SOLLICITUDO REI SOCIALIS
Giovanni Paolo II
CAPITOLO I
INTRODUZIONE
1. La sollecitudine sociale della Chiesa, finalizzata ad un autentico sviluppo
dell'uomo e della società, che rispetti e promuova la persona umana in tutte le
sue dimensioni, si è sempre espressa nei modi più svariati. Uno dei mezzi
privilegiati di intervento è stato nei tempi recenti il Magistero dei Romani
Pontefici, che, partendo dall'Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII come da un
punto di riferimento, (1) ha trattato di frequente la questione facendo alcune
volte coincidere le date di pubblicazione dei vari documenti sociali con gli
anniversari di quel primo documento. (2) Né i Sommi Pontefici hanno trascurato
di illuminare con tali interventi anche aspetti nuovi della dottrina sociale
della Chiesa. Pertanto, cominciando dal validissimo apporto di Leone XIII,
arricchito dai successivi contributi magisteriali, si è ormai costituito un
aggiornato "corpus" dottrinale, che si articola man mano che la Chiesa, nella
pienezza della Parola rivelata da Cristo Gesù (3) e con l'assistenza dello
Spirito Santo (Gv14,16); (Gv16,13), va leggendo gli avvenimenti mentre si
svolgono nel corso della storia. Essa cerca così di guidare gli uomini a
rispondere, anche con l'ausilio della riflessione razionale e delle scienze
umane, alla loro vocazione di costruttori responsabili della società terrena.
2. In tale cospicuo corpo di insegnamento sociale si inserisce e distingue
l'Enciclica Populorum Progressio, (4) che il mio venerato predecessore Paolo VI
pubblicò il 26 marzo 1967. La perdurante attualità di questa Enciclica si
riconosce agevolmente registrando la serie di commemorazioni che si sono tenute
durante questo anno, in varie forme e in molti ambienti del mondo ecclesiastico
e civile. A questo medesimo scopo la Pontificia Commissione Iustitia et Pax
inviò l'anno scorso una lettera circolare ai Sinodi delle Chiese cattoliche
Orientali e alle Conferenze Episcopali, sollecitando opinioni e proposte circa
il modo migliore di celebrare l'anniversario dell'Enciclica, arricchirne gli
insegnamenti ed all'occorrenza attualizzarli. La stessa Commissione promosse,
alla scadenza del ventesimo anniversario, una solenne commemorazione, alla quale
volli prender parte tenendo l'allocuzione conclusiva. (5) Ed ora, prendendo
anche in considerazione i contenuti delle risposte alla citata circolare credo
opportuno, a chiusura dell'anno 1987, dedicare un'Enciclica alla tematica della
Populorum Progressio.
3. Con ciò intendo raggiungere principalmente due obiettivi di non piccola
importanza: da una parte, rendere omaggio a questo storico documento di Paolo VI
e al suo insegnamento; dall'altra, nella linea tracciata dai miei venerati
predecessori sulla Cattedra di Pietro, riaffermare la continuità della dottrina
sociale ed insieme il suo costante rinnovamento. In effetti, continuità e
rinnovamento sono una riprova del perenne valore dell'insegnamento della Chiesa.
Questa doppia connotazione e tipica del suo insegnamento nella sfera sociale.
Esso, da un lato, è costante perché si mantiene identico nella sua ispirazione
di fondo, nei suoi "principi di riflessione", nei suoi "criteri di giudizio",
nelle sue basilari "direttrici di azione" (6) e, soprattutto, nel suo vitale
collegamento col Vangelo del Signore; dall'altro lato, è sempre nuovo, perché è
soggetto ai necessari e opportuni adattamenti suggeriti dal variare delle
condizioni storiche e dall'incessante fluire degli avvenimenti, in cui si muove
la vita degli uomini e delle società.
4. Nella convinzione che gli insegnamenti dell'Enciclica Populorum Progressio,
indirizzata agli uomini ed alla società degli anni Sessanta, conservano tutta la
loro forza di richiamo alla coscienza oggi, sullo scorcio degli anni Ottanta,
nello sforzo di indicare le linee portanti del mondo odierno, sempre nell'ottica
del motivo ispiratore, lo "sviluppo dei popoli", ancora ben lontano dall'essere
raggiunto, mi propongo di prolungarne l'eco, collegandoli con le possibili
applicazioni al presente momento storico, non meno drammatico di quello di venti
anni fa. Il tempo, lo sappiamo bene, scorre sempre secondo il medesimo ritmo;
oggi, tuttavia, si ha l'impressione che sia sottoposto a un moto di continua
accelerazione, in ragione soprattutto della moltiplicazione e complessità dei
fenomeni in mezzo ai quali viviamo. Di conseguenza, la configurazione del mondo,
nel corso degli ultimi venti anni, pur conservando alcune costanti fondamentali,
ha subito notevoli cambiamenti e presenta aspetti del tutto nuovi. Questo
periodo di tempo, caratterizzato alla vigilia del terzo Millennio cristiano da
una diffusa attesa, quasi di un nuovo "avvento", (7) che in qualche modo tocca
tutti gli uomini, offre l'occasione di approfondire l'insegnamento
dell'Enciclica, per vederne anche le prospettive. La presente riflessione ha lo
scopo di sottolineare, con l'aiuto dell'indagine teologica sulla realtà
contemporanea, la necessità di una concezione più ricca e differenziata dello
sviluppo, secondo le proposte dell'Enciclica, e di indicare alcune forme di
attuazione.
