IL  CRISTIANESIMO  A  CARTAGINE  E  IN  AFRICA,  I  MARTIRI  E  LA  QUESTIONE  DEI  LAPSI 

Tertulliano e Cipriano

 

1. Letteratura cristiana in lingua latina

Alla fine del II secolo cominciamo a trovare dei testi cristiani in lingua latina.

 

2. Tertulliano

Tertulliano (155-220 ca.) è in qualche modo il creatore del latino "cristiano". È personaggio dal carattere impulsivo e impaziente, dal rigorismo intransigente, che lo portava ad assumere posizioni estremiste: da cattolico esigente ed estremista si farà montanista (un movimento carismatico-profetico), uscendone infine per fondare una setta ancor più) rigorista. Hamman lo definisce il "corsaro di Dio", e Girolamo già lo chiamava vir ardens, uomo di fuoco! Lui stesso si conosceva bene e, scrivendo su La pazienza, confessava:

C'è senz'altro della temerarietà da parte mia, direi anzi dell'impudenza, ad assumermi il rischio di scrivere sulla pazienza, io che sono assolutamente incapace di praticarla [...] Avrò almeno la consolazione di intrattenermi su un bene di cui non mi è permesso godere, un po' come quei malati che sono inesauribili nel vantare i vantaggi di una salute che non hanno... (Tertulliano, La pazienza, I, 1.4; Liébaert cit., p.85).

Il suo Apologetico è tutto una polemica viva e impetuosa, con un linguaggio tagliente e sarcastico! Si trova tuttavia nell'Apologetico Tertulliano quell'espressione, che è rimasta icastica (e vera!) nell'esperienza cristiana:

Eppure a nulla servono le vostre ingiuste crudeltà: sono piuttosto un'attrattiva per la nostra setta. Noi diventiamo più numerosi tutte le volte che siamo falciati da voi: il sangue è semente di cristiani (semen est sanguis Christianorum)! (Tertulliano, Apologetico, L, 13: Tertulliano, Apologia del Cristianesimo. Traduzione di L. Rusca, Milano, BUR, 1984, pp. 310-311).

All'inizio di questo suo scritto Tertulliano ritornava sul tema già utilizzato dagli altri apologeti: i cristiani sono condannati senza essere conosciuti, solo per il nomen. È un modo proprio singolare di esercitare il diritto!, osserva Tertulliano.

Questa è dunque la prima accusa che noi formuliamo contro di voi: l'iniquità dell'odio vostro per il solo nome di cristiano. Quella stessa ragione che sembra scusare la vostra iniquità, in realtà la aggrava e la refuta: voglio dire l'ignoranza. Che cosa infatti di più iniquo per gli uomini dell'odiare una cosa che ignorano, anche se è meritevole di odio? Essa non merita il vostro odio, se voi non sapete che lo meriti. [...] Quando gli uomini odiano perché ignorano quale sia l'oggetto del loro odio, non può allora darsi che quello sia tale da non meritare d'essere odiato? Così dunque noi contestiamo ambedue le cose, e l'una con l'altra, la loro ignoranza di ciò che odiano, e l'ingiustizia di un odio per ciò che essi ignorano. La prova della loro ignoranza, che condanna l'iniquità mentre le serve da scusa, è data dal fatto che tutti coloro i quali fino a oggi odiavano perché ignoravano, appena cessano di ignorare cessano anche di odiare. E questi diventano cristiani, e senz'altro, con conoscenza di causa, cominciano a odiare ciò che essi erano, e a far professione di ciò che odiavano; e sono così numerosi come voi potete constatare. Si vocifera che la città è invasa; nelle campagne, nelle borgate, nelle isole vi sono cristiani; ogni sesso, ogni età, ogni classe, ogni grado passa a questo nome; e ci si affligge come di un danno (Tertulliano, Apologetico, I, 4-7: Rusca cit., pp. 72-75).

Se si vuole controllare il comportamento dei cristiani, si faccia pure! Ecco l'esempio della fraternità e del rispetto del matrimonio.

