COME  SPIEGARSI  CON  "QUELLI  DI  FUORI"

Le "Apologie" di Giustino martire e la "Lettera a Diogneto"

 

1. I pagani di fronte al Cristianesimo

La società pagana, romano-ellenistica, si imbatte nel Cristianesimo. L'incontro non è facile e le conoscenze risultano falsate sia da aspetti di riservatezza dei nuovi credenti (che creano sospetto), sia dalla novità e dal carattere assoluto della fede cristiana (che non ammette di essere mescolata alle altre credenze).

1.1. Le calunnie di taglio popolare

Fra le calunnie "volgati", di tipo popolare, circolano: "quella che fossero cannibali, in quanto si nutrivano delle carni di un fanciullo infarinato (così veniva fraintesa e deformata la dottrina eucaristica!), quella che fossero incestuosi, visto che raccomandavano l'amore scambievole tra fratelli e sorelle, quella che fossero atei, perché disprezzavano gli dèi della tradizionale religione pagana, quella infine che fossero sovversivi e immorali, avendo un regime di vita non ben decifrabile e in ogni caso riconducibile a principi sconosciuti, inverificabili ai non adepti: aderivano a una religione "barbara", provenivano dall'ambito giudaico e li si riteneva condividere con quest'ambito un atteggiamento di "odio al genere umano". In questo contesto di malintesi possono nascere persecuzioni, più o meno ufficiali e organizzate: il contesto di accuse volgari poteva costituire un comodo humus in cui far attecchire la preoccupazione politica e sociale, dal momento che, mettendo in pericolo la religione tradizionale, i cristiani venivano sentiti come socialmente destabilizzanti e quindi pericolosi per la prosperità politica ed economica dell'Impero.

1.2. La lettera di Plinio il Giovane e il rescritto di Traiano

Fra i testi che ci riferiscono di questa mentalità, sono fondamentali la lettera di Plinio il Giovane a Traiano e il rescritto di quest'ultimo, risalenti agli anni 111-113. Plinio, governatore della Bitinia, coinvolto in procedimenti giudiziari contro dei cristiani si domanda se il semplice essere cristiani (il nomen) sia motivo di condanna o se si debbano punire precisi delitti. La risposta di Traiano sembra affermare che il nome è sufficiente motivo di punizione.

La lettera di Plinio: Non ho mai preso parte a processi contro i cristiani e pertanto ignoro come e quanto si usi punire o inquisire. Perciò sono stato non poco incerto se vi sia qualche differenza fra le diverse età o se i più deboli in nulla differiscano dai più forti, se vi sia un perdono per chi si pente, o se a chi sia stato cristiano nulla valga il non esserlo più, se si punisca il nome in quanto tale, in assenza di crimini, oppure i crimini che si uniscono al nome (nomen ipsum, si flagitiis careat, an flagitia cohaerentia nomini puniantur). [...] Affermavano che il massimo della loro colpa o errore era consistito nell'essere soliti, in un dato giorno, riunirsi prima del giorno e cantare alternatamente un inno a Cristo come a un dio, di obbligarsi reciprocamente con un giuramento non già per fini delittuosi, ma impegnandosi a non commettere furti, ladrocini, adulteri, a non mancar di fede, a non rifiutare, se richiesta, la restituzione di un deposito. Dopo di ciò erano soliti allontanarsi e di nuovo riunirsi per prendere cibo, di genere per altro comune e innocente. Dicevano poi di aver cessato anche da queste pratiche dopo li mio editto, col quale in seguito ai tuoi ordini avevo proibito le hetaeriae [dal greco, compagnie, associazioni]. Perciò ben più necessario ho creduto cercare, anche per mezzo della tortura, di venir a sapere da due schiave, dette ministrae, cosa vi fosse di vero, ma non potei apprendere null'altro che l'esistenza di una superstizione perversa e sfrenata (superstitionem pravam, immodicam) [Plinio il Giovane, Lettera 96 a Traiano Imperatore, 1-3.7-8: I pagani di fronte aI Cristianesimo. Testimonianze dei secoli I e II. A cura di Paolo Carrara, Firenze, Nardini, 1984 (Biblioteca Patristica, 2), pp. 54-59].

