Magnifico
Rettore,
Autorità politiche e civili,
Illustri docenti e personale tecnico amministrativo,
cari giovani studenti!
È
per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della "Sapienza -
Università di Roma" in occasione della inaugurazione dell'anno accademico.
Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di
Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del
sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio
VIII, l'istituzione era alle dirette dipendenze dell'Autorità ecclesiastica,
sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come
istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha
conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le
più prestigiose università del mondo. Da sempre la Chiesa di Roma guarda con
simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone
l'impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle
nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti
significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in
particolare, l'Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle
Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo
dell'accoglienza e dell'organizzazione, ma soprattutto della profetica e
complessa proposta della elaborazione di un "nuovo umanesimo per il terzo
millennio".
Mi
è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l'invito che
mi è stato rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione.
In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: Che cosa può e
deve dire un Papa in un'occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona
ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già
professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed
attualità. Nell'università "Sapienza", l'antica università di Roma, però,
sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come
tale. Certo, la "Sapienza" era un tempo l'università del Papa, ma oggi è
un'università laica con quell'autonomia che, in base al suo stesso concetto
fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve
essere legata esclusivamente all'autorità della verità. Nella sua libertà da
autorità politiche ed ecclesiastiche l'università trova la sua funzione
particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di
un'istituzione del genere.
Ritorno
alla mia domanda di partenza: Che cosa può e deve dire il Papa
nell'incontro con l'università della sua città? Riflettendo su questo
interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui
chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti,
chiedersi: Qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: Qual è la
natura e la missione dell'università? Non vorrei in questa sede trattenere
Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve
accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della
successione all'Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei
riguardi dell'intera Chiesa cattolica. La parola "vescovo"-episkopos,
che nel suo significato immediato rimanda a "sorvegliante", già nel Nuovo
Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli è
colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all'insieme,
prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell'insieme. In questo
senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso
l'interno della comunità credente. Il Vescovo - il Pastore - è l'uomo che si
prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola
sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù - e non
soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della
quale il Vescovo si prende cura - grande o piccola che sia - vive nel mondo;
le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola
influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo
insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il
suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull'insieme dell'umanità. Vediamo
oggi con molta chiarezza come le condizioni delle religioni e come la
situazione della Chiesa - le sue crisi e i suoi rinnovamenti - agiscano
sull'insieme dell'umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua
comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica
dell'umanità.
Qui,
però, emerge subito l'obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non
parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi
dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti
non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento,
perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: Che cosa è la
ragione? Come può un'affermazione - soprattutto una norma morale -
dimostrarsi "ragionevole"? A questo punto vorrei per il momento solo
brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose
comprensive il carattere della ragione "pubblica", vede tuttavia nella loro
ragione "non pubblica" almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una
razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta
a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza
fra l'altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione
responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state
sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa
dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che
l'esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico
dell'umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo
perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di
autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza
dell'umanità come tale - la sapienza delle grandi tradizioni religiose - è
da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino
della storia delle idee.
Ritorniamo
alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunità
credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una
determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità
che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che
risulta importante per l'intera umanità: in questo senso parla come
rappresentante di una ragione etica.
Ma
ora ci si deve chiedere: E che cosa è l'università? Qual è il suo compito?
È una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di
rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione.
Penso si possa dire che la vera, intima origine dell'università stia nella
brama di conoscenza che è propria dell'uomo. Egli vuol sapere che cosa sia
tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere
l'interrogarsi di Socrate come l'impulso dal quale è nata l'università
occidentale. Penso ad esempio - per menzionare soltanto un testo - alla
disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e
la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra
gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e
combattimenti ... Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è
vero?" (6 b - c). In questa domanda apparentemente poco devota - che, però,
in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla
ricerca del Dio veramente divino - i cristiani dei primi secoli hanno
riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in
modo positivista, o come la via d'uscita da desideri non appagati; l'hanno
compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per
far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo
Ragione-Amore. Per questo, l'interrogarsi della ragione sul Dio più grande
come anche sulla vera natura e sul vero senso dell'essere umano era per loro
non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte
dell'essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi,
di sciogliere o accantonare l'interrogarsi socratico, ma potevano, anzi,
dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la
ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità
intera. Poteva, anzi doveva così, nell'ambito della fede cristiana, nel
mondo cristiano, nascere l'università.
È
necessario fare un ulteriore passo. L'uomo vuole conoscere - vuole verità.
Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría,
come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica.
Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della
Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato
una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": il semplice
sapere, dice, rende tristi. E di fatto - chi vede e apprende soltanto tutto
ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa
di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza
del bene. Questo è anche il senso dell'interrogarsi socratico: Qual è quel
bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è
questo l'ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata
concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che,
nell'incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà
stessa.
Nella
teologia medievale c'è stata una disputa approfondita sul rapporto tra
teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire - una disputa
che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l'università medievale con le sue
quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che,
secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche
se era considerata più come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo
inserimento nel cosmo dell'universitas significava chiaramente che
era collocata nell'ambito della razionalità, che l'arte del guarire stava
sotto la guida della ragione e veniva sottratta all'ambito della magia.
Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma
proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha
bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare
la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire
nella Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla
libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è
il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito
la domanda: Come s'individuano i criteri di giustizia che rendono possibile
una libertà vissuta insieme e servono all'essere buono dell'uomo? A questo
punto s'impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere
trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della
libertà, della dignità umana e dei diritti dell'uomo. È la questione che ci
occupa oggi nei processi democratici di formazione dell'opinione e che al
contempo ci angustia come questione per il futuro dell'umanità. Jürgen
Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale,
quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale
presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione
politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i
contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole"
egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze
aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione
sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto
bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I
rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono - lo
sappiamo - prevalentemente i partiti come responsabili della formazione
della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira
soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi
inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi
però sono spesso particolari e non servono veramente all'insieme. La
sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla
sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas
parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel
processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità
nel dibattito filosofico ed in quello politico.
Ma
allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos'è la verità? E
come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come
fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa è ragionevole?
Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a
ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità
della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a
partiti e gruppi d'interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la
loro importanza. Torniamo così alla struttura dell'università medievale.
Accanto a quella di giurisprudenza c'erano le Facoltà di filosofia e di
teologia, a cui era affidata la ricerca sull'essere uomo nella sua totalità
e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si
potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue
le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere
che l'uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse
corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna
sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente.
Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma
piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda - in cammino con
i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro
risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente
al di là di ogni singola risposta.
Teologia
e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale
nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall'altra e, tuttavia,
ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità. È merito
storico di san Tommaso d'Aquino - di fronte alla differente risposta dei
Padri a causa del loro contesto storico - di aver messo in luce l'autonomia
della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della
ragione che s'interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle
filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente
intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera
filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze
della ragione in ricerca della verità; che la fede è il "sì" alla verità,
rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al
momento della nascita dell'università, in Occidente non esistevano più
quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in
modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita
dalla fede. Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la
prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella
loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come
specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il
cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva
incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di
filosofia che, come cosiddetta "Facoltà degli artisti", fino a quel momento
era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e
propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa.
Non possiamo qui soffermarci sull'avvincente confronto che ne derivò. Io
direi che l'idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia
potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia
per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza
confusione e senza separazione". "Senza confusione" vuol dire che ognuna
delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere
veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria
responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua
grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro
di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che,
non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per
questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione" vige
anche il "senza separazione": la filosofia non ricomincia ogni volta dal
punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo
della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di
nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che
le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato
all'umanità come indicazione del cammino. Varie cose dette da teologi nel
corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali,
sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo
stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell'umanesimo
cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede
nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un'istanza per la
ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può
essere fatto proprio soltanto all'interno della fede e quindi non può
presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane
inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede
cristiana non è mai soltanto una "comprehensive religious doctrine"
nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che
aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua
origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così
una forza contro la pressione del potere e degli interessi.
Ebbene,
finora ho solo parlato dell'università medievale, cercando tuttavia di
lasciar trasparire la natura permanente dell'università e del suo compito.
Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che
nell'università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti:
innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della
connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia;
in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l'uomo,
scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua
natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è
aperta all'umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono
cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della
dignità dell'uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino
dell'uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella
disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel
panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale - per
parlare solo di questo - è oggi che l'uomo, proprio in considerazione della
grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della
verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si
piega davanti alla pressione degli interessi e all'attrattiva dell'utilità,
costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista
della struttura dell'università: esiste il pericolo che la filosofia, non
sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che
la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella
sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione - sollecita
della sua presunta purezza - diventa sorda al grande messaggio che le viene
dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui
radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio
per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla
nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in
base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la
convince e - preoccupata della sua laicità - si distacca dalle radici delle
quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e
si frantuma.
Con
ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa
nell'università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo
autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo
ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di
questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la
sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi
alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a
scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a
percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a
trovare la via verso il futuro.
Dal Vaticano, 17 gennaio 2008
Benedictus XVI
(©L'Osservatore
Romano) |