COME  FARE  TEOLOGIA  NELLA  CHIESA

La scuola teologica di Alessandria d'Egitto e la riflessione di Origene

 

1. Alessandria d'Egitto e il "didaskaleion"

Alessandria era la seconda città dell'Impero (raggiunse il milione di abitanti), importante centro economico e commerciale e il più attivo centro intellettuale greco. Alessandria aveva una comunità giudaica fiorente: ad Alessandria era stata tradotta in greco la Bibbia (AT), nella versione detta dei Settanta, e aveva vissuto Filone, contemporaneo di Gesù, che cercò di conciliare Scrittura e filosofia greca. Evangelizzata dalla più remota antichità (si crede da san Marco), vide svilupparsi sia il forte movimento dello gnosticismo sia una propria "scuola catechistica": il didaskaleion. Iniziato verso il 180 da Panteno, il didaskaleion fu poi proseguito da Clemente (Alessandrino). Il vescovo Demetrio ne fece una vera e propria "scuola di teologia per laici", e vi chiamò a insegnare, alla giovanissima età di 18 anni, Origene, "incontestabilmente il più grande pensatore della Chiesa greca" (Pier Franco Beatrice).

 

2. Origene di Alessandria: la sua vita

Origene (185-253) è figlio di un martire, Leonida (202). La sua vita sarà sempre caratterizzata da un anelito di perfezione, con un'aspirazione alla vita religiosa sino alle vette del misticismo. Allo stesso tempo si rivela fornito di una formidabile intelligenza speculativa, dotato di una ammirevole capacità di lettura e di elaborazione concettuale. Ordinato sacerdote dal vescovo di Gerusalemme senza il permesso del suo vescovo Demetrio, fu allontanato da Alessandria nel 230 e non poté più rientrarvi. Si rifugiò a Cesarea dove fondò una scuola come ad Alessandria. Nel 253 morì a seguito delle torture subite durante la persecuzione dell'imperatore Decio.

 

3. Origene e il "metodo teologico"

La riflessione di Origene parte dalla Bibbia. Con Origene la lettura della Bibbia viene compiuta in modo sistematico: egli predica e scrive omelie e commentari biblici, e insieme ricompone i risultati della sua riflessione in un complesso sistematico e articolato. Quindi si può dire che con Origene nasca anche la teologia in senso vero e proprio. Nel trattato su I princìpi egli precisa i criteri di una retta teologia e distingue gli argomenti di libero dibattito dai fondamenti della fede (la regula fidei) che vengono consegnati dalla Tradizione. Nella Prefazione de I princìpi Origene, a questo proposito, distingue fra i semplici fedeli e i "perfetti" che cercano la conoscenza approfondita delle verità divine:

Tutti coloro che credono e sono certi che grazia e verità sono venute per opera di Gesù Cristo, e sanno che Cristo è verità, secondo quanto egli stesso ha detto: "Io sono la verità", (Gv 14,6), ricevono la scienza che indirizza gli uomini a vivere rettamente e felicemente non da altri che dalle parole e dalla dottrina di Cristo (Origene, I principi, Prefazione, 1: Origene, I principi. A cura di Manlio Simonetti, Torino, UTET, 1968, p. 118).

Quindi il fondamento è Cristo e la sua parola. Perché allora vi sono differenti interpretazioni?

Molti tuttavia di coloro che professano di credere in Cristo discordano non soltanto su questioni di poco conto, ma anche della massima importanza [...]. Sembra perciò necessario stabilire prima su questi singoli punti una precisa distinzione e una chiara regola (regula fidei), poi ricercare anche sugli altri punti. Come infatti sono tanti, presso i Greci e i barbari, che promettono verità, ma noi abbiamo smesso di cercarla fra coloro che l'affermavano con falsi insegnamenti dopo che abbiamo creduto che Cristo è il Figlio di Dio e ci siamo convinti che da lui l'avremmo dovuta apprendere: così sono molti che credono di comprendere la verità di Cristo e alcuni di loro sono in contrasto con gli altri, ma è in vigore l'insegnamento della Chiesa tramandato dagli apostoli per ordine di successione e tuttora nelle Chiese conservato: pertanto quella sola bisogna tenere per verità che in nessun punto si discosti dalla tradizione ecclesiastica e apostolica (Origene, I principi, Prefazione, 2: Simonetti cit., pp. 119-120).