CAPITOLO II
NOVITÀ DELL'ENCICLICA "POPULORUM PROGRESSIO"
5. Già al suo apparire, il documento di Papa Paolo VI richiamò l'attenzione
dell'opinione pubblica per la sua novità. Si ebbe modo di verificare, in
concreto e con grande chiarezza, dette caratteristiche della continuità e del
rinnovamento all'interno della dottrina sociale della Chiesa. Perciò, l'intento
di riscoprire numerosi aspetti di questo insegnamento, mediante una rilettura
attenta dell'Enciclica, costituirà il filo conduttore delle presenti
riflessioni. Ma prima desidero soffermarmi sulla data di pubblicazione: l'anno
1967. Il fatto stesso che il Papa Paolo VI prese la decisione di pubblicare una
sua Enciclica sociale in quell'anno, invita a considerare il documento in
relazione al Concilio Ecumenico Vaticano II, che si era chiuso l'8 dicembre
1965.
6. In tale fatto dobbiamo vedere qualcosa di più che una semplice vicinanza
cronologica. L'Enciclica Populorum Progressio si pone, in certo modo, quale
documento di applicazione degli insegnamenti del Concilio. E ciò non tanto
perché essa fa continui riferimenti ai testi conciliari, (8) quanto perché
scaturisce dalla preoccupazione della Chiesa, che ispirò tutto il lavoro
conciliare, in particolar modo la Costituzione pastorale Gaudium et spes, nel
coordinare e sviluppare non pochi temi del suo insegnamento sociale. Possiamo
affermare, pertanto, che l'Enciclica Populorum Progressio è come la risposta
all'appello conciliare, col quale ha inizio la Costituzione Gaudium et spes: "Le
gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri
soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le
tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è più genuinamente
umano che non trovi eco nel loro cuore". (9) Queste parole esprimono il motivo
fondamentale che ispirò il grande documento del Concilio, il quale parte dalla
constatazione dello stato di miseria e di sottosviluppo, in cui vivono milioni e
milioni di esseri umani. Questa miseria e sottosviluppo sono, sotto altro nome,
"le tristezze e le angosce" di oggi, "dei poveri soprattutto": di fronte a
questo vasto panorama di dolore e di sofferenza, il Concilio vuole prospettare
orizzonti di gioia e di speranza. Al medesimo obiettivo punta l'Enciclica di
Paolo VI, in piena fedeltà all'ispirazione conciliare.
7. Ma anche nell'ordine tematico l'Enciclica, attenendosi alla grande tradizione
dell'insegnamento sociale della Chiesa, riprende in maniera diretta la nuova
esposizione e la ricca sintesi, che il Concilio ha elaborato segnatamente nella
Costituzione Gaudium et spes. Quanto ai contenuti e temi, riproposti
dall'Enciclica, sono da sottolineare: la coscienza del dovere che ha la Chiesa,
"esperta in umanità", di "scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla
luce del Vangelo"; (10) la coscienza, egualmente profonda, della sua missione di
"servizio", distinta dalla funzione dello Stato, anche quando essa si preoccupa
della sorte delle persone in concreto; (11) il riferimento alle differenze
clamorose nelle situazioni di queste stesse persone; (12) la conferma
dell'insegnamento conciliare, eco fedele della tradizione secolare della Chiesa,
circa la "destinazione universale dei beni"; (13) l'apprezzamento della cultura
e della civiltà tecnica che contribuiscono alla liberazione dell'uomo, (14)
senza trascurare di riconoscere i loro limiti; (15) infine, sul tema dello
sviluppo, che è proprio dell'Enciclica, l'insistenza sul "dovere gravissimo",
che incombe sulle Nazioni più sviluppate, di "aiutare i Paesi in via di
sviluppo". (16) Lo stesso concetto di sviluppo, proposto dall'Enciclica,
scaturisce direttamente dall'impostazione che la Costituzione pastorale dà a
questo problema. (17) Questi ed altri espliciti riferimenti alla Costituzione
pastorale portano alla conclusione che l'Enciclica si presenta come applicazione
dell'insegnamento conciliare in materia sociale al problema specifico dello
sviluppo e del sottosviluppo dei popoli.
