alla lealtà dei singoli (Simmaco, Esposto, 5: SAEMO 21, p.53).

 

Simmaco contestava la pretesa del Cristianesimo a non accettare altre divinità accanto a sé:

 

Ciò che tutti adorano è giusto che sia considerato una cosa sola. Contempliamo i medesimi astri, il cielo ci è comune, lo stesso universo ci avvolge: che importa quale sia la dottrina che ciascuno segue per la ricerca della verità? A un così grande mistero non si può giungere per un'unica strada (ivi, 10: SAEMO 21, pp.55,57).

 

Simmaco voleva appunto integrare il Dio cristiano nel Panteon generale della religione ufficiale; ma dietro la facciata di tolleranza si nascondevano relativismo e scetticismo.

Ambrogio non voleva e non poteva accondiscendere a questa impostazione; e faceva altresì osservare che, abbandonando l'antica religione pagana, non si tradiva Roma e non se ne rinnegava l'antica tradizione di onestà, di giustizia, di coraggio, di amor di patria: piuttosto si dava finalmente a quella tradizione un sostegno adeguato.

Roma aveva dovuto attendere il tempo della messe e pazientare sino al giorno della vendemmia.

Ma questo momento era finalmente arrivato, grazie al cristianesimo, e Ambrogio può immaginare Roma esprimersi così:

 

 "Mi pento dei miei errori, la mia vetusta canizie ha dovuto arrossire per il sangue vergognosamente versato. Non arrossisco invece di convertirmi nella vecchiaia, con tutto il mondo. Indubbiamente, è vero che nessuna età è troppo avanzata per imparare. Arrossisca la vecchiaia che non può correggersi. Deve essere lodata non la vecchiaia degli anni, ma quella del comportamento. Non è affatto una vergogna sapersi migliorare. Con i barbari avevo solo questo in comune: d'ignorare Dio prima d'ora" (Ambrogio, Lettera 73 a Valentiniano II, 7: SAEMO 21, pp.65,67).

 

Questi ragionamenti non solo ci dicono che la coscienza cristiana non può scendere a compromessi di tipo relativistico, ma ci fanno capire che la coscienza della verità era sentita dai cristiani come un compito, un incarico, a vantaggio di chi ancora non la possedeva:

 

"A un così grande mistero - dice [Simmaco] - non si può giungere per un'unica strada. Ciò che voi ignorate, noi l'abbiamo appreso dalla voce di Dio; e ciò che voi cercate attraverso ipotesi, noi lo conosciamo con certezza dalla stessa sapienza e verità di Dio. Il vostro modo d'agire non si accorda col nostro: voi chiedete pace per le vostre divinità agli imperatori, noi per gli stessi imperatori chiediamo pace a Cristo. Dunque, anche i primi passi del mondo, come quelli di tutte le cose, furono vacillanti, perché seguisse la veneranda vecchiaia di una fede sperimentata. Quelli che ne provano stizza, rimproverino la messe perché la sua fecondità si fa attendere, rimproverino la vendemmia perché avviene al tramonto dell'anno, rimproverino l'oliva perché ne è l'ultimo frutto. Dunque anche la nostra fede è la messe dell'anima; la vendemmia della chiesa è la grazia dei meriti, per effetto della quale dalle origini del mondo verdeggiava nei santi; ma ultimamente si è diffusa tra i popoli, perché tutti vedessero che la fede di Cristo non si è insinuata in animi inesperti - non c'è corona di vittoria senza avversario -, ma dopo che erano state respinte le credenze che avevano dominato in precedenza a buon diritto è stata preferita la verità (ivi, 8.28-29: SAEMO 21, pp.67,79).

 

 

3. Una voce morale che richiama la società da ingiustizie e sperequazioni

 

Ambrogio voleva richiamare la società dalle svariate ingiustizie in cui era tragicamente coinvolta.

