LA  RADICALITA' DEL  VANGELO  NELLA  VITA  MONASTICA

Le origini in terra egiziana, l'esperienza di Martino di Tours e la spiritualità patristica

 

 

1. Eremitismo e monachesimo nell'antichità cristiana

Il monachesimo ha i suoi inizi alla fine del III secolo, nel deserto egiziano (Nitria e Tebaide). Monaco (da: monos, cioè solo, unificato) è termine generale per questo genere di vita e lascia intendere l'unità interiore che si vuoi raggiungere con questa esperienza. I monaci si presentano come i legittimi eredi dei martiri: infatti come i martiri incontravano la prova da parte dei persecutori, così i monaci, pur soli nel deserto, erano messi alla prova dal tentatore che non li lasciava in pace (andando appunto nel deserto, dove Gesù era stato tentato dal Satana).

Fra i monaci si distinguono:

- gli eremiti (da eremos, cioè deserto), che vivono in totale solitudine nel deserto;

- i cenobiti (da koinobion, cioè vita comune), che vivono in comunità.

I primi hanno per "padre" Antonio (251-356), gli altri Pacomio (292 ca. - 347).

 

2. Sant'Antonio del deserto

Di Antonio abbiamo un Vita composta da Atanasio di Alessandria. La notorietà e importanza di questo testo agiografico emerge nelle Confessioni di Agostino:

[Ponticiano] ci raccontò la storia di Antonio, un monaco egiziano, il cui nome brillava in chiara luce fra i tuoi servi, mentre per noi fino ad allora era oscuro. Quando se ne avvide, si dilungò nel racconto, istruendoci sopra un personaggio tanto ragguardevole a noi ignoto e manifestando la sua meraviglia appunto, per la nostra ignoranza. Anche noi eravamo stupefatti all'udire "le tue meraviglie" (Sal 144,5) potentemente attestate in epoca così recente, quasi ai nostri giorni, e operate nella vera fede della Chiesa cattolica. Tutti eravamo meravigliati: noi, per quanto erano grandi, lui per non essere giunte al nostro orecchio (Agostino Confessioni, VIII, 6, 14).

Ponticiano descrive l'influsso positivo che la Vita di Antonio ebbe su due suoi amici a Treviri, i quali, trovatane un giorno una copia e messisi a leggerla, decisero di lasciare tutto (fidanzate comprese) per dedicarsi completamente a Dio. Agostino ricorda ancora la Vita di Antonio quando riferisce la famosa scena del "Prendi e leggi":

L'unica interpretazione possibile era per me che si trattasse di un comando divino ad aprire il libro e a leggere il primo verso che vi avrei trovato. Avevo sentito dire di Antonio che ricevette un monito dal Vangelo, sopraggiungendo per caso mentre si leggeva: "Va', vendi tutte le cose che hai, dalle ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, e vieni, seguimi"  (Mt 19,21). Egli lo interpretò come un oracolo indirizzato a se stesso e immediatamente si rivolse a te. Così tornai concitato al luogo dove stava seduto Alipio e dove avevo lasciato il libro dell'Apostolo all'atto di alzarmi. Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi caddero gli occhi... (Agostino, Confessioni, VIII, 12,29).

In effetti l'episodio della chiamata di Antonio è fondamentale nell'economia della Vita di Antonio:

Dopo la morte dei genitori, lasciato solo con la sorella ancor molto piccolo Antonio, all'età di diciotto o vent'anni, si prese cura della casa e della sorella. Non erano ancora trascorsi sei mesi dalla morte dei genitori, quando un giorno, mentre si recava, com'era sua abitudine, alla celebrazione eucaristica, andava  riflettendo sulla ragione che aveva indotto gli apostoli a seguire il Salvatore, dopo aver abbandonato ogni cosa. Richiamava alla mente quegli uomini, di cui si parla negli Atti degli Apostoli (cfr. 4,34-35), che, venduti i loro beni, ne portarono il ricavato ai piedi degli apostoli, perché venissero distribuiti ai poveri. Pensava inoltre quali e quanti erano i beni che essi speravano di conseguire in cielo. Meditando su queste cose entrò in chiesa, proprio mentre si leggeva il vangelo e sentì che il Signore aveva detto a quel ricco: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi e avrai un tesoro nei cieli" (Mt 19,21). Allora Antonio, come se il racconto della vita dei santi gli fosse stato presentato dalla Provvidenza e quelle parole fossero state lette proprio per lui, uscì subito dalla chiesa, diede in dono agli abitanti del paese le proprietà che aveva ereditato dalla sua famiglia - possedeva infatti trecento campi molto fertili e ameni - perché non fossero motivo di affanno per sé e per la sorella. Vendette anche tutti i beni mobili e distribuì ai poveri la forte somma di denaro ricavata, riservandone solo una piccola parte per la sorella. Partecipando un'altra volta all'assemblea liturgica, sentì le parole che il Signore dice nel vangelo: "Non vi angustiate per il domani" (Mt 6,34). Non potendo resistere più a lungo, uscì di nuovo e donò anche ciò che gli era ancora rimasto. Affidò la sorella alle vergini consacrate a Dio e poi egli stesso si dedicò nei pressi della sua casa alla vita ascetica, e cominciò a condurre con fortezza una vita aspra, senza nulla concedere a se stesso. Egli lavorava con le proprie mani: infatti aveva sentito proclamare: "Chi non vuol lavorare, neppure mangi" (2Ts 3,10). Con una parte del denaro guadagnato comperava il pane per sé, mentre il resto lo donava ai poveri. Trascorreva molto tempo in preghiera, poiché aveva imparato che bisognava ritirarsi e pregare continuamente (cfr. 1Ts 5,17). Era così attento alla lettura che non gli sfuggiva nulla di quanto era scritto, ma conservava nell'animo ogni cosa al punto che la memoria finì per sostituire i libri. Tutti gli abitanti del paese e gli uomini giusti, della cui bontà si valeva, scorgendo un tale uomo lo chiamavano amico di Dio e alcuni lo amavano come un figlio, altri come un fratello (Atanasio, Vita di Antonio, II, 1 - III, 1.6; IV, 1.4: Pier Francesco Beatrice, (Introduzione a) I Padri della Chiesa, Vicenza, Edizioni Istituto S. Gaetano, 1983, pp.115-127).

Nella sua esperienza eremitica, Antonio penetra sempre più nel deserto in cerca di solitudine: prima presso casa, nelle adiacenze del villaggio, poi in una regione disseminata di tombe (fino ai 35 anni), quindi a Pispir, in un forte demolito (fino ai 55 anni); infine, dopo una pausa in città durante la persecuzione di Massimino (235-238), presso una fonte e qualche pianta di datteri, in vista del monte Sinai (sino alla fine, salvo alcune presenze in città per difendere la fede nicena). Ogni volta che si inoltra nel deserto, è "inseguito" da discepoli, sempre più numerosi, che lo provocano a cercare un luogo ancor più solitario: solitudine e fecondità spirituale si contrappongono (apparentemente) e si compongono! Qualche cenno, nei brani seguenti, alla lotta con i demoni, sia come tentazione di abbandonare la vita eremitica, sia come turbamenti e oscenità di ogni genere, sia ancora come vere e proprie presenze e molestie esteriori.

Il diavolo invidioso, che suole odiare il bene, non sopportò di vedere in un giovane questa maniera di vivere, e osò operare contro di lui come gli era consueto. Dapprima tentò di allontanarlo dai suoi esercizi ascetici, ispirandogli il ricordo delle ricchezze, la cura della sorella, l'amore familiare per i parenti. Gli ispirava anche il desiderio del denaro, la vanagloria, il piacere del cibo e gli altri sollievi di questa vita. E infine gli faceva presente l'asprezza della virtù e le grandi fatiche che essa richiede, insinuando la debolezza del corpo e la lunghezza del tempo. [...] Il nemico, come si avvide di essere debole di fronte al proposito di Antonio e di venire vinto dalla sua forza, respinto dalla sua fede e fatto cadere dalle sue continue preghiere, si fidò delle proprie armi che prendono di mira l'ombelico del ventre -questi sono gli agguati che tende ai giovani-; e si gloriò di esse. Così armato si avanzò contro il giovane: di notte lo turbava e di giorno lo molestava, a tal punto che coloro che vedevano si accorgevano della lotta fra i due. [...] Colui che si riteneva simile a Dio era deriso da un giovane: colui che si vantava nei confronti della carne era respinto da un uomo rivestito di carne. Lo aiutava il Signore che si rivestì di carne per noi e che concesse al corpo la vittoria contro il diavolo; sicché ciascuno di quelli che sostennero una simile lotta poteva dire con l'Apostolo: "Non io, ma la grazia di Dio con me" (1Cor 15,10) (Atanasio, Vita di Antonio, V, 1-3.7: Vita di Antonio. Traduzione di Pietro Citati e Salvatore Lilla, Milano. Fondazione Lorenzo Valla - Arnoldo Mondadori Editore, 1974, pp.14-19).