8. La breve analisi, ora fatta, ci aiuta a valutar meglio la novità
dell'Enciclica, che si può precisare in tre punti. Il primo è costituito dal
fatto stesso di un documento, emanato dalla massima autorità della Chiesa
cattolica e destinato, a un tempo, alla stessa Chiesa e "a tutti gli uomini di
buona volontà", (18) sopra una materia che a prima vista è solo economica e
sociale: lo sviluppo dei popoli. Qui il termine "sviluppo" è desunto dal
vocabolario delle scienze sociali ed economiche. Sotto tale profilo l'Enciclica
Populorum Progressio si colloca direttamente nel solco dell'Enciclica Rerum
Novarum, che tratta della "condizione degli operai". (19) Considerati
superficialmente, entrambi i temi potrebbero sembrare estranei alla legittima
preoccupazione della Chiesa vista come istituzione religiosa; anzi, lo
"sviluppo" ancor più della "condizione operaia".
In continuità con l'Enciclica di Leone XIII, al documento di Paolo VI bisogna
riconoscere il merito di aver sottolineato il carattere etico e culturale della
problematica relativa allo sviluppo e, parimenti, la legittimità e la necessità
dell'intervento in tale campo da parte della Chiesa. Con ciò la dottrina sociale
cristiana ha rivendicato ancora una volta il suo carattere di applicazione della
Parola di Dio alla vita degli uomini e della società così come alle realtà
terrene, che ad esse si connettono, offrendo "principi di riflessione", "criteri
di giudizio" e "direttrici di azione". (20) Ora, nel documento di Paolo VI si
ritrovano tutti i tre elementi con un orientamento prevalentemente pratico,
ordinato cioè alla condotta morale. Di conseguenza, quando la Chiesa si occupa
dello "sviluppo dei popoli", non può essere accusata di oltrepassare il suo
campo specifico di competenza e, tanto meno, il mandato ricevuto dal Signore.
9. Il secondo punto è la novità della Populorum Progressio, quale si rivela
dall'ampiezza di orizzonte aperto a quella che comunemente è conosciuta come la
"questione sociale". In verità, l'Enciclica Mater et Magistra di Papa Giovanni
XXIII era già entrata in questo più ampio orizzonte (21) ed il Concilio se ne
era fatto eco nella Costituzione Gaudium et spes. (22) Tuttavia, il magistero
sociale della Chiesa non era ancora giunto ad affermare in tutta chiarezza che
la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, (23) né aveva fatto di
questa affermazione, e dell'analisi che l'accompagna, una "direttrice di
azione", come fa Papa Paolo VI nella sua Enciclica. Una simile presa di
posizione così esplicita offre una grande ricchezza di contenuti, che è
opportuno indicare.
Anzitutto, occorre eliminare un possibile equivoco. Riconoscere che la
"questione sociale" abbia assunto una dimensione mondiale, non significa affatto
che sia venuta meno la sua forza d'incidenza, o che abbia perduto la sua
importanza nell'ambito nazionale e locale. Significa, al contrario, che le
problematiche nelle imprese di lavoro o nel movimento operaio e sindacale di un
determinato Paese o regione non sono da considerare isole sparse senza
collegamenti, ma che dipendono in misura crescente dall'influsso di fattori
esistenti al di là dei confini regionali e delle frontiere nazionali. Purtroppo,
sotto il profilo economico, i Paesi in via di sviluppo sono molti di più di
quelli sviluppati: le moltitudini umane prive dei beni e dei servizi, offerti
dallo sviluppo, sono assai più numerose di quelle che ne dispongono. Siamo,
dunque, di fronte a un grave problema di diseguale distribuzione dei mezzi di
sussistenza, destinati in origine a tutti gli uomini, e così pure dei benefici
da essi derivanti. E ciò avviene non per responsabilità delle popolazioni
disagiate, né tanto meno per una specie di fatalità dipendente dalle condizioni
naturali o dall'insieme delle circostanze. L'Enciclica di Paolo VI, nel
dichiarare che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, si
propone prima di tutto di segnalare un fatto morale, avente il suo fondamento
nell'analisi oggettiva della realtà. Secondo le parole stesse dell'Enciclica,
"ognuno deve prendere coscienza" di questo fatto, (24) appunto perché tocca
direttamente la coscienza, ch'è fonte delle decisioni morali. In tale quadro, la
novità dell'Enciclica non consiste tanto nell'affermazione, di carattere storico
circa l'universalità della questione sociale quanto nella valutazione morale di
questa realtà. Perciò, i responsabili della cosa pubblica, i cittadini dei Paesi
ricchi personalmente considerati, specie se cristiani, hanno l'obbligo morale,
secondo il rispettivo grado di responsabilità, di tenere in considerazione,
nelle decisioni personali e di governo, questo rapporto di universalità, questa
interdipendenza che sussiste tra i loro comportamenti e la miseria e il
sottosviluppo di tanti milioni di uomini. Con maggior precisione l'Enciclica paolina traduce l'obbligo morale come "dovere di solidarietà", (25) ed una tale
affermazione, anche se nel mondo molte situazioni sono cambiate, ha oggi la
stessa forza e validità di quando fu scritta.