Ma forse siamo considerati meno legittimi, perché nessuna tragedia ha delle tirate sulla nostra fraternità, o perché siamo fratelli in quanto ci unisce quel patrimonio che generalmente presso di voi dissolve le fraternità. Uniti così con lo spirito e con l'anima, non indugiamo a mettere in comune i nostri beni. Tutto è da noi messo in comune, fuorché le mogli. A proposito di tale argomento rompiamo la comunanza, là dove, soltanto, gli altri uomini sono soliti esercitarla, perché essi non si contentano solamente di propiziarsi le mogli degli amici, ma le proprie molto pazientemente prestano agli amici; sull'esempio, credo, dei loro antenati e dei loro sapienti - di Socrate per i Greci e di Catone per i Romani - i quali cedettero agli amici le mogli che avevano sposate, perché mettessero al mondo altrove dei figli. Non so se ciò avvenisse contro il loro volere: che cosa doveva importar loro di una castità cui i loro mariti avevano tanto facilmente rinunziato? Oh, esempio di saggezza antica di serietà romana: lenoni divengono un filosofo e un censore! (Tertulliano, Apologetico, XXXIX, 10-13: Rusca cit., pp.256-259).

Lo stesso tema del matrimonio è ripreso nel suo scritto Alla sposa, dove, pur fra tante pagine non certo delicate verso le donne, Tertulliano si apre però a considerazioni veramente positive nel brano sugli sposi cristiani che condividono vita e preghiera:

Come riusciremo mai a descrivere la beatitudine di quel matrimonio, che è combinato dalla Chiesa, confermato dall'offerta eucaristica e sigillato dalla preghiera di benedizione! Gli angeli lo notificano e il Padre lo ratifica. Neppure sulla terra infatti i figli possono sposarsi a giusto titolo senza il consenso dei loro padri. Quale coppia sarà mai quella di due cristiani, aggiogati da una sola speranza, da un solo desiderio, da una sola disciplina e dalla medesima condizione di servi! Tutti e due fratelli, tutti e due compagni di servizio. Nulla li separa né nello spirito né nella carne, anzi sono veramente due in una sola carne. Dove vi è una sola carne, vi è anche un solo spirito; insieme pregano, insieme si prostrano a terra, insieme compiono i loro digiuni; si istruiscono l'un l'altro, si esortano l'un l'altro e si incoraggiano l'un l'altro. Insieme li trovi tutti e due nella Chiesa di Dio, insieme al banchetto di Dio, insieme nelle ristrettezze, nelle persecuzioni, nei momenti di sollievo. Uno non ha nulla da nascondere all'altro, uno non deve sottrarsi all'altro, uno non è motivo di fastidio per l'altro. Con tutta libertà si va a trovare un infermo e si porta aiuto a un bisognoso. [...] A voce alta riecheggiano tra loro due salmi e inni, anzi si sfidano reciprocamente a chi canta meglio al loro Signore. Vedendo e ascoltando tali cose, Cristo gioisce. Manda loro la sua pace. Dove ve ne sono due, là c'è anche lui e dove egli è presente, non c'è il maligno (Tertulliano, Alla sposa,II, 8, 6-8: Liébaert cit., p. 88).

 

3. I martiri scillitani e le persecuzioni

I martiri scillitani furono condannati a morir di spada il 17 luglio 180: ecco la conclusione dei loro Atti (un breve testo di interrogatorio, come quello di Giustino):

Il proconsole Saturnino fece bandire da un araldo: "Ho dato l'ordine di giustiziare Sperato, Narzalo, Cittino, Veturio, Felice, Aquilino, Letanzio, Gennaro, Generosa, Vestia, Donata, Seconda. Tutti dissero: "Rendiamo grazie a Dio". E così tutti insieme furono coronati dal martirio, e regnano col Padre e il Figlio e lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen. [Atti dei martiri scillitani, 16-17: Atti e passioni dei martiri, Milano, Fondazione Lorenzo Valla - Arnoldo Mondadori Editore, 1987, pp. 102-105]

