ANTIOCHIA  E  ROMA  INTORNO  ALL'ANNO  100

Lettere di Ignazio di Antiochia e di Clemente Romano

 

1. Attorno all'anno 100

Cominciamo con i cosiddetti Padri Apostolici, gli autori cioè della seconda metà del I secolo e della prima metà del II secolo, in un periodo contemporaneo o immediatamente successivo all'epoca apostolica.

Parlando di Clemente di Roma, Ireneo di Lione dice che Clemente

...aveva visto gli Apostoli e si era incontrato con loro e aveva ancora nelle orecchie la loro predicazione e davanti agli occhi la loro Tradizione. E non era il solo, perché allora restavano molti che erano stati ammaestrati dagli Apostoli [Ireneo, Contro le eresie, III, 3, 3: Ireneo di Lione, Contro le eresie e gli altri scritti. Introduzione, traduzione, note e indici a cura di Enzo Bellini, Milano, Jaca Book, 1981, p.219].

Il cristianesimo, in questi decenni, lascia la culla originaria dell'ambiente giudaico per inserirsi in un mondo contrassegnato dall'organizzazione romana (l'impero), dallo spirito greco (l'ellenismo) e dalla religiosità orientale (i culti misterici). Di fatto Ignazio è ad Antiochia, la grande capitale della Siria ellenizzata, e concluderà la sua vita a Roma. Clemente è di Roma ma pure utilizza la lingua greca e scrive alla comunità di Corinto, nel cuore del mondo greco.

 

2. La Lettera ai Corinzi di Clemente Romano

Nella sequenza dei vescovi di Roma, Clemente è terzo successore di Pietro. Di lui abbiamo una Lettera ai Corinzi, databile all'anno 96. Questo intervento manifesta fin da allora la coscienza che la Chiesa di Roma sentiva di potere e dovere intervenire negli affari interni di altre comunità. Il motivo dell'intervento è un richiamo all'unità e alla concordia, dal momento che nella comunità di Corinto alcuni giovani avevano arbitrariamente deposto alcuni presbiteri.

Un brano per descrivere questa situazione:

Ogni gloria e abbondanza furono concesse a voi e si compì ciò che era stato scritto: "Il diletto mangiò e bevve, si allargò e si ingrassò e recalcitrò" (Dt 32,15). Di qui gelosia e invidia, discordia e sedizione, persecuzione disordine, guerra e prigionia. Così insorsero "gli uomini senza onore contro gli uomini onorati" (Is 3,5), gli oscuri contro gli illustri, i dissennati contro i saggi, i giovani contro gli anziani. Per questo si sono allontanate la giustizia e la pace, perché ognuno ha abbandonato il timore di Dio e ha oscurato la sua fede, non cammina più secondo i precetti dei comandamenti divini, né si comporta in modo degno del Cristo, ma ognuno procede secondo le passioni del suo cuore malvagio, posseduto da quella gelosia ingiusta ed empia per la quale anche "la morte entrò nel mondo" (Sap 2,24) [Clemente, Lettera ai Corinzi, III, 1-4: G. Bosio - E. dal Covolo - M. Maritano, Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli I e II, Torino, SEI, 1990, p.63].

Anche a Pietro e a Paolo, a Roma fu rivolta gelosia e invidia (il brano è di particolare interesse storico riguardo ai due apostoli, e fra l'altro conferma il viaggio di Paolo in Spagna).

Veniamo agli atleti vicinissimi a noi. Prendiamo i nobili esempi della nostra generazione. Per gelosia e invidia le persone che erano le più grandi e le più giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte. Mettiamoci dinanzi agli occhi i buoni Apostoli. Pietro, che per un'ingiusta gelosia sopportò non una o due, ma molte sofferenze e così, resa testimonianza, raggiunse il posto a lui dovuto nella gloria. Per gelosia e discordia Paolo mostrò come si consegue il premio della pazienza. Sette volte caricato di catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo in oriente e occidente, ottenne l'eccellente fama della sua fede. Dopo aver insegnato la giustizia a tutto il mondo, giunto ai confini dell'occidente, resa testimonianza dinanzi ai governanti, lasciò così il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo un grandissimo modello di pazienza [Clemente, Lettera ai Corinzi, V, 1-7: Bosio cit., p. 64].

L'invito all'umiltà, a non vantasi orgogliosamente, a rimanere rispettosamente al proprio posto, sembra far riferimento a una contrapposizione fra "carisma" e "autorità", che può aver originato la divisione.