Fondamentale l'osservazione conclusiva: non è la fortezza umana che vince (magari con orgoglio e superbia che fanno cadere ancor peggio), ma la grazia di Dio che guida e sostiene il suo fedele. Seguono poi le lotte diaboliche vere e proprie. Ecco un breve cenno:

I conoscenti che venivano a trovarlo, giacché egli non permetteva loro di entrare, spesso rimanevano fuori molti giorni e molte notti. Udivano dentro come una moltitudine di persone che tumultuava e che gettava delle urla lamentose dicendo: "Allontanati dal nostro luogo. Che cosa hai a che fare tu col deserto? Non è possibile sopportare le nostre insidie". [...] Quando, guardando attraverso un foro, non videro nessuno, allora pensarono che fossero demoni. Pieni di paura, gridarono chiamando Antonio. Senza curarsi dei demoni, udite le grida, egli si avvicinò alla porta, pregò quegli uomini di venire da lui, poi ordinò loro di andarsene e di non temere. Così - diceva - si comportavano i demoni con i timorosi. "Voi fatevi fiduciosi il segno della croce, andate e lasciate che costoro si prendano gioco di sé stessi". Essi se ne andarono, cinti dal segno della croce come da un muro. Egli invece rimase, senza essere offeso dai demoni e senza neppure stancarsi nel suo combattimento (Atanasio, Vita di Antonio, XIII, 1-6: Pietro Citati cit., pp. 34-35).

Cristo è quindi vincitore di ogni tentazione e di ogni tentatore, e quindi non c'è da temere!

 

3. San Martino di Tours

Il monachesimo si diffonde ben presto in Occidente, con Martino di Tours (316/317-397). Di Martino abbiamo una Vita scritta da Sulpicio Severo (e Lettere e Dialoghi pure di Sulpicio). Nato in Pannonia (Ungheria), a Sabaria, Martino entrò nella carriera militare, sulla scia del padre; lasciato l'esercito nel 356, si unì a Ilario di Poitiers, che fu sua guida spirituale e con cui condivise la difesa della fede nicena (forse anche con missioni nell'Illirico). In quello stesso anno (356) Ilario venne mandato in esilio, e pure Martino ebbe un incidente proprio a Milano, a causa della sua decisa posizione filonicena. A Milano infatti Martino volle iniziare la vita monastica (eremitica):

Poi, avendo pullulato l'eresia ariana per tutto il mondo e soprattutto nell'Illirico, trovandosi pressoché solo a rintuzzare con fierissima energia la fede corrotta dei vescovi ed essendo stato sottoposto a numerosi maltrattamenti - fu anche pubblicamente battuto con le verghe e infine sforzato a uscire dalla città - ritornando in Italia, trovò la Chiesa travagliata anche nelle Gallie, a causa dell'allontanamento del santo Ilario, che la violenza degli eretici aveva costretto all'esilio; e si stabilì in eremitaggio (monasterium) a Milano. E anche ivi Aussenzio, animatore e capo degli Ariani, accanitamente lo perseguitò e più volte oltraggiatolo, lo fece cacciare dalla città (Sulpicio Severo, Vita di Martino, VI, 4-: Vita di Martino. Vita di Ilarione. In memoria di Paola. Traduzioni di Luca Casali e Claudio Moreschini, Fondazione Lorenzo Valla - Arnoldo Mondadori Editore, 1975, pp.20-21).

Le tappe successive dell'esperienza monastica di Martino furono: l'isola ligure di Gallinara (al largo di Alassio), poi - dal 367 -Ligugé vicino a Poitiers, con alcuni compagni, infine Marmoutier, vicino a Tours, dove Martino era stato chiamato come vescovo. Il monachesimo che egli fonda è caratterizzato da una dura ascesi (di ispirazione siriana) e da una struttura comunitaria ancora poco solida. Martino è vescovo-monaco-missionario (contro il paganesimo delle campagne) e inaugura una figura che avrà seguito nel medioevo occidentale. Martino è inoltre un carismatico, un taumaturgo (come appare dalla Vita), capace di gesti profetici di carità (il mantello diviso con il povero): dovette avere un ruolo considerevole nell'evangelizzazione della società gallo-romana. Milano, come tutta l'Europa, ne coltiva il culto.