D'altra parte, senza uscire dalle linee di questa visione morale, la novità
dell'Enciclica consiste anche nell'impostazione di fondo, secondo cui la
concezione stessa dello sviluppo, se lo si considera nella prospettiva
dell'interdipendenza universale, cambia notevolmente. Il vero sviluppo non può
consistere nella semplice accumulazione di ricchezza e nella maggiore
disponibilità dei beni e servizi, se ciò si ottiene a prezzo del sottosviluppo
delle moltitudini, e senza la dovuta considerazione per le dimensioni sociali,
culturali e spirituali dell'essere umano. (26)
10. Come terzo punto l'Enciclica fornisce un considerevole apporto di novità
alla dottrina sociale della Chiesa nel suo complesso ed alla concezione stessa
di sviluppo.
Questa novità è ravvisabile in una frase, che si legge nel paragrafo conclusivo
del documento e che può esser considerata come la sua formula riassuntiva, oltre
che la sua qualifica storica: "Lo sviluppo è il nuovo nome della pace". (27) In
realtà, se la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, è perché
l'esigenza di giustizia può essere soddisfatta solo su questo stesso piano.
Disattendere tale esigenza potrebbe favorire l'insorgere di una tentazione di
risposta violenta da parte delle vittime dell'ingiustizia, come avviene
all'origine di molte guerre. Le popolazioni escluse dalla equa distribuzione dei
beni destinati originariamente a tutti, potrebbero domandarsi: perché non
rispondere con la violenza a quanti ci trattano per primi con la violenza? E se
si esamina la situazione alla luce della divisione del mondo in blocchi
ideologici, già esistente nel 1967, e delle conseguenti ripercussioni e
dipendenze economiche e politiche, il pericolo risulta ben maggiore.
A questa prima considerazione sul drammatico contenuto della formula
dell'Enciclica se ne aggiunge un'altra, a cui lo stesso documento fa allusione:
(28) come giustificare il fatto che ingenti somme di danaro che potrebbero e
dovrebbero essere destinate a incrementare lo sviluppo dei popoli, sono invece
utilizzate per l'arricchimento di individui o di gruppi, ovvero assegnate
all'ampliamento degli arsenali di armi, sia nei Paesi sviluppati sia in quelli
in via di sviluppo, sconvolgendo così le vere priorità? Ciò è ancor più grave
attese le difficoltà che non di rado ostacolano il passaggio diretto dei
capitali destinati a portare aiuto ai Paesi in condizione di bisogno. Se "lo
sviluppo è il nuovo nome della pace", la guerra e i preparativi militari sono il
maggior nemico dello sviluppo integrale dei popoli.
In tal modo, alla luce dell'espressione di Papa Paolo VI, siamo invitati a
rivedere il concetto di sviluppo, che non coincide certamente con quello che si
limita a soddisfare le necessità materiali mediante la crescita dei beni, senza
prestare attenzione alle sofferenze dei più e facendo dell'egoismo delle persone
e delle Nazioni la principale motivazione. Come acutamente ci ricorda la Lettera
di san Giacomo, è da qui che "derivano le guerre e le liti. [...] Non vengono
forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non
riuscite a possedere" (Gc4,1). Al contrario, in un mondo diverso, dominato dalla
sollecitudine per il bene comune di tutta l'umanità, ossia dalla preoccupazione
per lo "sviluppo spirituale e umano di tutti", anziché dalla ricerca del
profitto particolare, la pace sarebbe possibile come frutto di una "giustizia
più perfetta tra gli uomini". (29)
Anche questa novità dell'Enciclica ha un valore permanente ed attuale,
considerata la mentalità di oggi che è così sensibile all'intimo legame
esistente tra il rispetto della giustizia e l'instaurazione della vera pace.