Si conservi dunque integro il corpo che noi formiamo in Cristo Gesù e ciascuno si sottometta al suo prossimo, a seconda del grado in cui fu posto per suo dono. Il forte si prenda cura del debole e il debole rispetti il forte, il ricco soccorra il povero e il povero renda grazie a Dio per avergli dato qualcuno che supplisca alla sua indigenza. Il sapiente mostri la sua sapienza non con le parole, ma con le buone opere. L'umile non renda testimonianza a se stesso, ma lasci che da un altro gli sia resa testimonianza. Il casto nella carne non si vanti, sapendo che è un altro che gli concede la continenza. Consideriamo, dunque, o fratelli, di quale materia siamo stati fatti, quali e chi eravamo quando entrammo nel mondo, da quale fossa e tenebra colui che ci plasmò e ci creò ci introdusse nel suo mondo, avendo preparato i suoi benefici prima che noi fossimo nati. Poiché noi abbiamo ricevuto tutto da lui, di tutto dobbiamo rendergli grazie. A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen [Clemente, Lettera ai Corinzi, XXXVIII, 1-4: Bosio cit., p. 69].

 

3. Le sette lettere di lgnazio di Antiochia

Ignazio è vescovo di Antiochia dopo Evodio (e dopo Pietro). All'inizio del II secolo (107?), sotto l'impero di Traiano (98-117), è trasferito da Antiochia a Roma per subirvi il martirio. Scrive sette lettere alle Chiese vicine o per le quali passa, e una a Roma verso dove è diretto: da Smirne scrive agli Efesini, ai Magnesii (Magnesia sul Meandro), ai Trallesi, ai Romani, da Troade scrive ai Filadelfesi, agli Smirnesi e una lettera specifica a Policarpo vescovo di Smirne. Lettere scarne, essenziali (è sulla via del martirio, e dice ciò che conta), lettere pastorali (è un pastore, non un teologo che fa trattati, è un pastore, attento alle tematiche vive da affrontare al momento). Leggendole conosciamo i primi "problemi" che affiorano nelle comunità cristiane della Siria e dell'Asia Minore.

3.1. La verità dell'incarnazione (contro il docetismo)

Ignazio afferma la verità dell'incarnazione di Cristo contro la tentazione del docetismo, che minimizza la realtà della "carne" di Cristo, delle sue sofferenze, della sua passione e della sua morte: per il docetismo tutto questo sarebbe avvenuto solo in apparenza (dokein, docetismo), l'incarnazione sarebbe una finzione, perché Dio sarebbe semplicemente apparso in forma umana. Il timore della verità dell'incarnazione, della carne di Cristo, sembra ovviamente dettato da riverenza per la sua altissima dignità divina, ma nasconde un radicale e totale fraintendimento del vangelo, perché non crede nell'umiliazione di Dio per l'uomo, nella sua vicinanza concreta all'uomo, e la "carne" rimarrebbe ancora relegata lontana da Dio e fuori dalla salvezza: tutto una finta!

Ecco le affermazioni limpide di Ignazio:

Turatevi le orecchie quando qualcuno vi parla al di fuori di Gesù Cristo, della stirpe di Davide, Figlio di Maria, che veramente nacque, mangiò e bevve. Veramente fu perseguitato sotto Ponzio Pilato; veramente fu crocifisso e morì, sotto gli occhi degli abitanti del cielo, della terra e degli inferi. Egli veramente risorse dai morti perché il Padre suo lo risuscitò: allo stesso modo il Padre risusciterà in Gesù Cristo anche noi, che crediamo in lui. Senza di lui non abbiamo la vera vita. Se poi è vero quello dicono alcuni atei, ossia non credenti, che cioè egli soffrì in apparenza - mentre sono loro una pura apparenza! -, perché io sono incatenato? Perché anche desidero combattere contro le belve? Dunque, inutilmente io vado alla morte; dunque il mio annuncio del Signore è falso [Ignazio, Lettera ai Tralliani, IX, 1 - X: Liébaert cit., p. 33].

3.2. La novità del cristianesimo (in riferimento al giudaismo)

Ignazio rivela il dibattito in corso fra il cristianesimo e la tradizione del giudaismo, intesi ormai come due maniere di credere e di vivere. Il cristianesimo, per sé, nasce in ambito giudaico e conserva dei tratti "giudeo-cristiani": una viva attenzione per la fine dei tempi e l'aldilà (cielo, angeli, inferno), l'attesa di un messianismo materiale (millenarismo: cfr. Ap 20,6), un modo singolare di parlare di Cristo come Profeta, Legge, Nome divino, Angelo, la preoccupazione per la salvezza dei giusti morti prima di Cristo (la discesa di Gesù agli inferi). In Ignazio però ormai la questione è un'altra, cioè la novità e l'originalità del cristianesimo: il cristianesimo non è una via del giudaismo, bensì una via nuova, in cui deve sfociare lo stesso giudaismo. Ormai il centro non è più la Legge, ma Cristo. Questo non comporta l'abbandono delle antiche Scritture. Pero l'Antico Testamento è riletto come "profezia" di Cristo, annuncio e preparazione di Cristo: esso infatti trova la sua pienezza, la sua verità, il suo significato, in Cristo che lo compie.