Il rescritto di Traiano: Non è possibile dare una disposizione che abbia, per così dire, una validità universale. Certo non devono essere ricercati; se poi vengono denunziati e convinti, devono essere puniti, ma tenendo presente che chi negherà di essere cristiano e lo proverà con i fatti, invocando i nostri dèi, anche se sospetto per il passato, trovi perdono in seguito al pentimento. Ma le denunzie anonime non debbono aver spazio in nessun procedimento giudiziario perché sono pessimi precedenti e indegne dell'epoca nostra [Traiano, Rescritto = Plinio il Giovane, Lettera 97, 1-2: Carrara cit., pp.58-59].

Il commento di Tertulliano: Allora Traiano decretò che quella gente (i Cristiani) non doveva essere ricercata, ma che, se erano denunciati al tribunale, si doveva punirli. O sentenza per necessità illogica! Essa dice che non si deve cercarli, come degli innocenti, ed ordina di punirli come dei colpevoli. Risparmia e incrudelisce, chiude gli occhi e punisce. Perché ti esponi tu stesso alla censura? Se tu li condanni, perché non li ricerchi? Se non li ricerchi, perché anche non li assolvi? [Tertulliano, Apologetico, 2,7-8: Tertulliano, Apologia del Cristianesimo. Introduzione e note di Claudio Moreschini, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1984, pp. 78 -81].

1.3. Le accuse popolari raccolte nell'Ottavio di Minucio Felice

L'Ottavio di Minucio Felice è un dialogo in cui sono state raccolte alcune delle accuse rivolte ai cristiani in senato da Marco Cornelio Frontone, tutore dell'imperatore Marco Aurelio. Siamo attorno alla metà del II secolo: Frontone fu senatore nel 143 e morì dopo il 166.

Non ci si dovrebbe forse sdegnare se uomini di una setta deplorata, illecita e disperata si scagliano contro gli dei? Danno forma costoro a una congerie di persone le più ignoranti, raccolte dall'infima feccia e di donne credule, deboli per la tipica influenzabilità del loro sesso, riducendole a empia congrega; essi in convegni notturni, in digiuni solenni, in pasti disumani fanno unione non sulla base di alcunché di sacro, ma piuttosto di un sacrilegio: gente che si allieta delle tenebre e paventa la luce. [...] Ovunque fra loro serpeggia una specie di religione della libidine e senza distinzione si chiamano fratelli e sorelle, cosicché anche il normale amplesso si trasforma, mediante il sacro appellativo, in incesto. Così mena vanto di delitti la loro infondata e folle superstizione. [...] Ho sentito dire che venerano, non so in base a quale sciocco convincimento una testa consacrata d'asino, del più ignobile fra gli animali. [...] Sulla iniziazione delle nuove leve gira una storia tanto esecrabile quanto nota. Un bambino coperto di farina per ingannare gli ignari viene posto innanzi a colui che deve essere iniziato ai loro riti; il bambino viene ucciso con cieche e occulte ferite dall'adepto, spinto per la superficie di farina a colpire con un'apparenza di innocuità. Poi, oh nefandezza, sitibondi leccano il sangue del bambino e a gara se ne spartiscono le membra: per mezzo d'una tale vittima stringono un patto e con la complicità di questo delitto s'impegnano al mutuo silenzio. Ecco i loro riti sacri più turpi d'ogni sacrilegio. Dei loro conviti tutto, poi, è noto; ne vanno parlando tutti e anche l'orazione del nostro Cirtese ne è testimone. Si radunano per pranzare in un giorno di festa con tutti i figli, le sorelle, le madri, persone di ogni sesso e di ogni età. Lì, dopo aver cenato abbondantemente, quando il convito si scalda e l'ardore dell'ebrietà d'incestuosa libidine divampa, un cane, legato al candelabro, viene provocato a saltare e dare strappi col lancio d'un boccone in un luogo più lontano di quanto la catena che lo trattiene non consenta. Così, rovesciato e spento il lume testimone, nelle tenebre cieche al pudore, intrecciano amplessi frutto di brame innominabili, a caso, tutti egualmente incestuosi almeno nelle intenzioni, se non proprio nell'atto [Minucio Felice, Ottavio, VIII, 3-4; IX, 2-3.7: Carrara cit., pp. 90 -97].