In quei decenni cominciano infatti alcune persecuzioni ufficiali. Poiché l'edificio dell'Impero romano va sgretolandosi, con i barbari alle frontiere, l'inflazione e lo spopolamento, gli imperatori, temendo che i cristiani difettino di fervore patriottico, cercano, attraverso il culto imperiale, di mobilitare il popolo. Sono documentati, soprattutto in Africa, episodi di martirio sotto Settimio Severo (193-211). È da collocare in questi anni il martirio di Perpetua e Felicita databile probabilmente al 7 marzo 203 (vi ritorniamo in conclusione). Nel 235 le persecuzioni riprendono sotto Massimino Trace (235-238), che in un editto ordinò la morte, però "solo dei capi delle Chiese": subirono il martirio, tra gli altri, Ponziano, vescovo di Roma e Ippolito, famoso esegeta romano. La vera grande persecuzione del III secolo è tuttavia quella sotto Decio (249-251): per assicurarsi la lealtà dei cittadini e per placare gli dèi, egli ordinò una supplicatio generale per la salvezza dell'Impero: tutti dovevano sacrificare agli dèi e riceverne un attestato (libellus). Fu una persecuzione pesante, che provocò l'apostasia di tanti (lapsi); ma insieme vi fu la testimonianza di molti martiri: fra di essi Pionio e compagni a Smirne, Massimo a Efeso, Luciano e Marciano a Nicomedia, Apollonia e molti altri ad Alessandria. Nel frattempo riprese la persecuzione: per rimpinguare l'erario, Valeriano (253-260) nel 257 emise un editto che ordinava alle gerarchie superiori del clero di sacrificare agli dèi: furono martiri, in questo periodo, Cipriano di Cartagine, Sisto di Roma con quattro martiri (fra i quali Lorenzo), Fruttuoso di Tarragona con due martiri. Per completare il quadro, aggiungiamo subito l'ultima persecuzione, di Diocleziano (284-305), ormai alla vigilia della svolta costantiniana. Nel 302 Diocleziano, sotto l'influsso del cesare Galerio, sferrò un'offensiva anticristiana, adottando misure radicali: distruzioni di chiese, sequestro dei libri sacri, proibizione delle riunioni religiose. È la persecuzione più lunga, durata circa dieci anni, più blanda in Occidente ma implacabile in Oriente, soprattutto in Egitto e in Palestina. Galerio, malato, volle infine riconciliarsi con il Dio dei cristiani, e il 30 aprile 311 con un editto pose fine alle persecuzioni. Forse professarono la fede in questa ultima persecuzione anche i martiri ritrovati a Milano da sant'Ambrogio: prima Protaso e Gervaso, poi Nazaro e Celso (degli uni e degli altri si dice di qualche ricordo fra gli anziani, più ipotizzabile per questo periodo che per i precedenti), e forse anche i tre martiri di antico culto milanese, cioè Nabore e Felice, e Vittore.

 

4. Cipriano

Cipriano (210-258 ca.) è un convertito, ma diventa presto sacerdote e all'inizio del 249 vescovo di Cartagine: lo predisponevano la perspicacia e l'equilibrio, la dolcezza unita alla fermezza e il suo amore appassionato alla Chiesa. Durante la persecuzione di Decio poté allontanarsi dalla città, rifugiandosi in un luogo segreto vicino donde sostenne con lettere la sua comunità e i confessori: fu accusato di tradimento dai suoi nemici (che già avevano contrastato la sua nomina a vescovo). Venne arrestato nel 257, durante la successiva ondata persecutoria, e decapitato il 14 settembre 258 (come raccontano gli Atti). Nel frattempo era esplosa la questione dei lapsi (gli apostati) e dei libellati (che avevano ottenuto il certificato a pagamento), i quali, pentiti, chiedevano di rientrare nella Chiesa: prevalse una linea moderata, che ammetteva la riconciliazione dopo un'adeguata penitenza; altri però, più rigoristi, adottarono una linea intransigente. Si venne a uno scisma, e Cipriano si trovò impegnato a difendere l'unità ecclesiale. Una prima citazione da una lettera inviata durante la persecuzione: fra i lapsi c'era chi voleva rimettersi a posto la coscienza senza adeguata penitenza; tuttavia si doveva pure venire incontro alle eventuali situazioni di necessità. Cipriano reagisce in modo articolato, precisando:

Vengo a sapere che si presentano biglietti dei genere: "Sia ammesso alla comunione il tale con i suoi". I martiri non hanno certo mai fatto di queste richieste, così indeterminate e oscure da suscitare in seguito discordia su discordia. La formula è troppo generica; quando si dice "lui e i suoi" si possono presentare venti, trenta e anche più persone che dicono di essere parenti, affini, liberti e amici di famiglia di colui che ha ottenuto il biglietto. Quindi vi prego di designare per nome sul biglietto quelli che voi esaminate, che conoscete, che vi consta che hanno compiuto gran parte della loro penitenza; e così le lettere che ci invierete saranno conformi alla fede e alla disciplina. Quando il Signore ci avrà restituito la pace e saremo ritornati alla nostra Chiesa, le lettere dei martiri verranno esaminate una a una alla vostra presenza e giudicate con il vostro parere. Tuttavia, siccome vedo che non mi è ancora possibile venire a voi, ed è già ricominciata l'estate, stagione in cui si diffondono continue e gravi malattie, credo che si debba venire incontro ai nostri fratelli. Quindi coloro che hanno ricevuto dei biglietti dei martiri (libelli pacis), e per il loro privilegio presso Dio possono essere aiutati, se vengono a trovarsi in grave sofferenza o pericolo derivante da malattia, sono autorizzati, senza attendere la nostra presenza, a fare la confessione del loro peccato a un prete, e se non si troverà un prete e la fine è imminente, a un diacono, affinché siano loro imposte le mani in segno di riconciliazione, e possano andare al Signore con la pace che i martiri hanno chiesto con le lettere che ci hanno inviato (Cipriano, Lettera 15, 4; Lettera 17, 1; Lettera 18, 1: Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli II e III, Torino, SEI, 1991, p.784).

Vi furono tuttavia abusi e disordini:

Questo disordine incomincia già a manifestarsi. In alcune città della nostra provincia i lapsi hanno fatto impeto in massa verso i depositari dell'autorità e li hanno costretti a concedere immediatamente quella pace che gridavano essere stata concessa a tutti loro dai martiri e dai confessori. E così, con l'intimidazione e la forza, hanno costretto i capi, che non ebbero abbastanza forza d'animo o vigore d'animo per resistere (Cipriano, Lettera 27,3: Introduzione cit., pp. 18a-185).

È pero necessario recuperare un adeguato senso ecclesiale. Ecco allora le riflessioni di Cipriano sulla Chiesa:

La Chiesa riposa sui vescovi e ogni suo atto è governato dagli stessi capi. Essendo così stabilito per legge divina, mi meraviglia l'audacia e la temerarietà di alcuni che mi hanno scritto a nome della Chiesa, mentre la Chiesa è fondata sui vescovi, sul clero e su quelli che sono rimasti fedeli (stantes). Dio ci guardi e la misericordia divina e la potenza invincibile del Signore non permetta che si chiami Chiesa un gruppo di lapsi, dal momento che sta scritto che "Dio non è il Dio dei morti, ma dei viventi" (Mt 22,32) (Cipriano, Lettera 33, 1: Introduzione cit., p.185).

La riflessione sul1a Chiesa, necessaria anche per rispondere allo scisma creatosi a Cartagine, dà origine a un trattato, intitolato L'unità della Chiesa cattolica. Esso comincia col fondare l'unità ecclesiale sull'apostolo Pietro: il testo fu redatto da Cipriano secondo due modalità differenti, una più forte riguardo al primato di Pietro, l'altra più sfumata.