Non lasciatevi sedurre da false dottrine né da vecchie favole: tutte cose inutili. Se infatti a tutt'oggi viviamo ancora alla maniera del giudaismo, ammettiamo di non aver ricevuto la grazia. Infatti già i profeti, suscitati da Dio, vissero secondo Gesù Cristo. [...] Dunque, coloro che si trovarono nell'antico ordine di cose giunsero alla novità della speranza non osservando più il sabato ma vivendo secondo il giorno del Signore, giorno in cui è apparsa anche la nostra vita per mezzo di lui e della sua morte. Alcuni negano questo fatto, ma è il mistero dal quale abbiamo ricevuto la fede e grazie al quale perseveriamo per essere trovati discepoli di Gesù Cristo, nostro unico Maestro. Come potremmo noi vivere fuori di lui, mentre anche i profeti, suoi discepoli in spirito, lo attendevano come Maestro? Per questo, colui che essi santamente attesero, quando giunse li risvegliò dai morti. [...] È assurdo parlare di Gesù Cristo e seguire le pratiche giudaiche. Infatti non è il cristianesimo che ha creduto nel giudaismo, ma il giudaismo si è convertito al cristianesimo, nel quale è stata raccolta ogni persona credente in Dio [Ignazio, Lettera ai Magnesii, VIII 1; IX, 1-2; X, 3: Liébaert cit., pp.36-37]. Vi esorto a non far nulla per spirito di contesa, ma seguendo l'insegnamento di Cristo. Ho sentito alcuni affermare: "Se non lo trovo negli archivi, al Vangelo non credo". Ribattevo: "Sì, è scritto"; quelli però rispondevano: "Ma qui sta il problema!". Per me l'archivio è Gesù Cristo, archivi intoccabili sono la sua croce, la morte, la sua risurrezione e la fede che viene per mezzo di lui. In queste realtà io voglio essere giustificato, per la vostra preghiera [Ignazio, Lettera ai Filadelfesi, VIII, 2: Liébaert cit., p.37].

3.3 L'unità ecclesiale (il vescovo e la sua comunità)

Ignazio richiama l'unità nelle Chiese e così descrive la struttura ecclesiale come si è già formata: attorno al vescovo infatti deve essere sempre costruita l'unità.

Ho avuto l'onore di vedervi in Dama, vostro vescovo degno di Dio, nei degni presbiteri Basso ed Apollonio e nel diacono Zootione, mio conservo, della cui presenza mi auguro sempre di gioire. Egli è sottomesso al vescovo come alla grazia di Dio e al presbiterio come alla legge di Gesù Cristo. Conviene che voi non abusiate dell'età del vescovo, ma per la potenza di Dio Padre gli tributiate ogni reverenza. In realtà ho saputo che i vostri santi presbiteri non hanno abusato della giovinezza evidente in lui ma, saggi in Dio, sono sottomessi a lui: non a lui, ma al Padre di Gesù Cristo che è il vescovo di tutti. Per il rispetto di Chi ci ha voluto, bisogna obbedire senza ipocrisia alcuna, poiché non si inganna il vescovo visibile, bensì si mentisce a quello invisibile. Non si parla della carne, ma di Dio che conosce le cose invisibili. [...] Poiché nelle persone nominate sopra ho visto e amato tutta la comunità, vi prego di essere solleciti a compiere ogni cosa nella concordia di Dio e dei presbiteri. Con la guida del vescovo al posto di Dio, dei presbiteri al posto del collegio apostolico e dei diaconi a me carissimi, che svolgono il servizio di Gesù Cristo - che prima dei secoli era presso il Padre e alla fine si è rivelato -. Tutti avendo una eguale condot-ta rispettatevi l'un l'altro. Nessuno guardi il prossimo secondo la carne, ma in Gesù Cristo amatevi sempre a vicenda. Nulla sia tra voi che vi possa dividere, ma unitevi al vescovo e ai capi nel segno e nella dimostrazione della incorruttibilità [Ignazio di Antiochia Lettera ai Magnesii, II; III, 1-2; VI, 1-2: I padri Apostolici, Traduzione, introduzione e note a cura di Antonio Quacquarelli, Roma, Città Nuova, 1976 (Collana di Testi Patristici, 5), pp. 110-111]. Come Gesù Cristo segue il Padre, seguite tutti il vescovo e i presbiteri come gli apostoli; venerate i diaconi come la legge di Dio. Nessuno senza il vescovo faccia qualche cosa che concerne la Chiesa. Sia ritenuta valida l'eucaristia che si fa dal vescovo e o da chi è da lui delegato. Dove compare il vescovo, là sia la comunità, come là dove c'è Gesù Cristo ivi è la Chiesa cattolica [Ignazio di Antiochia, Lettera agli Smirnesi, VIII, 1-2: Quacquarelli cit., p. 136].