1.4. Le accuse dotte di Celso

Celso scrive il Discorso veritiero nel 178: la prima grande opera polemica contro i cristiani, che conosciamo per ampia parte, perché citata tratto tratto da Origene nel Contro Celso. Celso oppone al giudaismo e al cristianesimo la:

dottrina antica, che è esistita fin dall'inizio, su cui hanno sempre convenuto le nazioni più sapienti, e le città e gli uomini sapienti [Origene, Contro Celso, I, 14: Origene, Contro Celso. A cura di Aristide Colonna, Torino, UTET, 1971, p.57].

Celso rimprovera al cristianesimo il suo carattere di novità: l'onere della prova infatti sta alla dottrina nuova che si presenta sulla scena quando le altre dottrine e tradizioni sono ormai assodate. Celso accusa inoltre i cristiani di attaccarsi a una fede che non possono giustificare razionalmente, e di mancare di senso critico, in particolare riguardo all'incarnazione di Cristo, che contraddice la trascendenza divina e l'ordine che regge il mondo.

L'asserzione poi che fanno alcuni dei cristiani e i giudei, gli uni che è già disceso sulla terra, gli altri che discenderà sulle terra un dio, o figlio di dio, per giudicare l'umanità, questa è cosa sommamente vergognosa, e non occorre un lungo discorso per confutarla. Che senso avrebbe una tale discesa per il dio? forse per apprendere quanto avviene tra gli uomini? ma egli non conosce forse tutte le cose? Dunque le conosce, e non le raddrizza o non ha la capacità di raddrizzarle con la sua potenza? è dunque impossibile per lui raddrizzare con la sua divina potenza, senza mandare qualcuno destinato per natura a questo compito? [...] Dio non ha bisogno di esser conosciuto per se stesso, ma per la nostra salvezza egli vuol dare a noi la conoscenza di se stesso, affinché coloro che la ricevono possano divenire virtuosi e salvarsi, mentre coloro che non la ricevono siano convinti della loro malizia e puniti: dunque proprio adesso, dopo tanti secoli, Dio si è ricordato di render giusta la vita degli uomini, mentre prima l'aveva trascurata? [...] Che in realtà costoro blaterano queste cose in modo empio e impuri su Dio, risulta ben chiaro [Origene, Contro Celso, IV, 2-3.7.10: Colonna cit., pp. 296-298, 302,304].

 

2. Gli apologisti

Da tutte queste accuse veniva la necessità di scrivere opere in difesa della fede cristiana: le cosiddette Apologie (donde il nome di apologisti ai loro autori). Talora sono scritti molto polemici, altre volte però vogliono essere una presentazione pacata, affinché gli altri possano farsi una ragione articolata e positiva della fede cristiana: in questo senso le Apologie possono essere intese anche come strumenti di dialogo dei cristiani: anzitutto per chiarirsi anzitutto di fronte agli altri (ai pagani), poi per chiedere di essere accolti per quello che si è, infine per trovare punti comuni, di apprezzamento, anche "nel territorio dell'altro".

2.1. Giustino e la sua conversione alla fede cristiana

In questa linea si colloca il filosofo Giustino, originario di Sichem (Naplus) in Palestina. Nella ricerca febbrile della verità passa attraverso differenti esperienze filosofiche, che lo lasciano insoddisfatto, giungendo infine alla fede cristiana: l'unica, vera e definitiva filosofia che salva l'uomo. Ne narra nel Dialogo con Trifone.