Il Signore parla a Pietro in questi termini: "Io ti dico che tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell'inferno non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli; tutto ciò che legherai sulla terra resterà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra resterà sciolto nei cieli" (Mt 16,18-19).

Allo Stesso (Pietro), dopo la risurrezione, (Gesù) dice "Pasci le mie pecore" (Gv 21,16). Sopra di lui edifica la Chiesa e a lui affida le pecore da pascere. E quantunque a tutti gli Apostoli attribuisca eguale potere, tuttavia egli istituì un'unica cattedra, stabilendo in essa, con l'autorità della sua parola, l'origine e il motivo dell'unità.

Certamente anche gli altri Apostoli erano nella stessa dignità di Pietro, ma a Pietro è conferito il primato, perché una apparisse la Chiesa e una la cattedra. Tutti certamente sono pastori, mail gregge è presentato come uno solo, per essere pasciuto da tutti gli Apostoli stretti da unanime consenso.

E chi non conserva questa unità della Chiesa, si illude di conservare la fede? Chi abbandona la cattedra di Pietro, su cui è stata fondata la Chiesa, s'illude di restare in essa?

 

Sopra uno solo egli edifica la Chiesa. E quantunque dopo la sua risurrezione  egli attribuisca a tutti gli Apostoli un eguale potere dicendo "Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi; ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete saranno ritenuti" (Gv 20,21-23); tuttavia per esprimere l'unità, stabilì con la sua autorità che l'origine di quella unità stessa derivasse da uno solo.

Certamente anche gli altri Apostoli godevano della stessa dignità di Pietro ed erano insigniti di eguale partecipazione di onore e di potere, ma l'inizio parte dall'unità, in modo che la Chiesa apparisca una sola. [...]

E chi non conserva questa unità della Chiesa, si illude di conservare la fede? Chi s'oppone e resiste alla Chiesa, s'illude di restare in essa? Mentre invece il beato apostolo Paolo insegna questa stessa verità e dimostra il mistero di questa unità dicendo "Uno è il corpo e uno lo spirito, una la speranza della vostra vocazione, uno il Signore, una la fede, uno il battesimo, uno Dio" (Ef. 4,4)

(Cipriano, L'unità della Chiesa cattolica, 4: Introduzione cit., pp.198-199).

Ecco allora l'importanza di conservare l'unità della Chiesa, ricordando che non può aver Dio per padre chi non ha la Chiesa per madre.