 

4. Detti e fatti dei padri del deserto

Alcuni dei temi ritrovati nella Vita di Atanasio fanno venire in mente espressioni ed episodi degli apoftegmi, cioè dei detti e fatti dei padri del deserto. Nel loro insieme sono una miniera di insegnamenti spirituali, non solo per monaci. Questi detti sono spesso risposta a una richiesta fatta al monaco: "Padre, dimmi una parola". In questa richiesta si condensano: la richiesta di un suggerimento, di un'indicazione autorevole, il bisogno della Parola di Dio a cui attinge la parola dei Padri, l'impegno a "fare" la parola perché non rimanga vano enunciato. Siamo quindi nella scia della riflessione sulla parola di Dio, con l'aiuto di maestri adeguati per poterla ascoltare, comprendere, attuare. Anzitutto un detto contro gli euchiti, che rifiutavano di lavorare per l'invito di Paolo: "Pregate incessantemente" (1Ts 5,17...):

Un certo fratello si recò dal padre Silvano sul monte Sinai; vedendo i fratelli al lavoro, disse all'anziano; '"Non lavorate Per un cibo che perisce" (Gv 6,27). "Maria ha scelto la parte buona" (Lc 10,42). "Zaccaria - disse l'anziano al suo discepolo - da' al fratello un libro, e mettilo in cella senza niente". Quando giunse l'ora nona, egli stava attento alla porta, se lo mandassero a chiamare per il pranzo. Ma poiché nessuno venne a prenderlo, alzatosi, andò dall'anziano e gli disse: "Padre, non mangiano i fratelli oggi?". "Sì", gli dice l'anziano. Chiede: "Perché non mi avete chiamato?". "Perché sei un uomo spirituale - dice l'anziano - e non hai bisogno di questo cibo. Ma noi che siamo carnali dobbiamo mangiare e perciò lavoriamo. Tu invece hai scelto la parte buona, leggi tutto il giorno e non vuoi mangiare un cibo materiale". A queste parole, egli si prostrò a terra e disse: "Perdonami, padre". L'anziano gli dice: "Anche Maria ha assolutamente bisogno di Marta; per merito di Marta infatti anche Maria è lodata" (Apoftegmi, Raccolta alfabetica, Silvano, 5: Vita e detti dei Padri del deserto. A cura di Luciana Mortari, II, Roma, Città Nuova, 1975, pp.178-179).

La sintesi della vita eremitica sta nel famosa programma di Arsenio, un gran personaggio che dalla vita di corte di Costantinopoli era passato al deserto di Scete.

Mentre era ancora a corte, il padre Arsenio pregò Dio dicendo: "Signore, guidami nella via della salvezza" E giunse a lui una voce che disse: "Arsenio, fuggi gli uomini, e sarai salvo". Ritiratosi a vita solitaria, pregò ancora con le stesse parole e udì una voce che gli disse: "Arsenio, fuggi, taci, pratica la solitudine". È da queste radici che nasce la possibilità di non peccare (Apoftegmi, Raccolta alfabetica, Arsenio, 1-2: Vita e detti cit., I, p.97).

Era però necessaria l'umiltà perché la superbia è il vizio che rovina tutto.

Un giorno il padre Arsenio sottopose i suoi pensieri a un padre egiziano. Uno che lo vide gli disse: "Padre Arsenio, come mai tu che possiedi una tale cultura greco-romana interroghi sui tuoi pensieri questo sempliciotto?". Rispose: "Certo, possiedo la cultura greco-romana, ma non ho ancora imparato l'alfabeto di questo semplice contadino!" (Apoftegmi, Raccolta alfabetica, Arsenio, 6: Vita e detti cit., I, p. 98).