In questo contesto è importante osservare il titolo della lettera ai Romani:

Ignazio, chiamato anche Teoforo, a colei che ha ricevuto misericordia nella magnificenza del Padre altissimo e di Gesù Cristo suo unico Figlio, la Chiesa amata e illuminata nella volontà di Colui che ha voluto tutte le cose che esistono, nella fede e nella carità di Gesù Cristo Dio nostro, che presiede nella terra di Roma, degna di Dio, di venerazione, di lode di successo, di candore, che presiede alla carità, che porta la legge di Cristo e il nome del Padre, il mio saluto nel nome di Gesù Cristo, Figlio del Padre [Ignazio, Lettera ai Romani, Prol.: Quacquarelli cit., p.121].

3.4 La spiritualità del martirio (imitazione di Cristo)

Il Cristo ha veramente patito ed è veramente morto: il martire viene unito a questa realtà della sua vita e morte. Se il martirio è imitazione della passione e morte di Cristo, diventa anche una eucaristia, unita a quella di Cristo. Il martirio, infine, è desiderato da Ignazio, non tuttavia nel senso erroneo di farsi orgogliosamente avanti (con la conseguenza di cadere): in Ignazio è piuttosto il desiderio di una coerenza chiamata a esprimersi sino alla fine, insieme alla convinzione che precisamente nel martirio si "raggiunge" Cristo.

Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono il frumento di Dio, macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo e io morto non pesi a nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà più il mio corpo. Pregate il Signore per me, perché con quei mezzi sia vittima per Dio. Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi, io tuttora uno schiavo. Ma se soffro, sarò affrancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora, incatenato, imparo a non desiderare nulla. Dalla Siria sino a Roma combatto con le fiere, per terra e per mare, di notte e di giorno, legato a dieci leopardi, il manipolo dei soldati. [...] Ora incomincio a essere un discepolo. Nulla di visibile e di invisibile abbia invidia, perché raggiungo Gesù Cristo. Il fuoco, la croce, le belve, le lacerazioni, gli strappi, le slogature di ossa, le mutilazioni delle membra, il pestaggio di tutto il corpo, i malvagi tormenti del diavolo vengano su di me, perché voglio solo trovare Gesù Cristo. Nulla mi gioverebbero le lusinghe del mondo e tutti i regni di questo secolo. È bello per me morire in Gesù Cristo più che regnare sino ai confini della terra. Cerco quello che è morto per noi, voglio quello che è risorto per noi. Il mio rinascere è vicino. [...] Lasciate che riceva la luce pura: là giunto sarò uomo. Lasciate che io sia imitatore della passione del mio Dio. Se qualcuno l'ha in sé, comprenda quanto desidero e mi compatisca conoscendo ciò che mi opprime. [...] Non mi attirano il nutrimento della corruzione e i piaceri di questa vita. Voglio il pane di Dio che è la carne di Gesù Cristo, della stirpe di David, e come bevanda voglio il suo sangue che è l'amore incorruttibile [Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani, IV, 1-2; V, 1.3 - VI, 3; VII, 3: Quacquarelli cit., pp. 122-124].

 

4. Il martirio di Policarpo di Smirne.

È la narrazione di martirio più antica (completa, storica) fra quelle a noi pervenute. Policarpo era vescovo di Smirne, quando Ignazio passa dalla città per andare a Roma; inoltre di Policarpo parla Ireneo:

Egli non solo fu ammaestrato dagli apostoli ed ebbe consuetudine con molti che avevano visto il Signore, ma appunto dagli apostoli fu stabilito per l'Asia nella Chiesa di Smirne come vescovo. Anche noi l'abbiamo visto nella nostra prima età. Infatti visse a lungo e molto vecchio, dopo aver testimoniato gloriosamente e molto chiaramente, uscì di vita. Egli insegnò sempre quello che aveva appreso dagli apostoli, le cose appunto che la Chiesa trasmette e che sono vere [Ireneo, Contro le eresie, III, 3, 4: Bellini cit., p.219].