CAPITOLO III
PANORAMA DEL MONDO CONTEMPORANEO
11. L'insegnamento fondamentale dell'Enciclica Populorum Progressio ebbe a suo
tempo grande risonanza per il suo carattere di novità. Il contesto sociale, nel
quale viviamo oggi, non si può dire del tutto identico a quello di venti anni
fa. E perciò vorrei ora soffermarmi, con una breve esposizione, su alcune
caratteristiche del mondo odierno al fine di approfondire l'insegnamento
dell'Enciclica di Paolo VI, sempre sotto il punto di vista dello "sviluppo dei
popoli".
12. Il primo fatto da rilevare è che le speranze di sviluppo, allora così vive,
appaiono oggi molto lontane dalla realizzazione. In proposito, l'Enciclica non
si faceva illusioni. Il suo linguaggio grave, a volte drammatico, si limitava a
sottolineare la pesantezza della situazione ed a proporre alla coscienza di
tutti l'obbligo urgente di contribuire a risolverla. In quegli anni era diffuso
un certo ottimismo circa la possibilità di colmare, senza sforzi eccessivi, il
ritardo economico dei popoli poveri, di dotarli di infrastrutture ed assisterli
nel processo di industrializzazione. In quel contesto storico, al di là degli
sforzi di ogni Paese, l'Organizzazione delle Nazioni Unite promosse
consecutivamente due decenni di sviluppo. (30) Furono prese, infatti, alcune
misure, bilaterali e multilaterali, per venire in aiuto a molte Nazioni, alcune
indipendenti da tempo, altre, per la maggior parte nate appena come Stati dal
processo di decolonizzazione. Da parte sua, la Chiesa sentì il dovere di
approfondire i problemi posti dalla nuova situazione, pensando di sostenere con
la sua ispirazione religiosa ed umana questi sforzi, per dar loro un'"anima" ed
un impulso efficace.
13. Non si può dire che queste diverse iniziative religiose, umane, economiche e
tecniche siano state vane, dato che hanno potuto raggiungere alcuni risultati.
Ma in linea generale, tenendo conto dei diversi fattori, non si può negare che
la presente situazione del mondo, sotto questo profilo dello sviluppo, offra
un'impressione piuttosto negativa. Per questo desidero richiamare l'attenzione
su alcuni indici generici, senza escluderne altri specifici. Tralasciando
l'analisi di cifre o statistiche, è sufficiente guardare la realtà di una
moltitudine innumerevole di uomini e donne, bambini, adulti e anziani, vale a
dire di concrete ed irripetibili persone umane, che soffrono sotto il peso
intollerabile della miseria. Sono molti milioni coloro che son privi di speranza
per il fatto che, in molte parti della terra, la loro situazione si è
sensibilmente aggravata. Di fronte a questi drammi di totale indigenza e
bisogno, in cui vivono tanti nostri fratelli e sorelle, è lo stesso Signore Gesù
che viene a interpellarci (Mt25,31).
14. La prima constatazione negativa da fare e la persistenza, e spesso
l'allargamento del fossato tra l'area del cosiddetto Nord sviluppato e quella
del Sud in via di sviluppo. Questa terminologia geografica è soltanto
indicativa, perché non si può ignorare che le frontiere della ricchezza e della
povertà attraversano al loro interno le stesse società sia sviluppate che in via
di sviluppo. Difatti, come esistono diseguaglianze sociali fino a livelli di
miseria nei Paesi ricchi, così, parallelamente, nei Paesi meno sviluppati si
vedono non di rado manifestazioni di egoismo e ostentazioni di ricchezza, tanto
sconcertanti quanto scandalose. All'abbondanza di beni e di servizi disponibili
in alcune parti del mondo, soprattutto nel Nord sviluppato, corrisponde nel Sud
un inammissibile ritardo, ed è proprio in questa fascia geo-politica che vive la
maggior parte del genere umano. A guardare la gamma dei vari settori, produzione
e distribuzione dei viveri, igiene, salute e abitazione, disponibilità di acqua
potabile, condizioni di lavoro, specie femminile, durata della vita ed altri
indici economici e sociali, il quadro generale risulta deludente, a
considerarlo sia in se stesso sia in relazione ai dati corrispondenti dei Paesi
più sviluppati. La parola "fossato" ritorna spontanea sulle labbra. Forse non è
questo il vocabolo appropriato per indicare la vera realtà, in quanto può dare
l'impressione di un fenomeno stazionario. Non è così. Nel cammino dei Paesi
sviluppati e in via di sviluppo si è verificata in questi anni una diversa
velocità di accelerazione, che porta ad allargare le distanze. Così, i Paesi in
via di sviluppo, specie i più poveri, vengono a trovarsi in una situazione di
gravissimo ritardo. Occorre aggiungere ancora le differenze di cultura e dei
sistemi di valori tra i vari gruppi di popolazione, che non sempre coincidono
col grado di sviluppo economico, ma che contribuiscono a creare distanze. Sono
questi gli elementi e gli aspetti che rendono molto più complessa la questione
sociale, appunto perché ha assunto dimensione universale.