Come allora distinguere i contenuti della regula fidei dalla ulteriore riflessione teologica?

Occorre sapere che gli apostoli, che predicarono la fede di Cristo, su alcuni punti che ritennero necessari espressero in forma chiarissima il loro insegnamento a tutti i credenti, anche a quelli che erano meno propensi alla ricerca della scienza divina: ma la dimostrazione razionale dei loro enunciati lasciarono da indagare a coloro che avessero meritato i doni sublimi dello spirito e soprattutto avessero ottenuto dallo Spirito Santo il dono della parola, della sapienza e della scienza (cfr. 1Cor 12,7-8); di altre verità gli apostoli affermarono l'esistenza ma ne tacquero modalità e origine certo perché i più diligenti fra i loro discendenti, amanti della sapienza, potessero dedicarsi a un esercizio in cui mostrare i frutti del loro ingegno: mi riferisco a coloro che si sarebbero resi degni e capaci di ricevere la sapienza (Origene, I principi, Prefazione, 3: Simonetti cit., pp. 120-121).

Lo sforzo che Origene compie vuole anche rispondere all'accusa che i cristiani fossero un ammasso di gente ignorante e fanatica, estranea alle esigenze e al modo di pensare e di esprimersi caratteristici della cultura greca. Origene ne I princìpi confuta nei fatti queste accuse: i dati della fede cristiana vi sono infatti esposti, esaminati, approfonditi. Con questo suo modo di procedere, quindi, Origene è apologeta e missionario, anche se questa ricerca, ancora iniziale e in un contesto non ancora ben determinato, potrà essere malamente valutata in seguito. Alcune ipotesi che egli affronta in libertà, verranno poi ritenute errate e condannate. Origene ad esempio immaginava (derivandolo dal mito platonico della preesistenza delle anime) che Dio avesse creato all'inizio un mondo spirituale nei quale le anime hanno peccato e dal quale sono cadute nei corpi; ammetteva pure l'apocatastasi, cioè il ristabilimento finale di tutti gli spiriti nel bene. Queste sue affermazioni (o ipotesi che fossero) gli valsero accuse e condanne post mortem; analogamente furono fraintese certe sue affermazioni in qualche modo "subordinazioniste" sul Figlio e sullo Spirito, condannate anacronisticamente alla luce delle successive acquisizioni. Per capire Origene sarebbe bastato riconoscere la sua onestà intellettuale e il suo metodo umile di ricerca come già scriveva di lui il suo discepolo Panfilo di Cesarea.

Noi tuttavia constatiamo che egli frequentemente parla con un grande timore di Dio e in tutta umiltà quando si scusa di esporre ciò che gli viene in mente durante discussioni molto approfondite e nel corso di un esame accurato delle Scritture: nella sua esposizione usa spesso aggiungere e confessare che non esprime un parere definitivo, né espone una dottrina stabilita, ma sta cercando secondo le proprie forze, discute il senso delle Scritture senza pretendere di averle capite in maniera integrale né perfetta. Afferma che su molti punti ha piuttosto un presentimento, ma non è sicuro di aver raggiunto in ogni cosa la perfezione né la soluzione integrale. A volte lo notiamo riconoscere di essere incerto su numerosi punti a proposito dei quali solleva le questioni che gli vengono alla mente: non dà loro soluzione alcuna, ma in tutta umiltà e verità non arrossisce di confessare che per lui non tutto è chiaro. Lo udiamo spesso mescolare ai suoi discorsi parole che oggi stesso i più ignoranti dei suoi detrattori non si degnerebbero di pronunciare, e cioè che se qualcuno parla o si esprime su questi argomenti meglio di lui è preferibile ascoltare quest'ultimo e non lui. Inoltre a volte lo scorgiamo dare del medesimo argomento spiegazioni diverse, e in tutta riverenza, come uno che sa di parlare delle sacre Scritture; esposti i numerosi pensieri che gli sono venuti alla mente, chiede ai suoi lettori di saggiare ciascuna delle sue affermazioni e di tener per buono quanto il lettore prudente avrà ritenuto più giusto. Ciò sicuramente perché tutte le questioni sollevate e discusse non dovevano essere ritenute degne di approvazione e definitivamente risolte, per il fatto che, secondo la nostra fede, nelle Scritture molte sono le cose misteriose e nascoste nel segreto. Se consideriamo più attentamente con quale sincerità e con quale senso cattolico testimonia a proposito di tutti i suoi scritti nella prefazione dei libri scritti sulla Genesi, conosceremo facilmente a partire da questo testo tutto il suo pensiero (Panfilo, Apologia di Origene, Prefazione: Liébaert cit., p. 103).