Però la salvezza non è preclusa a chi vive "nel mondo": ecco un apoftegma molto equilibrato:

Un giorno, mentre il padre Macario il grande pregava nella sua cella gli giunse una voce: "Macario, non sei ancora giunto alla misura di quelle due donne della tal città". Al mattino l'anziano si alzo, prese il suo bastone di palma e si diresse verso la città. Quando fu giunto al luogo che cercava, bussò alla porta. Una di esse uscì e lo accolse in casa sua. Si sedette, le chiamò tutte e due, ed esse vennero a sedersi con lui. Disse loro l'anziano: "Per voi ho fatto tanta fatica; ditemi quali sono le vostre opere buone". Ma esse risposero: "Credici, questa notte siamo state con i nostri mariti. Quali buone opere dunque possiamo avere?". Ma l'anziano insisteva a pregarle di manifestargli le loro opere. Gli dissero allora: "Noi non eravamo parenti, ma ci è piaciuto di sposare due fratelli secondo la carne. Da quindici anni abitiamo nella stessa casa e non ci risulta di aver mai litigato fra noi o che una di noi abbia detto all'altra una parola cattiva, ma abbiamo trascorso tutto questo tempo nella pace e nella concordia. Ci venne poi nell'animo di entrare in un monastero di vergini; lo chiedemmo ai nostri mariti, ma essi non vollero acconsentire. Non avendo potuto mettere in pratica tale progetto, facemmo un patto fra noi e Dio, che fino alla morte non esca mai dalla nostra bocca una parola mondana". Udito ciò il padre Macario disse: "Dico in verità che quel che conta non è essere vergine o maritata, monaco o secolare, perché Dio dona a tutti lo Spirito Santo nella misura della disposizione di ciascuno" (Apoftegmi, Raccolta sistematica, XX, 17: I Padri del deserto, Detti. Introduzione, traduzione e note di Luciana Mortari, Roma, Città Nuova , 1980, pp. 378-379).

Quest'altro apoftegma completa il precedente, unendo insieme umiltà e misericordia:

Un anziano raccontò: "Vi era un anziano che viveva nel deserto e, dopo aver servito Dio per molti anni, disse: "Signore, rivelami con chiarezza se ti sono stato gradito". E vide un angelo che gli disse: "Non sei  ancora diventato come l'ortolano che vive nel tal luogo". L'anziano, stupito, disse fra sé: "Andrò in città a vederlo. Chi sa che mai avrà fatto per superare il lavoro e la fatica di tanti miei anni!". Partì dunque l'anziano, giunse al luogo che l'angelo gli aveva indicato, e trovò quell'uomo occupato a vendere ortaggi. Si sedette accanto a lui per il resto del giorno e, quando ebbe finito gli disse: "Fratello, puoi ricevermi nella tua cella questa notte?". Lo accolse con grande gioia. Giunto nella sua cella si mise a preparare il necessario per rifocillare l'anziano, e questi gli disse: "Fammi questa carità, fratello, raccontami la tua vita". Poiché egli non voleva parlare, l'anziano insistette molto a pregarlo. Convinto dalle suppliche, l'uomo disse: "Mangio solo la sera; quando mi corico, tengo soltanto il necessario per il mio nutrimento; il resto lo do ai poveri e, se ricevo qualcuno dei servi di Dio, lo offro a lui. Quando mi alzo al mattino, prima di sedermi al mio lavoro dico che tutti gli abitanti della città dal più piccolo al più grande, entreranno nel Regno per la loro giustizia, mentre io solo erediterò il castigo per i miei peccati. Anche alla sera, prima di addormentarmi, dico la stessa cosa". Udito ciò l'anziano gli disse: "Quest'opera è buona, ma non è tale da superare le mie fatiche di tanti anni". Mentre si accingevano a mangiare, l'anziano udì che in strada si cantavano delle canzonacce; la cella dell'ortolano si trovava infatti in una zona di cattiva fama. Gli dice l'anziano: "Fratello, tu che vuoi vivere così secondo Dio, come mai rimani in questo luogo? Non ti turbi quando senti cantare queste cose?". L'altro gli dice: "Ti dirò, padre, che non mi sono mai né turbato né scandalizzato". "Ma cosa pensi in cuor tuo quando odi queste cose?", chiede l'anziano. "Penso - egli dice - che essi entreranno certamente nel Regno". A queste parole l'anziano, preso da ammirazione, disse; "Questa è l'opera che supera la mia fatica di tanti anni", e inchinatosi davanti a lui soggiunse: "Perdonami, fratello, non sono ancora giunto a questa misura". Quindi, senza toccar cibo, se ne tornò nel deserto (Apoftegmi, Raccolta alfabetica, anonimo N 67: Vita e detti cit., II, pp. 236-237).