Doveva essere nato nel 69. Forse era stato posto a Smirne come vescovo dall'apostolo Giovanni. Subì il martirio a ottantasei anni di età, probabilmente il 23 febbraio 155. Nel racconto viene sottolineata (come per Ignazio) l'imitazione di Cristo. Nella preghiera di Policarpo prima del martirio vi è ancora il riferimento al calice, all'eucaristia; poi egli si consuma, come pane cotto...

Il proconsole gli chiese se fosse lui Policarpo; e avendo egli risposto affermativamente, l'altro cercava di persuaderlo ad abiurare, dicendo: "Abbi riguardo per la tua vecchiaia" ed altre consimili cose, che essi hanno costume di dire: "Giura sulla fortuna dell'imperatore", "Pentiti", "Di': Morte agli atei". Policarpo guardò con volto severo tutta la folla di empi pagani che era nello stadio, alzò verso di loro il braccio, sospirò, levò gli occhi al cielo e disse: "Morte agli atei". Il proconsole, incalzandolo, fece: "Giura, e ti lascio libero. Maledici Cristo!". E Policarpo: "Sono ottantasei anni che lo servo, e mai mi ha fatto torto. Como posso bestemmiare il mio re e salvatore?". [...] Mentre molto altro andava dicendo, egli era colmo di coraggio e di gioia e il suo volto era soffuso di grazia, sì che non solo non cadeva preda del panico per quanto gli veniva detto, ma anzi, al contrario, era il proconsole a essere fuori di sé; finché non mandò il suo araldo in mezzo allo stadio, a proclamare tre volte: "Policarpo ha confessato di essere cristiano". [...] Quando il rogo fu pronto, Policarpo si spogliò di tutte le sopravvesti e si sciolse la cintura e cercava anche di slegarsi da sé i sandali, cosa che mai aveva fatto in precedenza, dal momento che ogni suo fedele faceva a gara per essere il primo a sfiorargli l'epidermide. Effettivamente egli, anche prima del martirio, era tenuto in conto per ogni verso grazie alla rettitudine del suo costume di vita. Immediatamente, dunque, gli fu montato attorno tutto ciò che serve al rogo. E mentre si accingevano a inchiodarlo, egli disse: "Lasciatemi così. Colui che mi dà il fuoco da sopportare mi darà anche la forza di resistere in esso pur senza esservi assicurato dai vostri chiodi". Pur senza inchiodarlo, lo legarono. Ed egli, con le braccia dietro il dorso, avvinto come un superbo montone scelto fra numeroso gregge per essere sacrificato ed approntato quale olocausto bene accetto alla divinità, levati gli occhi al cielo disse: "Signore, Dio onnipotente, padre del diletto e benedetto figlio tuo Gesù Cristo, per mezzo del quale abbiamo ricevuto la conoscenza di te, Dio degli angeli e delle potestà e di tutta la creazione e di tutta la stirpe dei giusti, che vivono guardando a te, tu sia benedetto per avermi giudicato degno in questo giorno e in quest'ora di prender posto nel novero dei martiri, nel calice del tuo Cristo per la risurrezione alla vita eterna di anima e corpo nell'incorruttibilità dello Spirito Santo. Che io fra essi sia accolto oggi al tuo cospetto in qualità di pingue e gradito sacrificio, così come tu, il Dio veritiero e alieno da menzogna hai in precedenza disposto e compiuto. Per questo al di sopra di tutto io ti lodo, ti benedico, ti glorifico tramite l'eterno e celeste tuo sommo sacerdote e diletto figlio Gesù Cristo, mediante il quale sia gloria a te con lui e con lo Spirito Santo, ora e per i secoli a venire. Amen". Pronunciato che ebbe l'amen e conclusa la preghiera, gli addetti accesero il rogo. E un'alta fiammata balenò: noialtri, ai quali fu dato vederla, assistemmo a un miracolo; noi che fummo serbati in vita per riferire agli altri questi fatti. Le fiamme assunsero la foggia di una volta, come la vela di una nave gonfiata dal vento, e si disposero a formare una grande nicchia intorno al corpo del martire. E questi era nel mezzo, non come carne da ardere, ma se mai quale pane posto a cuocere o come oro e argento purgati nel crogiuolo. E in effetti da un sì soave aroma venivamo investiti, che pareva spirasse incenso o qualche altro prezioso profumo [Martirio di Policarpo, IX, 2-3; XII, 1; XIII, 2 - XV, 2: Atti e passioni dei martiri, Milano, Fondazione Lorenzo Valla - Arnoldo Mondadori Editore, 1987, pp. 16-25].

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