 

4. Origene esegeta

Come esegeta Origene è anzitutto preoccupato di conoscere in modo adeguato il testo biblico: è sua la cosiddetta Esapla, una Bibbia su sei colonne conservata a Cesarea di Palestina (ebraico, ebraico traslitterato, e 4 traduzioni greche: Settanta, Aquila, Simmaco, Teodozione). Nel suoi commenti Origene utilizza molto il metodo allegorico: non si trattava di far dire alla Bibbia dell'altro oltre a quanto vi si leggeva o di muoversi a proprio piacimento nel testo sacro, con fantasia. Si trattava piuttosto di coglierne il significato più profondo, il senso che un testo riceve, sotto lo sguardo della fede, una volta ricollocato nell'insieme della Sacra Scrittura. Già san Paolo aveva spiegato che la Nuova Alleanza era "non della lettera ma dello Spirito, perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita" (2Cor 3,6). I Padri sono convinti che Dio nella Scrittura parla ai cristiani "oggi", e quindi non si accostano alla Bibbia come a un semplice documento storico ma sempre come a un libro di vita, destinato alla "nostra istruzione". Esistono infatti due modi per accostarsi alle Scritture, ambedue necessari e proficui: da una parte il modo che ricolloca ciascuno dei libri biblici nel suo ambito originario, ricercane il significato immediato che dovette avere nel tempo e nel luogo della sua apparizione (questo è il metodo oggi denominato "storico-critico"); dall'altra parte la lettura approfondita in spirito di fede, che coglie il significato della pagina biblica all'interno della storia di salvezza, come avevano già fatto gli autori del Nuovo Testamento. In particolare, per quanto riguardava l'Antico Testamento, questo significava cercare nelle pagine bibliche il compimento che esse avevano in Cristo: sia utilizzando le connessioni già presenti nel Nuovo Testamento (ad esempio il sacrificio d'Isacco e la croce di Cristo, il passaggio del mare Rosso e il battesimo, la manna e l'eucaristia), sia procedendo oltre in questo percorso con una esegesi innovativa, che scopre nuovi rapporti fra i passi biblici più lontani per collocazione e per significato. Questo modo di procedere può sconcertare il lettore moderno, e francamente non tutte le "fantasie" degli antichi sono avvedute, ma costituisce spesso un tesoro di scoperta della ricchezza mai esaurita del testo biblico. Ogni strumento deve infatti essere usato bene: però la lettura della Bibbia che cerca il significato profondo, cioè il mistero di Cristo che parla oggi a me cristiano, rimane un invito essenziale a ogni lectio autentica e proficua.

 

5. Esempi di commenti biblici di Origene

Prima di accostare alcuni commenti biblici di Origene è opportuno leggere i suggerimenti che su questo argomento egli dava al suo discepolo Gregorio Taumaturgo.