 

5. Letteratura monastica

Vi è però, nei Padri, tutta una riflessione più composta e complessiva. Qui ci soffermiamo sugli scritti di ambito monastico che vengono da Gaza nel VI secolo. Conosciamo, di questo ambiente, almeno tre monaci che ci abbiano lasciato loro scritti: Barsanufio (detto il Grande Anziano) e Giovanni (detto il Profeta), dei quali abbiamo un ricchissimo epistolario, frutto delle risposte che i due davano a molti; e Doroteo (morto tra il 560 e il 580), discepolo di Barsanufio, che ci lasciò il frutto della sua direzione monastica nei suoi Insegnamenti spirituali. Una lettera di Barsanufio sul modo di accogliere e portare le prove:

Risposta del medesimo Grande Anziano allo stesso [monaco] che si era posto in animo di non dare più ordini a nessuno e di fissare per sé la chiara regola di occuparsi solo di se stesso. - Fratello, quanto più io abbondo nello scriverti, tanto più studiati di riflettere sulle cose che ti scrivo e di non renderle vane, poiché sono dette con consapevolezza e serenità d'animo. Tu sai, fratello, che se uno non sopporta gli insulti non vede la gloria, e colui che non depone il fiele non gusta la dolcezza. Ti è stato dato, in mezzo a fratelli e affari, di essere messo alla prova e purificato col fuoco, e l'oro non si prova se non col fuoco. [...] Fai quanto ti è possibile per essere del tutto estraneo all'ira, e divieni un modello utile per tutti, senza giudicare né condannare nessuno ma assumendo gli altri come veri fratelli. E ama di più quelli che ti mettono alla prova. Anch'io spesso ho amato quelli che mi mettevano alla prova. Infatti, se ci pensiamo bene, sono tali persone che ci fanno progredire. Dunque non ti imporre nulla. Sii obbediente e umile ed esigilo da te stesso ogni giorno. [...] Ma se si presenta la necessità di dare ordini a qualcuno, esamina il tuo pensiero e se ciò dovesse produrre un turbamento, anche se ti paresse utile, nascondilo sotto la lingua ricordandoti di colui che dice: "Quale utilità avrà l'uomo se guadagna tutto il mondo, ma perde la sua anima?" (Mt 16,26). Impara questo, fratello, che ogni pensiero che non ha principalmente la calma dell'umiltà non è secondo Dio, ma è manifestamente giustizia traviata. Il Signore nostro viene nella calma; tutto ciò che è invece dell'avversario, viene con l'agitazione e il turbamento della collera; e se paiono essere vestiti della veste dell'agnello, sappi che dentro sono lupi rapaci. Essi si riconoscono dal turbamento che provocano. [...] Tu, mio amato fa' tutto ciò che ti riesce, ponendoti sempre davanti agli occhi il timore di Dio e ringraziandolo. Sua è la gloria, l'onore, la forza e la potenza per i secoli. Amen (Barsanufio, Lettera 21: Barsanufio e Giovanni di Gaza, Epistolario. Traduzione, introduzione e note a cura di M. Francesca Lovato e Luciana Mortari, Roma, Città Nuova, 1991 (Collana di Testi Patristici, 93), pp.96-97).

Un'altra lettera di Barsanufio per aiutare con squisita un monaco malato che aveva peccato:

Un anziano malato di nome Andrea, che viveva ritirato nel cenobio, aveva confessato al medesimo Grande Anziano una delle sue colpe segrete, insieme ringraziandolo che gli fosse stato concesso di abitargli vicino. E lo interrogava riguardo alla malattia del corpo. - Se credi veramente che Dio ti ha portato qui, affida a lui la tua preoccupazione, gettando su di lui ogni tua sollecitudine ed egli amministrerà le cose tue come vuole. Ma se sei esitante su una cosa qualsiasi, sia malattia del corpo, sia passioni dell'anima dovrai pensarci tu, come sai. Poiché, quando uno ha affidato tutto a Dio, se appena è un poco tribolato, l'incertezza lo prende e gli fa dire di continuo: "Se mi fossi preso subito cura del mio corpo, non sarei così tribolato". Ma chi si è dato a Dio con tutto il cuore, deve continuare fino alla morte a consegnarsi a lui così. Giacché egli sa molto più di noi che cosa giova alla nostra anima e al nostro corpo. E quanto più egli permette che noi soffriamo nel corpo, tanto più alleggerisce i nostri peccati. Dio non ti chiede nulla se non rendimento di grazie, sopportazione, preghiera per il perdono dei peccati. Ma vedi che orgoglioso sono, poiché proprio io che mi faccio beffare dai demoni e credo di avere l'amore secondo Dio mi lascio indurre a dirti: "Da questo momento prendo la metà del tuo peso; e per l'avvenire Dio verrà ancora una volta in nostro aiuto". Ho parlato come uno stolto. So infatti di essere debole, incapace e spoglio di ogni opera buona. Tuttavia la sfrontatezza non mi permette di disperare. Poiché possiedi un Signore dalle viscere di misericordia, compassionevole e amante degli uomini che tende la mano al peccatore fino all'ultimo respiro. Aderisci a lui, ed egli in ogni cosa farà al di sopra di ciò che chiediamo o pensiamo. A lui la gloria nei secoli. Amen. Perdonami, fratello e prega per me (Barsanufio, Lettera 73: Lovato e Mortari cit., p.148).