Ti dirò come vedo io le cose, dissi. La filosofia in effetti è il più grande dei beni e il più prezioso agli occhi di Dio, l'unico che a lui ci conduce e a lui ci unisce, e sono davvero uomini di Dio coloro che hanno volto l'animo alla filosofia. [...] Anch'io da principio, desiderando incontrarmi con uno di questi uomini, mi recai da uno stoico. Passato con lui un certo tempo senza alcun profitto da parte mia sul problema di Dio (lui non ne sapeva niente, e d'altra parte diceva trattarsi di una cognizione non necessaria), lo lasciai e andai da un altro, chiamato peripatetico [aristotelico]. Acuto, o almeno si riteneva tale. Costui per i primi giorni mi sopportò, poi pretendeva che per il seguito stabilissi un compenso, pena l'inutilità della nostra frequentazione. Per questo motivo abbandonai anche lui, ritenendolo proprio per nulla un filosofo. [Analogamente accade con un pitagorico]. Senza vie d'uscita, decisi di entrare in contatto anche con i platonici, i quali pure godevano di grande fama. Eccomi dunque a frequentare assiduamente un uomo assennato, giunto da poco nella mia città che eccelleva tra i platonici, e ogni giorno faceva progressi notevolissimi. Mi affascinava la conoscenza delle realtà incorporee e la contemplazione delle Idee eccitava la mia mente. Ben presto dunque ritenni di essere diventato un saggio e coltivavo la sciocca speranza di giungere alla visione immediata di Dio. Perché questo è lo scopo della filosofia di Platone [Giustino, Dialogo con Trifone, 2, 1.3.6: Giustino, Dialogo con Trifone, Introduzione, traduzione e note di Giuseppe Visonà, Milano, Edizioni Paoline, 1988, pp. 88-91].

A questo punto Giustino si reca in riva al mare per riflettere solo, ma gli si accosta un vegliardo, filosofo cristiano, che gli contesta alcuni punti del platonismo e gli dimostra l'insufficienza della sapienza umana per arrivare alla verità totale e alla conoscenza di Dio. Giustino allora domanda a quale maestro si possa ricorrere. L'anziano risponde:

"Molto tempo fa, prima di tutti costoro che sono tenuti per filosofi, vissero uomini beati, giusti e graditi a Dio, che parlavano mossi dallo spirito divino e predicevano le cose future che si sono ora avverate. Li chiamano profeti e sono i soli che hanno visto la verità e l'hanno annunciata agli uomini senza remore o riguardo per nessuno e senza farsi dominare dall'ambizione, ma proclamando solo ciò che, ripieni di Spirito santo, avevano visto e udito. [...] Essi non hanno presentato i loro argomenti in forma dimostrativa, in quanto rendono alla verità una testimonianza degna di fede e superiore a ogni dimostrazione, e gli avvenimenti passati e presenti costringono a convenire su ciò che è stato detto per mezzo loro. Essi inoltre si sono mostrati degni di fede in forza dei prodigi che hanno compiuto, e questo perché hanno glorificato Dio Padre, creatore di tutte le cose, e hanno annunciato il Figlio suo, il Cristo da lui inviato. [...] Prega dunque perché innanzitutto ti si aprano le porte della luce, si tratta infatti di cose che non tutti possono vedere e capire ma solo coloro cui lo concedono Dio e il suo Cristo". [...] Dopo aver detto queste e altre cose [...] quel vecchio se ne andò con l'esortazione a non lasciarle cadere, e da allora non l'ho più rivisto. Quanto a me, un fuoco divampò all'istante nel mio animo e mi pervase l'amore per i profeti e per quegli uomini che sono amici di Cristo. Ponderando tra me e me le sue parole trovai che questa era l'unica filosofia certa e proficua. In questo modo e per queste ragioni io sono un filosofo, e vorrei che tutti assumessero la mia stessa risoluzione e più non si allontanassero dalle parole del Salvatore [Giustino, Dialogo con Trifone, 7,1 - 8,2: Visonà cit., pp. 103-106].