Dobbiamo pertanto conservare e rivendicare con fermezza questa unità, specialmente noi vescovi che siamo a capo della Chiesa, per dimostrare che anche lo stesso episcopato è uno e indiviso. Nessuno di noi tragga in inganno i fratelli con parole menzognere, nessuno corrompa con perfida prevaricazione la verità della fede. Il potere episcopale è uno e ciascun vescovo ne partecipa la totalità [cioè lo possiede tutto]. Una è la Chiesa la quale si estende sempre più largamente tra i popoli per l'incremento della sua fecondità; allo stesso modo che molti sono i raggi del sole, ma una è la sorgente luminosa molti sono i rami dell'albero, ma uno è il tronco che s'erge sulla tenacità delle radici, molti sono i rivoli che fluiscono da una stessa sorgente, ma unica rimane la loro origine, benché appaia la loro molteplicità nell'effusa abbondanza della vena. Pròvati a strappare il raggio di sole dalla sua sorgente luminosa: l'unità della luce non sopporta scissione; strappa un ramo dall'albero: così estirpato non potrà germogliare; taglia via dalla sorgente il ruscello: così tagliato si dissecca. Così la Chiesa del Signore, traboccante di luce, effonde i suoi raggi per tutto il mondo; ma uno solo è lo splendore, che si diffonde in ogni parte, senza che l'unità del suo corpo subisca divisione. Essa estende i suoi rami in tutta la terra con abbondante ubertà ed espande sempre più largamente i suoi ruscelli che fluiscono copiosi. Ma tuttavia una sola è la radice, una la sorgente, una è la madre moltiplicata per il continuo aumento della sua figliolanza. Di questa madre siamo figli, del suo latte ci nutriamo, dal suo spirito siamo vivificati. Non può essere adulterata la sposa di Cristo, che è incorrotta e pura. Essa conosce una casa sola, essa custodisce la santità d'un solo talamo con casto pudore. Essa ci conserva a Dio e destina al regno i figli che ha generati. Chi si separa dalla Chiesa e si congiunge a una falsa si priva delle promesse fatte alla Chiesa. Non giungerà al premio di Cristo chi abbandona la Chiesa di Cristo. Costui è uno straniero, un profano e un nemico. Non può avere Dio per padre chi non la Chiesa per madre (Habere non potest Deum patrem qui Ecclesiam non habet matrem). [...] Questo mistero dell'unità" questo vincolo di concordia, inseparabilmente coerente ci viene raffigurato quando, nel Vangelo, la tunica del Signore Gesù Cristo non viene divisa né squarciata, ma si trae la sorte sulla veste di Cristo, per decidere chi dovesse rivestirsi di Cristo; è presa intera e non viene guastata; la tunica viene in possesso di uno, senza essere divisa. Dice così la Sacra Scrittura: "Quanto poi alla tunica siccome a cominciare dall'alto non era cucita insieme, ma tessuta tutta d'un pezzo, dissero tra loro: "Non stracciamola ma tiriamo a sorte a chi tocca", (Gv 19,23). Cristo portava l'unità che viene dall'alto, cioè dal cielo e dal Padre, unità che non poteva essere affatto scissa da colui che la ricevesse e la possedesse, ma conservava inseparabilmente la sua totale e salda consistenza. Non può possedere la veste di Cristo, colui che scinde e divide la Chiesa di Cristo (Cipriano, L'unità della Chiesa cattolica, 5-7: Introduzione cit., pp. 207-202).

 

5. Le martiri Perpetua e Felicita

In conclusione alcune citazioni dalla Passione di Perpetua e Felicita, nella quale portano la loro testimonianza gli stessi protagonisti. Furono arrestati cinque catecumeni: Vibia Perpetua, nobile e colta matrona di circa ventidue anni, che aveva un figlioletto ancora poppante, e i suoi servi Revocato con sua moglie Felicita, Saturnino e Secondolo; a costoro si aggiunse Saturo, nascostosi spontaneamente tra i detenuti. Ecco anzitutto alcune espressioni di Perpetua, di alto valore umano e bellezza narrativa.