Dagli Insegnamenti spirituali di Doroteo prendo alcuni paragrafi dal capitolo su La necessità di non fondarsi sul proprio giudizio, che insegna a combattere la presunzione e volontà propria poggiando ingannevolmente su se stessi. Il tono è pacato, vuol convincere, prende per mano il lettore con pazienza, dandogli fiducia...

Se l'uomo non espone tutto quello che ha dentro, specialmente se proviene da una vita o da un'educazione cattive, il diavolo trova in lui una volontà propria o una presunzione di aver ragione e per mezzo di esse lo getta a terra. Quando infatti il diavolo vede che uno non vuol peccare, non è mica tanto ingenuo nel fare del male da suggerirgli subito così direttamente un peccato evidente. Non gli dice: "Vattene a fornicare", oppure: "Vattene a rubare", perché sa che queste cose non vogliamo farle e non si azzarda a dirci quel che non vogliamo; ma trova, come ho detto, che noi abbiamo una volontà propria o una presunzione di aver ragione, e per mezzo di esse, sotto pretesti ragionevoli, ci danneggia. Ecco perché è ancora scritto: "Il maligno opera il male quando mette in mezzo la presunzione di aver ragione" (Prov 11,15). 11 maligno è il diavolo, e fa il male quando mette in mezzo la presunzione, cioè la nostra presunzione. E allora che ha più forza, che nuoce di più, che agisce di più. Quando infatti ci attacchiamo alla nostra volontà e ci fondiamo sulle nostre presunzioni, proprio allora, credendo di fare una bella cosa, tendiamo insidie a noi stessi, ci perdiamo e non sappiamo nemmeno come. E come possiamo conoscere la volontà di Dio o cercarla veramente, se confidiamo in noi stessi e ci attacchiamo alla volontà propria? [...] Ecco perché il nemico "odia la parola di sicurezza" (Prov 11,15): perché vuole sempre la nostra rovina. Ecco perché ama quelli che si fondano su sé stessi: perché collaborano col diavolo, tendendosi insidie da soli. Io non conosco altro motivo di caduta per un monaco se non perché si fida del proprio cuore. Certuni dicono: "L'uomo cade per questo o questo motivo". Io invece, come ho detto, non conosco che per nessuno ci sia altro motivo di caduta se non questo. Hai visto qualcuno caduto? Sappi che si fondava su se stesso. Niente è più grave che fondarsi su sé stessi, nulla è più rovinoso di questo. Dio mi ha protetto e ho sempre temuto questo pericolo. [...] Studiatevi anche voi di porre domande, fratelli, e di non fondarvi su voi stessi: imparate quale mancanza di preoccupazioni procura questa cosa, quale gioia, quale tranquillità. [...] Questo ve l'ho detto, fratelli, perché volevo spiegarvi quanto grande riposo e mancanza di preoccupazioni, accompagnata da ogni sicurezza, dia il non fondarsi su sé stessi, ma l'affidare le proprie cose a Dio e a quelli che, dopo Dio, possono farci da guida; imparate dunque anche voi a far domande, fratelli, imparate a non fondarvi su voi stessi: è una cosa bella, è umiltà, è serenità è gioia. Che bisogno c'è di tormentarsi inutilmente? Non è possibile salvarsi altrimenti che così (Doroteo, Insegnamenti spirituali, V, Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali. Traduzione, introduzione e note a cura di Maurizio Paparozzi, Roma, Città Nuova, 1979 (Collana di Testi Patristici, 21), pp. 106-107, 110, 111, 113).

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