Tutti potevano constatare un degrado generalizzato, evidente nelle sperequazioni e interessi di una piccola minoranza abbiente (ricca) a danno dei sempre più numerosi bisognosi: un latifondo improduttivo in mano a pochi ricchi, e i piccoli proprietari terrieri che lasciavano la terra ed era cacciati verso la città e la miseria.

Il vescovo denunciava questa ingiustizia sociale insopportabile, mettendo in guardia dalla ricchezza, e dall'avarizia, dall'avidità e dalla sopraffazione.

In particolare si scagliava con veemenza contro quanti approfittavano delle difficoltà altrui per ridurre molti in povertà e alla disperazione (fra costoro, in particolare, gli usurai). Egli invece ricordava che la terra è stata creata per tutti e non per alcuni privilegiati:

 

La terra è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri: perché, o ricchi, vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo?... [Quando aiuti il bisognoso] tu non dài del tuo al povero, ma gli rendi il suo; infatti la proprietà comune, che è stata data in uso a tutti, tu solo la usi. La terra è di tutti, non dei ricchi, ma sono in minor numero quelli che usano di ciò che loro appartiene in rapporto a quelli che non ne usano. Dunque [quando aiuti il bisognoso] tu restituisci il dovuto, non elargisci il non dovuto (Ambrogio, Naboth, 1,2; 12,53: SAEMO 6, pp.131,133,173).

 

Cioè i beni sono dati per tutti sulla terra e l'uomo ne è solo l'amministratore e non può e non deve trascurare il bene comune di tutti.

Ambrogio è per altro convinto che il ricco non può sentirsi tranquillo a danno degli altri.

Anche perché, al di là delle apparenze, egli lo vede soffocato dall'ansietà: insoddisfatto per quanto possiede e timoroso che si possano svelare le sue ingiustizie; i giusti (i "poveri") invece sono sereni, perché liberi e senza affanni né rimorsi:

 

Ogni uomo facoltoso si ritiene povero, perché è convinto che gli manchi tutto quello che è posseduto da altri. Desidera fortemente tutto il mondo, lui, le cui brame il mondo non può contenere... Sfugge il mondo intero colui che, considerando la propria coscienza, teme di essere colto in fallo. E perciò... [come Acab a Elia] il ricco dice al povero: "Mi hai scoperto, o mio nemico": (1 Re 21,20): Come è misera quella coscienza che si lamenta di essere stata svelata!... È scoperto peccatore quando è svelata la sua iniquità; il giusto invece può dire: "Mi hai provato col fuoco, e in me non si è trovata iniquità" (Salmo 16,3)... Dunque il peccato svela il suo autore. Per cui anche Elia disse: "Ho scoperto che hai fatto ciò che è male agli occhi del Signore, perché il Signore consegna i colpevoli, ma non consegna gli innocenti in potere dei suoi nemici"... Dunque l'abbondanza è prigioniera, la povertà è libera. Siete schiavi, o ricchi, e la vostra schiavitù è miserevole, perché siete schiavi dell'errore, schiavi della cupidigia, schiavi dell'avidità che non può essere soddisfatta. È come un vortice insaziabile, che diventa ancor più vorace quando inghiotte le cose che vi si gettano... Anche con questo esempio è opportuno ammonirvi: il pozzo, se non vi attingi mai, facilmente si inquina per la stagnante immobilità e per il degradante abbandono; se invece è usato, la sua acqua appare limpida ed è piacevole a bersi. Così anche le ricchezze accumulate, polverose quando sono ammassate, risplendono quando sono usate [per l'aiuto al prossimo], ma se sono lasciate inutilizzate, sono inservibili (ivi, 12, 50-52: SAEMO 6, pp.169,121,173).