Tu dunque, o mio signore e figlio, dèdicati principalmente alla lettura delle divine Scritture, ma dèdicati. Infatti noi abbiamo bisogno di molta applicazione, quando leggiamo i libri divini, per non pronunciare qualche parola o avere qualche pensiero troppo temerario a loro riguardo. Applicandoti a leggerli con il fine di credere e di piacere a Dio, bussa durante la lettura alla porta di ciò che è chiuso e ti sarà aperto da quel portinaio, di cui Gesù ha detto: "A costui il portinaio apre" (Gv 10,3). Applicandoti a questa divina lettura, cerca con rettitudine e con una confidenza incrollabile in Dio, il senso delle divine Scritture, nascosto ai più. Non accontentarti di bussare e di cercare: infatti è assolutamente necessaria la preghiera per comprendere le cose divine. È per esortarci che il Salvatore ha detto non solo: "Bussate e vi sarà aperto" e "Cercate e troverete", ma anche: "Chiedete e vi sarà dato" (Mt 7,7). Ho osato parlare così a causa del mio paterno amore per te. Se è bene o no l'averlo osato, Dio solo può saperlo e il suo Cristo, e colui che partecipa allo Spirito di Dio e allo Spirito di Cristo (Origene, Lettera a Gregorio Taumaturgo, 4: Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli II e III, Torino, SEI, 1991, pp. 345-346).

Ecco un primo esempio di esegesi, cominciamo con un testo già applicato a Cristo da Paolo, cioè l'episodio del sacrificio di Isacco inteso come figura del sacrificio di Cristo (Rom 8,32). Così Origene spiega (tralascio i riferimenti a Gen 22,1-19):