In quegli stessi primi giorni ricevemmo il battesimo, e lo Spirito Santo mi fece comprendere che, a partire da quel momento, non v'era altra grazia da implorare dall'acqua battesimale se non quella di saper resistere al dolore del corpo. Pochi giorni dopo fummo chiusi in prigione; e io ebbi paura, poiché non avevo mai sperimentato tenebre tanto fitte. O giorno acerbo! Calura insopportabile per l'affollamento e tentativi di estorsione da parte delle guardie. Inoltre, ero torturata dalla preoccupazione per il mio piccolo. Allora Terzio e Pomponio, diaconi benedetti che avevano cura di noi, s'accordarono sul compenso per farci trasferire, nel giro di poche ore, in una sezione meno dura del carcere, dove potessimo stare un po' meglio. Tratti fuori dalla segreta, potemmo dedicarci un po' a noi stessi. Mi fu concesso di allattare il piccolo, quasi morto d'inedia. Temendo per lui, esortavo mia madre e scongiuravo mio fratello ad averne la massima cura. Ma ero angosciata di vederli angosciati per causa mia. S'andò avanti così per parecchi giorni, finché non ottenni che il piccolo restasse con me in prigione. Subito mi sentii meglio e indicibilmente sollevata di poter dedicare ogni mia fatica e cura alla creatura: di colpo la prigione mi parve una dimora principesca, preferibile a qualsiasi altra. [...] Il giorno dopo mentre facevamo la colazione, fummo portati via senza preavviso per l'udienza. Giungemmo al foro. La notizia di propago all'istante per le zone vicine e si raccolse una folla immensa. Salimmo sul palco. Interrogati, gli altri confessarono la fede. Quando viene il mio turno, ecco che si fa avanti mio padre con mio figlio, mi tira giù dal palco e dice: "Fa' il sacrificio, abbi pietà del piccolo". [...] Ma io risposi: "Non lo faccio". Il procuratore Ilariano mi chiese: "Sei cristiana?", Risposi: "Sono cristiana". E siccome mio padre non desisteva dai suoi tentativi di piegarmi a quell'atto degradante, Ilarione diede ordine di cacciarlo. Fu preso a bastonate. Provai dolore per l'incidente toccato a mio padre, come se fossi stata io stessa la vittima di quelle percosse. Provai dolore per la sua infelice vecchiaia. Allora il procuratore ci dichiara colpevoli e ci condanna alle fiere. Esultanti, tornammo in prigione. Dal momento che il piccolo s'era abituato a prendere da me il latte e a stare con me in prigione, mando subito il diacono Pomponio da mio padre per farsi dare la creatura. Mio padre si rifiutò di consegnarlo, ma avvenne il miracolo: il piccolo non ebbe più bisogno delle mammelle, né esse mi si infiammarono, cosicché mi fu risparmiato il tormento che avrebbe potuto derivarmi dalla preoccupazione per il piccolo e dal dolore delle mammelle (Passione di Perpetua e Felicita, III, 5-9; VI, 1-2.4-8: Atti e passioni dei martiri cit., pp. 118-119, 122-125).

Dalla narrazione successiva, da parte del redattore, apprendiamo che Felicita, ormai all'ottavo mese, dà anch'essa alla luce una creatura. Così non fu "costretta a versare il suo sangue santo e innocente tra delinquenti comuni"(Passione di Perpetua e Felicita, XV, 2: Atti cit., pp.136-137). Venne poi il momento dei giochi nel circo con le fiere:

Perpetua e Felicita furono vestite di una tunica senza cintura. La prima a essere colpita fu Perpetua, che cadde sulla schiena. Tiratasi a sedere trovò la forza di aggiustarsi la tunica, strappata su un fianco, in modo da coprire l'anca e la coscia, dandosi maggior pena del pudore che del dolore. Poi, chiesto un fermaglio raccolse e fissò i capelli sciolti: non era decoroso che una martire patisse coi capelli sciolti: non doveva sembrare in lutto in un momento tanto glorioso. Quindi si alzò, e, vedendo che Felicita era stata gettata a terra, le si avvicinò, le tese una mano e la fece alzare. Ambedue stettero a piè fermo. La durezza di cuore della folla fu vinta, e vennero richiamate alla Porta della Vita. [...] Siccome la folla chiedeva che venissero portati nell'arena [i martiri], per poter aggiungere i propri occhi alla spada che penetrava nei loro corpi come complici dell'omicidio, si levarono spontaneamente e si portarono bene in vista dove li voleva la folla; non prima però, di essersi scambiati il bacio di rito, così da affrontare il martirio con questo gesto di pace. Gli altri ricevettero il ferro immobili e in silenzio. [...] Perpetua invece, per provare almeno un po' di dolore, quando la spada le arrivò all'osso lanciò un urlo e guidò lei stessa contro la propria gola l'incerta mano del gladiatore inesperto. È da credere che una donna siffatta non avrebbe potuto essere uccisa se essa stessa non l'avesse voluto: tanto grande era il timore che incuteva allo spirito immondo. O fortissimi e beatissimi martiri! O veramente chiamati ed eletti ad aver parte nella gloria del Signor nostro Gesù Cristo! (Passione di Perpetua e Felicita, XX, 3-7; XXI, 7-11: Atti e passioni dei martiri cit., pp.142-143, 144-147).

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