Osservando le varie parti del mondo separate dalla crescente distanza di un tale
fossato, notando come ognuna di esse sembra seguire una propria rotta con
proprie realizzazioni, si comprende perché nel linguaggio corrente si parli di
mondi diversi all'interno del nostro unico mondo: Primo Mondo, Secondo Mondo,
Terzo Mondo, e talvolta Quarto Mondo. (31) Simili espressioni, che non
pretendono certo di classificare in modo esauriente tutti i Paesi, appaiono
significative: esse sono il segno della diffusa sensazione che l'unità del
mondo, in altri termini l'unità del genere umano sia seriamente compromessa.
Tale fraseologia, al di là del suo valore più o meno obiettivo, nasconde senza
dubbio un contenuto morale, di fronte al quale la Chiesa, che è "sacramento o
segno e strumento [...] dell'unità di tutto il genere umano", (32) non può
rimanere indifferente.
15. Il quadro precedentemente tracciato sarebbe, però, incompleto, se agli
"indici economici e sociali" del sottosviluppo non si aggiungessero altri indici
egualmente negativi, anzi ancor più preoccupanti, a cominciare dal piano
culturale. Essi sono: l'analfabetismo, la difficoltà o impossibilità di accedere
ai livelli superiori di istruzione, l'incapacità di partecipare alla costruzione
della propria Nazione, le diverse forme di sfruttamento e di oppressione
economica, sociale, politica ed anche religiosa della persona umana e dei suoi
diritti, le discriminazioni di ogni tipo, specialmente quella più odiosa fondata
sulla differenza razziale. Se qualcuna di queste piaghe si lamenta in aree del
Nord più sviluppato senza dubbio esse sono più frequenti, più durature e
difficili da estirpare nei Paesi in via di sviluppo e meno avanzati.
Occorre rilevare che nel mondo d'oggi, tra gli altri diritti, viene spesso
soffocato il diritto di iniziativa economica. Eppure si tratta di un diritto
importante non solo per il singolo individuo, ma anche per il bene comune.
L'esperienza ci dimostra che la negazione di un tale diritto, o la sua
limitazione in nome di una pretesa "eguaglianza" di tutti nella società riduce,
o addirittura distrugge di fatto lo spirito d'iniziativa, cioè la soggettività
creativa del cittadino. Di conseguenza sorge, in questo modo, non tanto una vera
eguaglianza, quanto un "livellamento in basso". Al posto dell'iniziativa
creativa nasce la passività, la dipendenza e la sottomissione all'apparato
burocratico che, come unico organo "disponente" e "decisionale", se non
addirittura "possessore", della totalità dei beni e mezzi di produzione, mette
tutti in una posizione di dipendenza quasi assoluta, che è simile alla
tradizionale dipendenza dell'operaio-proletario dal capitalismo. Ciò provoca un
senso di frustrazione o disperazione e predispone al disimpegno dalla vita
nazionale, spingendo molti all'emigrazione e favorendo, altresì, una forma di
emigrazione "psicologica". Una tale situazione ha le sue conseguenze anche dal
punto di vista dei "diritti delle singole Nazioni". Infatti, accade spesso che
una Nazione viene privata della sua soggettività, cioè della "sovranità" che le
compete nel significato economico ed anche politico-sociale e in certo qual modo
culturale, perché in una comunità nazionale tutte queste dimensioni della vita
sono collegate tra di loro. Bisogna ribadire, inoltre, che nessun gruppo
sociale, per esempio un partito, ha diritto di usurpare il ruolo di guida unica
perché ciò comporta la distruzione della vera soggettività della società e delle
persone-cittadini, come avviene in ogni totalitarismo. In questa situazione
l'uomo e il popolo diventano "oggetto", nonostante tutte le dichiarazioni in
contrario e le assicurazioni verbali.
A questo punto conviene aggiungere che nel mondo d'oggi ci sono molte altre
forme di povertà. In effetti, certe carenze o privazioni non meritano forse
questa qualifica? La negazione o la limitazione dei diritti umani, quali, ad
esempio, il diritto alla libertà religiosa, il diritto di partecipare alla
costruzione della società, la libertà di associarsi, o di costituire sindacati,
o di prendere iniziative in materia economica, non impoveriscono forse la
persona umana altrettanto, se non maggiormente della privazione dei beni
materiali? E uno sviluppo, che non tenga conto della piena affermazione di
questi diritti, è davvero sviluppo a dimensione umana? In breve, il
sottosviluppo dei nostri giorni non è soltanto economico, ma anche culturale,
politico e semplicemente umano, come già rilevava venti anni fa l'Enciclica Populorum Progressio. Sicché, a questo punto, occorre domandarsi se la realtà
così triste di oggi non sia, almeno in parte, il risultato di una concezione
troppo limitata, ossia prevalentemente economica, dello sviluppo.