2.2. Giustino e le sue "Apologie"

Dopo la conversione Giustino continua il suo insegnamento a Roma e da lì indirizza all'imperatore Antonino Pio un'Apologia (ca.155), alla quale aggiungerà più tardi un'appendice (nota come Seconda apologia). Egli presenta la nuova religione all'imperatore e alla società, e insieme chiede che l'autorità si comporti in modo giuridicamente più corretto verso i cristiani. Tuttavia per l'invidia del filosofo pagano Crescente, che Giustino affronta nell'Apologia, finirà per pagare con il martirio la sua fedeltà al cristianesimo (se ne vedano gli Atti). Il messaggio più singolare e positivo di Giustino riguarda la valorizzazione dell'antica filosofia: egli afferma che ai cristiani è stato rivelato tutto il Logos, ma ai sapienti antichi almeno alcuni "semi" del Logos erano noti e permettevano loro di esprimere verità parziali.

Abbiamo appreso che Cristo è il primogenito di Dio e abbiamo ricordato che è il Logos, di cui partecipa tutto il genere umano. Coloro che hanno vissuto secondo il Logos sono cristiani, anche se sono stati considerati atei, come, tra i Greci, Socrate ed Eraclito, e altri simili, e, tra i barbari [cioè non greci], Abramo, Anania, Azaria, Misaele, Elia e molti altri ancora, dei quali ora non elenchiamo le opere e i nomi, sapendo che sarebbe troppo lungo. Di conseguenza, coloro che hanno vissuto prima di Cristo, ma non secondo il Logos, sono stati malvagi, nemici di Cristo e assassini di quelli che vivevano secondo il Logos; al contrario, quelli che hanno vissuto e vivono secondo il Logos sono cristiani, non soggetti a paure e turbamenti [Giustino, Prima apologia, XLVI 2-4: Liébaert cit., p.52]. Pertanto è evidente che la nostra dottrina è superiore a ogni dottrina umana poiché per noi la razionalità nella sua interezza si è manifestata in Cristo, in corpo, intelletto e anima. In effetti, tutto ciò che di buono i filosofi e i legislatori hanno sempre scoperto e formulato, è dovuto all'esercizio di una parte del Logos che è in loro, tramite la ricerca e la riflessione. Però dato che non hanno conosciuto la pienezza del Logos, che è Cristo, spesso hanno sostenuto teorie che si contraddicevano a vicenda. Coloro che hanno vissuto prima di Cristo, e che con le forze umane si sono sforzati di spiegare e contemplare la realtà secondo ragione, sono stati condotti in tribunale con l'accusa di essere empi e superstiziosi. Colui che si era posto con fermezza più di ogni altro questo obiettivo, Socrate, è stato vittima delle nostre stesse accuse: dissero, infatti, che introduceva nuove divinità e che non credeva negli dèi riconosciuti dalla città. Egli, invece, insegnava agli uomini a rifiutare i cattivi demoni e gli dèi che avevano compiuto le empietà narrate dai poeti, facendo bandire dalla repubblica Omero e gli altri poeti, ed esortava alla conoscenza del Dio a loro ignoto, tramite la ricerca razionale, dicendo: "Non è facile trovare il Padre e il Creatore dell'universo, ed è impossibile, per chi l'ha trovato, parlarne a tutti" (Platone, Respublica, 2, 377d). Questo [cioè rivelarlo a tutti] è ciò che ha fatto il nostro Cristo, per sua propria potenza. A Socrate, infatti, nessuno ha creduto fino al punto di morire per la sua dottrina; a Cristo, invece, che in parte era stato conosciuto anche da Socrate (infatti era ed è il Logos che è presente in ogni uomo, che ha preannunciato gli eventi futuri per mezzo dei profeti e in persona, che si è fatto come noi mortali e che ci ha rivelato queste verità), hanno creduto non solo filosofi e sapienti, ma anche artigiani e persone dei tutto ignoranti, sprezzanti del giudizio altrui, della paura e della morte: perché questa è potenza del Padre ineffabile, e non prodotto dell'umana ragione. [...] Confesso di essere stato conosciuto come cristiano, di vantarmene e di combattere in ogni modo, non perché le dottrine di Platone siano estranee a quelle di Cristo, ma perché non sono del tutto simili, come, del resto, anche quelle di altri, Stoici, poeti e scrittori. Ognuno di essi, infatti, ha potuto formulare correttamente qualche teoria, contemplando quella parte del divino Logos seminale che è innata: i medesimi, però, avendo sostenuto dottrine che si contraddicono a vicenda su questioni più importanti, dimostrano chiaramente di non possedere una scienza infallibile e una conoscenza irrefutabile. Pertanto, tutto ciò che è stato espresso correttamente da ognuno di essi, appartiene a noi cristiani: noi, infatti, adoriamo e amiamo, dopo Dio che è ingenerato ed ineffabile, il Logos generato da Dio, poiché si è fatto uomo per noi, per salvarci dalle nostre miserie, delle quali si è fatto partecipe. Tutti gli scrittori, infatti, per mezzo del seme innato del Logos presente in essi, hanno potuto contemplare la realtà in modo impreciso. Infatti una cosa è un seme, un'imitazione, concesso agli uomini per quanto è possibile, e un'altra è il soggetto stesso dal quale, per sua grazia, hanno origine la partecipazione e l'imitazione [Giustino, Seconda apologia, X,2-8; XIII, 2-6: Liébaert cit.,pp.53-54].