 

Ambrogio faceva i suoi richiami con un sarcasmo che diventava una sorta di severo scuotimento: come quando prendeva in giro lapreparazione di un pranzo con un'agitazione insostenibile:

 

Si corre in cucina, si fa un enorme chiasso, succede una grande confusione. L'intera servitù si agita, tutti maledicono, perché non si concede loro respiro. "Fa' riposare il cuoco una buona volta!". "Ferma la destra del coppiere: ha mani e piedi intirizziti dal freddo!". Egli maneggia acqua fredda, per lui si lavano i pavimenti; si puliscono i pavimenti inzuppati di vino e coperti di lische di pesci. Quanti si feriscono camminando! Durante il festino si leva il clamore dei convitati, il lamento dei servi bastonati. Se qualcosa per caso è andato storto per gli amici, essi ridono: tu ti arrabbi. Si faccia finalmente silenzio nella casa, mettendo fine alla grande confusione di coloro che corrono qua e là, alle grida degli animali uccisi; sia liberata dal fumo e dalle esalazioni delle carni abbruciacchiate. La crederesti non una cucina, ma un luogo di tortura, penseresti che si combatta una battaglia, non che si prepari un pranzo: tanto tutto naviga nel sangue (Ambrogio, Elia e il digiuno, 8,25: SAEMO 6, p.65).

 

Similmente quando descrive un usuraio spiare il momento opportuno per inserirsi a far usura, accampando patetiche autogiustificazioni:

 

"Ho arato con grande impegno - dice l'agricoltore -, ho seminato senza risparmio, ho coltivato con ogni diligenza, ho raccolto buoni frutti, li ho messi da parte con molta premura li ho conservati accuratamente, li ho custoditi con le dovute precauzioni. Ora, in tempo di carestia li vendo, soccorro gli affamati... Dov'è la frode, dal momento che molti correrebbero pericolo, se non avessero che cosa comperare? Forse l'operosità viene messa sotto accusa? Si critica forse la diligenza? Si insulta la previdenza?"... Perché muti in frode l'operosità della natura? Perché neghi all'uso degli uomini i prodotti destinati a tutti?... Perché brami la carestia?... Attendi avido la mancanza di cereali, la penuria degli alimenti, gemi sull'abbondanza dei prodotti agricoli, piangi per la generale fertilità, ti lamenti dei granai colmi di messi, stai a spiare ansioso quando il prodotto sia più scarso, più limitati i frutti... Ti rallegri di aver venduto proprio allora il tuo raccolto e sulla miseria di tutti accumuli allora la tua fortuna... Tu da usuraio nascondi il frumento, da trafficante lo vendi al maggior offerente. E per qual motivo il tuo augurio per tutti è che in avvenire aumenti la carestia, nella supposizione che non resti nulla del prodotto e che l'anno prossimo sia ancora meno produttivo? Perché per te il danno comune è un guadagno! (Ambrogio, I doveri, III, 6, 39.41: SAEMO 13, pp.297,299,301).

 

 

4. Libertà e sapienza

 

Parlare di libertà e sapienza diventa, per Ambrogio, parlare della dignità dell'uomo.

Basta rifarsi all'episodio di Giuseppe ebreo che fu venduto schiavo dai fratelli, ma nella sua sapienza rimase intimamente libero, tanto da divenire autorità fra i suoi compratori:

 

Ogni sapiente è libero e ogni stolto invece è schiavo... Non è la natura a rendere schiavi, mala stoltezza; né è l'affrancamento a rendere liberi, ma la disciplina. Perciò Esaù nacque libero e divenne schiavo. Giuseppe [ebreo] fu venduto per farne uno schiavo e fu scelto per assumere il potere, così che comandò ai suoi compratori. Non disdegnava tuttavia l'ossequio richiesto dal suo impegno, ma occupava il fastigio della virtù, conservava la libertà dell'innocenza, l'autorità di un animo integro... Non lo rese dunque schiavo la vendita. Senza dubbio era stato venduto ai mercanti; ma se tu considerassi il prezzo, troveresti che molti si acquistarono giovinette di singolare bellezza e, soggiogati dal loro amore, si abbandonarono a un'indegna schiavitù... Chi dunque credi più libero? È libera la sola sapienza che suole rendere i poveri dominatori dei ricchi e che fa sì che "gli schiavi prestino ai loro padroni"; prestino non il denaro, ma l'intelligenza, prestino "il talento" dell'eterno "tesoro" del Signore, che non conosce corruzione, di cui è prezioso anche l'interesse (cfr. Mt 25,14-30)... È libero colui che è libero nel suo intimo, che è libero secondo le leggi di natura, conscio che la misura dei doveri è conforme non all'arbitrio dell'uomo ma alle regole della natura (Ambrogio, Lettera a Simpliciano, 4.9.12.14.17: SAEMO 19, pp.75,77,79,81).