16. É da rilevare che, nonostante i lodevoli sforzi fatti negli ultimi due
decenni da parte delle Nazioni più sviluppate o in via di sviluppo e delle
Organizzazioni internazionali, allo scopo di trovare una via d'uscita alla
situazione, o almeno di rimediare a qualcuno dei suoi sintomi, le condizioni si
sono notevolmente aggravate. Le responsabilità di un simile peggioramento
risalgono a cause diverse. Sono da segnalare le indubbie, gravi omissioni da
parte delle stesse Nazioni in via di sviluppo e, specialmente, da parte di
quanti ne detengono il potere economico e politico. Né tanto meno si può fingere
di non vedere le responsabilità delle Nazioni sviluppate, che non sempre, almeno
non nella debita misura, hanno sentito il dovere di portare aiuto ai Paesi
separati dal mondo del benessere, al quale esse appartengono. Tuttavia, è
necessario denunciare l'esistenza di meccanismi economici, finanziari e sociali,
i quali, benché manovrati dalla volontà degli uomini, funzionano spesso in
maniera quasi automatica, rendendo più rigide le situazioni di ricchezza degli
uni e di povertà degli altri. Tali meccanismi, azionati, in modo diretto o
indiretto, dai Paesi più sviluppati, favoriscono per il loro stesso
funzionamento gli interessi di chi li manovra, ma finiscono per soffocare o
condizionare le economie dei Paesi meno sviluppati. Sarà necessario sottoporre
più avanti questi meccanismi a un'attenta analisi sotto l'aspetto etico-morale.
Già la Populorum Progressio prevedeva che con tali sistemi potesse aumentare la
ricchezza dei ricchi, rimanendo confermata la miseria dei poveri. (33) Una
riprova di questa previsione si è avuta con l'apparizione del cosiddetto Quarto
Mondo.
17. Quantunque la società mondiale offra aspetti di frammentazione, espressa con
i nomi convenzionali di Primo, Secondo, Terzo ed anche Quarto Mondo, rimane
sempre molto stretta la loro interdipendenza che, quando sia disgiunta dalle
esigenze etiche, porta a conseguenze funeste per i più deboli. Anzi, questa
interdipendenza, per una specie di dinamica interna e sotto la spinta di
meccanismi che non si possono non qualificare come perversi, provoca effetti
negativi perfino nei Paesi ricchi. Proprio all'interno di questi Paesi si
riscontrano, seppure in misura minore, le manifestazioni specifiche del
sottosviluppo. Sicché dovrebbe esser pacifico che lo sviluppo o diventa comune a
tutte le parti del mondo, o subisce un processo di retrocessione anche nelle
zone segnate da un costante progresso. Fenomeno, questo, particolarmente
indicativo della natura dell'autentico sviluppo: o vi partecipano tutte le
Nazioni del mondo, o non sarà veramente tale. Tra gli indici specifici del
sottosviluppo, che colpiscono in maniera crescente anche i Paesi sviluppati, ve
ne sono due particolarmente rivelatori di una situazione drammatica. In primo
luogo, la crisi degli alloggi. In questo Anno internazionale dei senzatetto,
voluto dall'Organizzazione delle Nazioni Unite, l'attenzione si rivolge ai
milioni di esseri umani privi di un'abitazione adeguata o addirittura senza
abitazione alcuna, al fine di risvegliare la coscienza di tutti e trovare una
soluzione a questo grave problema che ha conseguenze negative sul piano
individuale, familiare e sociale. (34) La carenza di abitazioni si verifica su
un piano universale ed è dovuta, in gran parte, al fenomeno sempre crescente
dell'urbanizzazione. (35) Perfino gli stessi popoli più sviluppati presentano il
triste spettacolo di individui e famiglie che si sforzano letteralmente di
sopravvivere, senza un tetto o con uno così precario che è come se non ci fosse.
La mancanza di abitazioni, che è un problema di per se stesso assai grave, è da
considerare segno e sintesi di tutta una serie di insufficienze economiche,
sociali, culturali o semplicemente umane e, tenuto conto dell'estensione del
fenomeno, non dovrebbe essere difficile convincersi di quanto siamo lontani
dall'autentico sviluppo dei popoli.