Giustino fa inoltre balenare la possibilità (anzi la necessità!) che i cristiani, lungi dal costituire un elemento di turbamento nella vita sociale, diventino i più sicuri e fidati alleati dell'autorità costituita: la morale evangelica, così esigente, costituisce il cemento spirituale di cui la società pagana ha assolutamente bisogno. I cristiani si presentano così come i garanti dell'ordine stabilito, i sudditi migliori dell'Impero.

2.3. La "Lettera a Diogneto"

La cosiddetta Lettera a Diogneto riafferma questa positività dei cristiani nella vita sociale, a un livello anche più profondo. È un'apologia, indirizzata a mo' di lettera a un certo Diogneto, della seconda metà del II secolo. La sua bellezza è data dalla semplicità e dalla elevatezza dei suoi pensieri sul cristianesimo. Essa infatti sviluppa l'immagine dei cristiani immersi nel mondo come tutti, ma insieme "anima del mondo", che quindi vivificano il mondo come fa l'anima con il corpo.

I cristiani infatti non si differenziano dagli altri uomini né per territorio né per lingua o abiti. Essi non abitano in città proprie né parlano un linguaggio inusitato; la vita che conducono non ha nulla di strano. La loro dottrina non è frutto di considerazioni ed elucubrazioni di persone curiose, né si fanno promotori, come alcuni, di una qualche teoria umana. Abitando nelle città greche e barbare, come a ciascuno è toccato, uniformandosi alle usanze locali per quanto concerne l'abbigliamento, il vitto e il resto della vita quotidiana mostrano il carattere mirabile e straordinario, a detta di tutti, del loro sistema di vita. Abitano nella propria patria, ma come stranieri, partecipano a tutto come cittadini, e tutto sopportano come forestieri, ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria è terra straniera. Si sposano come tutti, generano figli, ma non espongono i neonati. Hanno in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti e da tutti sono perseguitati. Non sono conosciuti, eppure vengono condannati; sono uccisi, e tuttavia sono vivificati. Sono poveri e arricchiscono molti; mancano di tutto e di tutto abbondano. Sono disprezzati, ma nel disprezzo acquistano gloria; vengono bestemmiati e al tempo stesso si rende testimonianza alla loro giustizia. Vengono oltraggiati e benedicono; sono insultati, e invece rendono onore. Benché compiano il bene, vengono puniti come malfattori; benché puniti, gioiscono, come se ricevessero la vita. Dai giudei sono combattuti come stranieri e dai greci sono perseguitati, ma chi li odia non sa spiegare il motivo della propria avversione nei loro confronti. Insomma, per dirla in breve, i cristiani svolgono nel mondo la stessa funzione dell'anima nel corpo. L'anima è diffusa in tutte le membra del corpo; anche i cristiani sono sparsi per le città del mondo. L'anima abita nel corpo, ma non è del corpo; anche i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L'anima invisibile è imprigionata nel corpo visibile; i cristiani, essendo nel mondo, sono visibili, ma il culto che rivolgono a Dio rimane invisibile. La carne odia l'anima e la combatte, pur senza ricevere alcuna ingiustizia, perché le impedisce di abbandonarsi ai piaceri; anche i cristiani sono odiati dal mondo, benché non gli facciano alcun torto, perché si oppongono ai piaceri. L'anima ama la carne e le membra che la odiano, come i cristiani amano chi li odia. L'anima, che pure sostiene il corpo, è rinchiusa in esso; anche i cristiani, pur essendo il sostegno del mondo, sono imprigionati in esso come in un carcere. L'anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri fra ciò che è corruttibile, mentre aspettano l'incorruttibilità celeste. Con le mortificazioni nel mangiare e nel bere, l'anima diventa migliore; i cristiani, benché perseguitati, diventano ogni giorno di più. Dio ha assegnato loro un posto così sublime, e a essi non è lecito abbandonarlo [Lettera a Diogneto, 5-6: M. Simonetti - E. Prinzivalli, Letteratura cristiana antica, Piemme, Casale Monferrato, 1996, I, pp.171-773]