 

Quindi una libertà interiore, più sicura e maggiormente difesa di ogni altra libertà, perché legata a una sapienza che non è travolta da nulla: la sapienza si attiene alle regole della natura, investiga la natura umana e ne trae criteri e valori, e non si lascia invece trascinare dall'arbitrio o dagli istinti.

La libertà della sapienza non si piega all'esteriorità, alla vanità, alla fama, al plauso: è libera!

 

Ti sembra forse libero chi compra i voti col denaro, chi cerca l'applauso del popolo più che il giudizio dei saggi? È dunque libero colui che è sensibile al favore popolare, colui che teme i fischi del volgo?... Ritengo, infatti, che la libertà non sia un dono, ma una virtù che non viene concessa dai voti altrui, ma viene rivendicata e posseduta mediante la propria grandezza d'animo (ivi, 18: SAEMO 19, p.81).

 

La libertà è quindi saldamente unita alla grandezza d'animo del sapiente, alla sua virtù, è ancorata a ciò che è buono, giusto, vero, che il sapiente sceglie, vuole liberamente scegliere; invece il male sta unito al timore: il timore di essere scoperti, come Acab che aveva fatto uccidere Nabot o come il ricco che ha fatto guadagni inconfessabili, e anche il timore di essere travolti, "giudicati" nel male.

Ma nel timore non c'è più libertà, perché il male ti stringe, ti soffoca, la fa da padrone su di te.

Chi sceglie ciò che è buono, giusto, vero, rimane libero nella sua scelta: la sua scelta lo fa libero; chi sceglie ingiustizia e disonesti è preso nella loro morsa perde la propria libertà: è schiavo!

 

Il sapiente, dunque, è libero, perché chi fa ciò che vuole è libero. Ma non ogni volontà è buona, bensì è proprio del sapiente volere tutto ciò che è buono; odia infatti, il male, perché ha scelto ciò che è buono, è arbitro nella scelta, e scegliendo è libero nell'agire perché fa ciò che vuole. Dunque il sapiente è libero. Il sapiente fa bene tutto ciò che fa, ma chi fa bene ogni cosa, fa ogni cosa rettamente. Ma chi fa ogni cosa rettamente, senza dubbio fa ogni cosa senza impedimenti e in modo irreprensibile e senza danno e senza proprio turbamento. Quello dunque che ha la facoltà di agire senza impedimenti, di agire in modo irreprensibile, di agire senza proprio turbamento e senza danno, non fa nulla da stolto, ma tutto da sapiente. Ma chi agisce da sapiente, non ha nulla da temere: il timore, infatti, sta nel peccato. Ma dove non c'è timore, c'è libertà; dove c'è libertà c'è la possibilità di fare ciò che uno vuole. Dunque il sapiente è libero. Infatti chi non può essere né costretto né impedito, costui in nessun modo è schiavo. Ma è proprio del sapiente non essere né costretto né impedito, dunque il sapiente non è schiavo. È impedito chi non compie ciò che desidera. Ma che cosa desidera il sapiente all'infuori di quelle cose che sono proprie della virtù e dell'educazione morale, senza le quali non può essere tale? Sono in lui, né possono essergli strappate... [Il peccatore invece] è schiavo delle proprie passioni, è schiavo dei propri desideri al cui dominio non può sottrarsi né di giorno né di notte, perché ha i suoi padroni dentro di sé, dentro di sé sopporta una schiavitù intollerabile... Il peccatore dunque è schiavo della paura, della malvagità, dell'ira; e tuttavia un simile uomo si crede libero, ma è più schiavo che se fosse suddito di un tiranno (ivi, 19-20.24.31: SAEMO 19, pp.83,87,89).