Dopo ciò "Abramo prese la legna per l'olocausto, vi pose sopra Isacco suo figlio, e prese nelle sue mani il fuoco e la spada, e si avviarono insieme. Per il fatto che Isacco si porta lui stesso la legna per l'olocausto, è figura del Cristo che "si portò lui stesso la croce" (Gv 19,17); e tuttavia portare la legna per l'olocausto è compito del sacerdote; diviene così insieme vittima e sacerdote. Ma anche l'aggiunta "E si avviarono tutti e due insieme" si riferisce a ciò: infatti, mentre Abramo, che si accingeva a sacrificare, portava il fuoco e il coltello, Isacco non va dietro a lui, ma con lui, affinché appaia che egli, con lui, parimenti funge da sacerdote. Cosa avviene dopo questo? "Isacco disse ad Abramo suo padre: Padre". In questo momento la voce che proviene dal figlio è una tentazione. Infatti come pensi che il figlio, che doveva essere immolato abbia scosso le viscere paterne con questa voce? E benché Abramo fosse così inflessibile in grazia della fede, tuttavia anch'egli ricambiò una parola d'affetto e disse: "Cosa c'è, figlio?" E lui: "Ecco il fuoco e la legna ma dov'è la pecora per l'olocausto?". Abramo rispose: "Dio stesso si provvederà la pecora per l'olocausto, figlio". Mi commuove la risposta di Abramo, così attenta e cauta; non so quel che vedeva in spirito, perché non riguardo al presente ma al futuro dice: "Dio stesso si provvederà la pecora": al figlio che gli domanda del presente, risponde le cose future. Infatti "il Signore stesso si provvederà la pecora nel Cristo, poiché anche, "la sapienza stessa si è edificata una casa" (Prov 9,1), ed egli "ha umiliato se stesso fino alla morte" (Fil 2,8); e troverai che tutto quello che leggi del Cristo, è stato fatto non di necessità, ma liberamente. [...] Dice: "E Abramo stese la sua mano per prendere la spada e scannare suo figlio: E l'angelo del Signore lo chiamò dal cielo, e disse: "Abramo, Abramo". Ed egli disse: "Eccomi". E disse: "Non mettere la tua mano sopra il fanciullo, e non fargli niente di male. Ora infatti so che tu temi Dio"'. Riguardo a questo discorso ci si obietta di solito che Dio dice che ora sa che Abramo teme Dio, come se prima lo avesse ignorato. Dio lo sapeva, e non gli era nascosto, in quanto è "colui che conosce tutte le cose prima che siano" (Dan 13,42), ma per te sono state scritte, poiché anche tu, certo, hai creduto a Dio, ma se non compirai le opere della fede" (cfr. 2Tess 2,11), se non sarai obbediente in tutti i comandamenti, anche i più difficili, se non offrirai il sacrificio e non mostrerai che non preferisci a Dio né il padre, ne la madre, né i figli, non si riconoscerà che temi Dio, e non si dirà di te: "Poiché ora so che tu temi Dio". [...] Ma in verità queste cose sono state dette ad Abramo, ed è stato proclamato che egli teme Dio. Perché? Perché non ha risparmiato il suo figlio. E noi ora rapportiamo questo alle parole dell'Apostolo, ove dice di Dio: "Egli che non risparmiò il proprio Figlio, ma lo consegnò per noi tutti" (Rom 8,32). Vedi che Dio lotta con gli uomini con magnifica liberalità: Abramo offrì a Dio un figlio mortale, che non sarebbe morto; Dio, per gli uomini, consegnò alla morte il Figlio immortale. Che diremo noi di fronte a queste cose? Che cosa renderemo al Signore, per tutto quello che egli ci ha donato?" (Sal 115/116,12). Iddio Padre, per noi, "non risparmiò il proprio Figlio". [...] "E volgendosi indietro a guardare, Abramo vide coi suoi occhi, ed ecco un ariete era impigliato per le corna in un roveto". Abbiamo detto, mi pare, in precedenza, che Isacco era figura del Cristo, ma qui anche l'ariete sembra altrettanto figura del Cristo; vale la pena di conoscere come l'uno e l'altro convengano al Cristo, sia Isacco, che non è stato sgozzato, sia l'ariete, che è stato strozzato. Il Cristo è il "Verbo di Dio", ma "il Verbo si è fatto carne" (Gv 1,1.14): per un aspetto, dunque, i1 Cristo è dall'alto, per un altro è assunto dall'umana natura e dall'utero verginale. Infatti il Cristo patisce, ma nella carne; e ha sopportato la morte, ma nella carne, di cui è figura l'ariete; come diceva anche Giovanni: "Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che prende il peccato del mondo" (Gv 1,29). Quanto al Verbo, rimase nella incorruzione (cfr. 1Cor 15,42), e questo è il Cristo secondo lo Spirito, di cui è immagine Isacco: perciò egli stesso è vittima e sacerdote. Infatti secondo lo Spirito offre la vittima al Padre, secondo la carne egli stesso viene offerto sull'altare della croce, poiché, come è stato detto di lui: "Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che prende il peccato del mondo", così è stato detto di lui: "Tu sei sacerdote in eterno secondo l'ordine di Melchisedec" (Sal 109/110,4) (Origene, Omelie sulla Genesi, VIII, 6-9 passim: Origene, Omelie sulla Genesi. Traduzione, introduzione e note a cura di Maria Ignazia Danieli, Roma, Città Nuova, 1978 [Collana di testi patristici, 14], pp. 144-150).

Ecco un secondo esempio dall'Omelia sul Levitico, dedicata a commentare il comandamento dato ad Aronne e ai suoi figli di non bere vino quando entrano nel tabernacolo della testimonianza e accedono all'altare, come voleva Lev 10,9 "Non bevete vino o bevanda inebriante né tu né i tuoi figli, quando dovete entrare nella tenda del convegno, perché non moriate; sarà una legge perenne, di generazione in generazione". Questo comandamento come può essere riferito anche a Cristo e al Nuovo Testamento?