2.4. Il martirio di Giustino e dei suoi compagni

Gli Atti del martirio di Giustino e compagni (165 circa) sono un esempio di testo cristiano desunto dal protocollo dello stesso processo: quindi una fonte di primaria importanza storica.

Appena furono condotti al tribunale, il prefetto Rustico intimò a Giustino: "Prima di tutto credi agli dèi e ubbidisci agli imperatori". - Rispose Giustino: "Irreprensibile e immune da condanna è per me l'obbedienza ai comandamenti del nostro Salvatore Gesù Cristo". - Il prefetto Rustico chiese: "Quale concezioni filosofiche segui?". - Rispose Giustino: "Mi sono dedicato allo studio di tutti i sistemi filosofici, ma ho aderito con tutta la mia anima soltanto alle veritiere dottrine dei Cristiani anche se non piacciono a coloro che vivono nell'errore". - Il prefetto Rustico chiese: "A te dunque piacciono queste dottrine, sciagurato?". - Rispose Giustino: "Si, perché le seguo secondo il vero dogma". - "Quale é questo dogma?", domandò Rustico. - Giustino rispose: "Quello che ci insegna a credere nel Dio dei Cristiani, che consideriamo Dio unico, creatore e ordinatore di tutto l'universo, visibile e invisibile, e nel Figlio di Dio, nostro Signore Gesù Cristo, del quale anche i profeti avevano predetto che sarebbe venuto ad annunciare la salvezza al genere umano e a insegnare la vera dottrina. E io misero mortale penso di dire ben poco rispetto alla sua divinità infinita perché riconosco che è necessaria la virtù profetica per parlarne e ripeto che i profeti hanno parlato di colui che ho chiamato Figlio di Dio. Sappi infatti che i profeti predissero la sua venuta tra gli uomini". [...] Chiese infine Rustico: "Insomma sei dunque cristiano?". - Rispose Giustino: "Si, sono cristiano". - Rustico disse: "Se non obbedirete, sarete inesorabilmente castigati". - Giustino rispose: "Il nostro più grande desiderio è di soffrire per amore del nostro Signore Gesù Cristo e così salvarci; giacché la nostra sofferenza si muterà per noi in motivo di salvezza e di fiducia davanti al tremendo e universale tribunale del nostro Signore e Salvatore". Tutti gli altri martiri confermarono e aggiunsero: "Fa' presto quello che vuoi fare, poiché noi siamo cristiani e non sacrifichiamo agli dèi" . - Il prefetto Rustico pronunciò allora la sentenza: Costoro che non hanno voluto sacrificare agli dèi né obbedire agli ordini dell'imperatore, siano prima flagellati e poi condotti al supplizio e decapitati, secondo le leggi". - I santi martiri, glorificando Dio, salirono sul patibolo e col taglio della testa consumarono il loro martirio per confessare la fede nel nostro Salvatore. Alcuni fedeli portarono poi via i loro corpi e li seppellirono convenientemente, cooperando con essi la grazia di nostri Signore Gesù Cristo, cui sia gloria per i secoli dei secoli. Amen.

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