 

 

5. Società, potere e vangelo

 

Le questioni sociali e politiche possono essere rilette con la ricchezza dei riferimenti evangelici.

Per quanto riguarda l'aspetto sociale, abbiamo la pagina dedicata da Ambrogio a giustificare i vasi sacri che aveva fatto spezzare per riscattare i prigionieri dopo la sconfitta di Adrianopoli:

 

Una volta noi fummo aspramente criticati, perché spezzammo i vasi sacri per riscattare i prigionieri, cosa che faceva spiacere agli Ariani, A costoro non tanto dispiaceva il fatto, quanto piuttosto importava trovare un motivo di biasimo per noi. Ma chi è così duro, crudele, insensibile da dolersi che un uomo sia sottratto alla morte, una donna alle libidini barbariche, peggiori della morte, giovani, fanciulli, bambini dalla corruzione dell'idolatria, dalla quale, per timore della morte, si lasciavano contaminare? Sebbene noi ci fossimo comportati così in tale vicenda non senza giustificati motivi, tuttavia ne trattammo con il popolo in modo da rendere chiaro e dimostrare che era molto meglio per il Signore salvare delle anime che dell'oro. Egli infatti mandò gli apostoli senza oro e senza oro fondò le Chiese. La Chiesa possiede l'oro non per custodirlo, ma per distribuirlo, per recare soccorso nelle necessità. Che bisogno c'è di custodire ciò che non serve?... Non dirà il Signore: "Perché hai permesso che tanti poveri morissero di fame? E certamente avevi dell'oro, avresti potuto somministrare loro del cibo. Perché tanti prigionieri furono messi in vendita e, non riscattati, vennero uccisi dai nemici? Sarebbe stato meglio che tu avessi salvato corpi di viventi che non vasi di metallo!". A queste domande non si sarebbe potuto rispondere. Potevi forse dire: "mi sono preoccupato che al tempio di Dio mancasse l'ornamento?". Ti avrebbe risposto: "I sacramenti non richiedono oro, né acquisisce valore per via dell'oro ciò che non si compra con 1'oro" (Ambrogio, I doveri, II, 28, 136-138: SAEMO 13, pp.261,263).

 

A questo punto si apre un ricco simbolismo teologico: il riscatto dei prigionieri di Adrianopoli gli richiama l'altro grande riscatto, quello "per la remissione dei peccati" compiuto dal sangue di Cristo e la carità di Cristo presente nei vasi sacri nel sacramento dell'eucaristia, si prolunga nel gesto che spezza quei vasi per amore dei bisognosi:

 

Ornamento dei sacramenti è il riscatto dei prigionieri; e veramente preziosi sono i vasi che liberano le anime dalla morte. Vero tesoro del Signore è quello che compie ciò che ha compiuto il suo sangue. Allora si riconosce (senza alcun dubbio) il calice del sangue del Signore, quando con l'uno (il calice) e con l'altro (il sangue) egli procura il riscatto, così che il calice riscatti dal nemico coloro che il sangue ha riscattato dal peccato. Quant'è bello che si dica, quando la Chiesa riscatta folle di prigionieri: "Li ha riscattati Cristo"! Ecco l'oro che è motivo di lode, ecco l'oro che giova, ecco l'oro di Cristo che libera dalla morte, ecco l'oro per mezzo del quale si riscatta la pudicizia, si preserva la castità!... Riconosco che il sangue di Cristo versato nell'oro non solo rosseggiò, ma anche col dono del riscatto vi impresse la virtù della carità divina (ivi, II, 28, 138-139: SAEMO 13, pp.263,265).