Vediamo come poter adattare questo al pontefice vero, Gesù Cristo nostro Signore, e ai suoi sacerdoti e figli, cioè ai nostri apostoli. È da considerarsi in primo luogo come, prima di "accedere all'altare", questo pontefice vero beve il vino con i suoi sacerdoti; quando poi comincia ad "accedere all'altare e a entrare nel tabernacolo della testimonianza" si astiene dal vino. Ritieni che possiamo adattare le figure del documento antico ai gesti e alle parole del Nuovo Testamento? Lo possiamo, se il Verbo di Dio, egli stesso, si degna di aiutarci e ispirarci. Ricerchiamo dunque come il nostro Signore e Salvatore, che è il vero pontefice, con i suoi discepoli, che sono i veri sacerdoti, prima di accedere all'altare di Dio, beve il vino, ma quando ha cominciato ad accedere, non ne beve. Il Salvatore era venuto in questo mondo per offrire la sua carne come vittima a Dio (cfr. Ef 5,2) per i nostri peccati (cfr. Gal 1,4). Prima di offrirla nel periodo dell'economia beveva il vino. Così veniva detto "mangione e beone, amico di pubblicani e peccatori" (Mt 17,19). Ma quando venne il tempo della sua croce e "stava per accedere all'altare" ove avrebbe immolato la vittima della sua carne: Prendendo il calice lo benedisse e lo diede ai suoi discepoli dicendo "Prendete e bevetene" (Mt 26,27). Dice: "Voi bevete, voi che non state per accostarvi adesso all'altare". Lui, invece, poiché "stava per accedere all'altare", dice di sé: "In verità vi dico che non berrò più del frutto di questa vite, fino a quando lo berrò con voi nuovo nel regno del Padre mio" (Mt 26,29). [...] Vediamo ora in che senso il nostro Salvatore non beve vino "fino a che lo beva", con i santi "nuovo nel regno" di Dio. Il mio Salvatore piange ora i miei peccati. Il mio Salvatore non può rallegrarsi fino a che io rimango nell'iniquità. Perché non può? Perché egli stesso è "avvocato per i nostri peccati presso il Padre" (1Gv 2,1), come spiega Giovanni, iniziato ai suoi medesimi misteri: "Se uno pecca, abbiamo un avvocato presso il Padre", Gesù Cristo giusto: egli è propiziazione per i nostri peccati" (1Gv 2,1-2). Come dunque potrebbe colui che è avvocato per i miei peccati bere il vino della letizia, lui che io contristo peccando? Come potrebbe costui, che "accede all'altare" per fare la propiziazione per me peccatore, essere nella gioia, lui al quale sempre sale la tristezza dei miei peccati? Dice: "Lo berrò con voi nel regno del Padre mio". Fino a quando noi non ci comportiamo in modo da ascendere al regno, egli non può bere da solo quel vino che ha promesso di bere con noi. Dunque è nella tristezza fino a che noi persistiamo nell'errore. Se infatti il suo Apostolo piange alcuni che un tempo hanno peccato e non hanno fatto penitenza delle cose che hanno compiuto (cfr. 2Cor 12,21), che dirò di lui stesso, che viene detto Figlio dell'amore (cfr. Col 1,13), che "annientò se stesso" (Fil 2,7) per l'amore che aveva verso di noi e non ricercò le cose che sono sue (cfr. 1Cor 13,5), essendo eguale a Dio (cfr. Fil 2,7), ma ricercò le cose nostre e per questo "annientò se stesso"? Avendo dunque così cercato le cose nostre, ormai non ci cercherebbe più e non penserebbe a quello che è nostro, e non si contristerebbe dei nostri errori, e non piangerebbe le nostre perdite e fratture, lui che ha pianto sopra Gerusalemme e ha detto a lei: "Quante volte ho voluto radunare i tuoi figli come la gallina raduna i suoi pulcini, e non hai voluto!" (cfr. Mt 23,37; Lc 13,34)? Lui che ha preso le nostre ferite e per noi ha patito - come medico delle anime e dei corpi -, ora trascurerebbe la putredine delle nostre ferite? Giacché, come dice il profeta: "Le nostre cicatrici si sono imputridite e corrotte di fronte alla nostra stoltezza" (Sal 37/38,5). Proprio per questo sta ora davanti al volto di Dio a intercedere per noi (cfr. Ebr 9,24), sta davanti all'altare per offrire per noi a Dio la propiziazione; perciò, stando per accedere a questo altare, diceva: "Non berrò più del frutto di questa vite, fino a che lo berrò con voi nuovo". Aspetta dunque che ci convertiamo, che imitiamo il suo esempio, che seguiamo le sue orme, per allietarsi con noi "e bere con noi il vino nel regno del Padre suo". Infatti, dal momento che "il Signore è misericordioso e pietoso" (Sal 102/103,8), con affetto più grande del suo Apostolo piange con chi piange e brama godere con chi gode (cfr Rom 12,15). E molto di più egli piange su coloro che un tempo hanno peccato e non hanno fatto penitenza (cfr. 2Cor 12,21). [...]  Aspetta noi per bere del frutto di questa vite: di quale vite? Di quella di cui egli stesso era figura: "Io sono la vite, voi i tralci" (Gv 15,5). Ragion per cui dice: "Il mio sangue è veramente bevanda e la carne è veramente cibo" (Gv 6,56). Infatti veramente "ha lavato la sua veste nel sangue dell'uva" (cfr. Gen 49,1). E che dunque? Aspetta la letizia. Fino a quando aspetta? Dice: "Quando avrò compiuto la tua opera" (Gv 17,4). Quando compie questa opera? Quando avrà reso compiuto e perfetto me,che sono l'ultimo e il peggiore di tutti i peccatori: allora compie la sua opera; ora infatti, fino a che io rimango imperfetto, la sua opera è ancora imperfetta. Infine fino a che io non sono assoggettato al Padre, neppure lui si dice assoggettato (cfr 1Cor 15,28). Non che lui abbia bisogno di assoggettamento presso il Padre, ma per me, nel quale non ha ancora compiuto la sua opera, egli dice che non è assoggettato; così infatti leggiamo, poiché "siamo corpo di Cristo e membra ciascuno per una parte" (1Cor 12,27) (Origene, Omelie sul Levitico, VII, 1-2 passim: Origene, Omelie sul Levitico. Traduzione, introduzione e note a cura di Maria Ignazia Danieli, Roma, Città Nuova 1985 [Collana di testi patristici, 51], pp. 149-153).