Passiamo ora a una pagina "evangelica" riguardante all'esercizio del potere.

La Lettera 7 a Simpliciano, affermava anche che "servire è libertà":

 

L'Apostolo mi ha insegnato ciò che va oltre la stessa liberti che cioè è libertà anche il servire. "Pur essendo libero, dice, io mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne un maggior numero (1 Cor 9,19). Che cosa va oltre la libertà se non l'avere lo spirito della grazia, l'avere la carità?...

Per il sapiente, dunque, anche il servire è libertà (Lettera 7 a Simpliciano, 23.24: SAEMO 19, pp.85,87).

 

Il sogno di Ambrogio è che questo servire - il servire di Cristo e alla maniera di Cristo - possa diventare il modo di governare dei credenti.

Racconta questo suo sogno sul mondo nel discorso funebre per l'imperatore Teodosio, come a lasciare in eredità ai figli di Teodosio questo insegnamento sul nuovo modo di governare, ora che il vangelo era stato accolto anche dagli imperatori.

Utilizza il racconto del ritrovamento della croce da parte di Elena, e aggiunge che essa mandò al figlio Costantino due chiodi della croce, l'uno trasformandolo in un morso di cavallo, l'altro facendolo inserire nella corona imperiale.

Con quest'ultimo simbolo intendeva rimarcare che la croce era stata posta sulla testa dei sovrani, cioè che essi avevano aderito al cristianesimo e sul loro capo risplendeva quindi la fede: anche i sovrani avevano riconosciuto Colui che è stato ucciso e vi avevano creduto e ne erano stati redenti.

Conseguentemente, e si viene al significato dell'altro simbolo, il potere doveva ormai essere gestito come servizio: il chiodo è stato trasformato in morso per frenare l'arroganza del potere:

 

Domando però: per quale motivo "una cosa santa sul morso", (Zacc 74,20), se non perché frenasse l'arroganza degli imperatori, reprimesse la dissolutezza dei tiranni che, come cavalli, nitrivano smaniosi di piaceri, perché potevano impunemente commettere adulteri? Quali turpitudini conosciamo dei Neroni e dei Caligola e di tutti gli altri che non ebbero "una cosa santa sul morso"! (Ambrogio, In morte di Teodosio, 50: SAEME 18, p.247).

 

Elena invece con il suo gesto simbolico segnala e prescrive un cambiamento:

 

Quale altro risultato ottenne l'intervento di Elena per guidare il morso se non quello che sembrasse dire per divina ispirazione agli imperatori: "Non siate come il cavallo e come il mulo" e stringesse invece "col morso e la museruola le loro mascelle" (Sal 31,9), perché governassero i loro sudditi, mentre prima non si riconoscevano responsabilità di governanti? Il potere, infatti, si abbandonava senza ritegno al vizio e, come bestie, i sovrani si contaminavano in sfrenate libidini e ignoravano Dio. La croce del Signore li frenò e li distolse dalle cadute dell'empietà, fece loro alzarc gli occhi perché cercassero in cielo Cristo. Deposero la museruola dell'incredulità accolsero il morso della devozione e della fede, seguendo colui che dice: "Prendete sopra di voi il mio giogo; il mio giogo, infatti, è dolce e il mio carico leggero" (Mt 11, 29-30) (ivi, 51: SAEMO 18, pp.247,249).

 

La fede avrebbe quindi guidato gli imperatori ad assumere il potere nella forma del servizio, che in Gesù, re crocifisso e Signore risorto, aveva il suo modello, la sua fonte e il suo fondamento: non solo si recuperavano i sani valori tradizionali romani, non solo si raccomandava agli imperatori di guardarsi almeno da un dispotismo invadente e di rispettare adeguatamente la libertà dei loro sudditi, ma si chiedeva persino al potere di "alzare gli occhi perché cercassero in cielo Cristo".

L'autorità doveva cioè concepirsi ultimamente e fondamentalmente come servizio.

 

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