 

6. La giovinezza di Origene e il desiderio del martirio

In chiusura qualche cenno alla giovinezza ardente di Origene, come ce la racconta Eusebio di Cesarea, nella storia della Chiesa:

Quando l'incendio della persecuzione raggiunse il culmine e numerosissimi fedeli cinsero la corona del martirio, un tale ardore di esso s'impossessò dell'animo di Origene che egli, pur essendo ancora un ragazzo, desiderò esporsi ai pericoli, balzare in avanti e gettarsi nella lotta. E poco mancò che non fosse sul punto di morire, se la divina e celeste Provvidenza, in vista dell'utilità di parecchie persone, non avesse interposto, per mezzo di sua madre, degli ostacoli al suo ardore. Ella, infatti, dopo averlo da principio supplicato a parole, lo esortò ad avere rispetto nei confronti dell'affetto di madre che ella provava per lui, ma, quando (Origene), avendo appreso che il padre era stato messo in prigione, fu del tutto preso dal desiderio di martirio, ella, avendogli nascosto i vestiti, lo costrinse a rimanere in casa. Ma (il giovane), poiché non gli era possibile fare altro e il suo desiderio, che era di gran lunga superiore oramai alla sua età, non gli permetteva di starsene inattivo, fece pervenire al padre una lettera, in cui lo esortava al martirio e nella quale lo incitava dicendo queste testuali parole: "Bada di non cambiare idea per causa nostra". Questo fatto deve essere tramandato per iscritto come prima prova della giovanile vivacità di spirito di Origene e del suo genuino amore verso la religione (Eusebio di Cesarea, Storia della Chiesa, VI, 2, 3-6: Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica. Traduzione e note Libri VI-VII a cura di Franco Migliore. Traduzione e note Libri VIII-X a cura di Giovanni Lo Castro, Roma, Città Nuova, 2001 [Collana di testi patristici, 159], pp. 10).

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