18. Altro indice, comune alla stragrande maggioranza delle Nazioni, è il
fenomeno della disoccupazione e della sottoccupazione. Non c'è chi non si renda
conto dell'attualità e della crescente gravità di un simile fenomeno nei Paesi
industrializzati.(36) Se esso appare allarmante nei Paesi in via di sviluppo,
con il loro alto tasso di crescita demografica e la massa della popolazione
giovanile, nei Paesi di grande sviluppo economico sembra che si contraggano le
fonti di lavoro, e così le possibilità di occupazione, invece di crescere,
diminuiscono.
Anche questo fenomeno, con la sua serie di effetti negativi a livello
individuale e sociale, dalla degradazione alla perdita del rispetto che ogni
uomo o donna deve a se stesso, ci spinge a interrogarci seriamente sul tipo di
sviluppo, che si è perseguito nel corso di questi venti anni. A tale proposito
torna quanto mai opportuna la considerazione dell'Enciclica Laborem exercens:
"Bisogna sottolineare che l'elemento costitutivo e, al tempo stesso, la più
adeguata verifica di questo progresso nello spirito di giustizia e di pace, che
la Chiesa proclama e per il quale non cessa di pregare [...], è proprio la
continua rivalutazione del lavoro umano, sia sotto l'aspetto della sua finalità
oggettiva, sia sotto l'aspetto della dignità del soggetto di ogni lavoro, che è
l'uomo". Al contrario, "non si può non rimanere colpiti da un fatto sconcertante
di proporzioni immense", e cioè che "esistono schiere di disoccupati o di
sotto-occupati [...]: un fatto che, senza dubbio, sta ad attestare che sia
all'interno delle singole comunità politiche, sia nei rapporti tra esse su piano
continentale e mondiale, per quanto concerne l'organizzazione del lavoro e
dell'occupazione, c'è qualcosa che non funziona, e proprio nei punti critici e
di maggiore rilevanza sociale". (37) Come il precedente, anche quest'altro
fenomeno, per il suo carattere universale e in certo senso moltiplicatore,
rappresenta un segno sommamente indicativo, per la sua incidenza negativa, dello
stato e della qualità dello sviluppo dei popoli, di fronte al quale ci troviamo
oggi.
19. Un altro fenomeno, anch'esso tipico del più recente periodo, pur se non si
riscontra dappertutto, è senza dubbio egualmente indicativo
dell'interdipendenza esistente tra Paesi sviluppati e meno. É la questione del
debito internazionale, a cui la Pontificia Commissione Iustitia et Pax ha
dedicato un suo Documento. (38) Non si può qui passare sotto silenzio lo stretto
collegamento tra simile problema, la cui crescente gravità era stata già
prevista dalla Populorum Progressio, (39) e la questione dello sviluppo dei
popoli. La ragione che spinse i popoli in via di sviluppo ad accogliere
l'offerta di abbondanti capitali disponibili fu la speranza di poterli investire
in attività di sviluppo. Di conseguenza, la disponibilità dei capitali e il
fatto di accettarli a titolo di prestito possono considerarsi un contributo allo
sviluppo stesso, cosa desiderabile e in sé legittima, anche se forse imprudente
e, in qualche occasione, affrettata. Cambiate le circostanze, tanto nei Paesi
indebitati quanto nel mercato internazionale finanziatore, lo strumento
prescelto per dare un contributo allo sviluppo si è trasformato in un congegno
controproducente. E ciò sia perché i Paesi debitori, per soddisfare gli impegni
del debito, si vedono obbligati a esportare i capitali che sarebbero necessari
per accrescere o, addirittura, per mantenere il loro livello di vita, sia
perché, per la stessa ragione, non possono ottenere nuovi finanziamenti del pari
indispensabili. Per questo meccanismo il mezzo destinato allo sviluppo dei
popoli si è risolto in un freno, anzi, in certi casi, addirittura in
un'accentuazione del sottosviluppo.
Queste costatazioni debbono spingere a riflettere, come dice il recente
Documento della Pontificia Commissione Iustitia et Pax, (40) sul carattere
etico dell'interdipendenza dei popoli; e, per stare nella linea della presente
considerazione, sulle esigenze e condizioni, ispirate egualmente a principi
etici, della cooperazione allo sviluppo.
20. Se, a questo punto, esaminiamo le cause di tale grave ritardo nel processo
dello sviluppo, verificatosi in senso opposto alle indicazioni dell'Enciclica
Populorum Progressio, che aveva sollevato tante speranze, la nostra attenzione
si ferma in particolare sulle cause politiche della situazione odierna.
Trovandoci di fronte ad un insieme di fattori indubbiamente complessi, non è
possibile giungere qui a un'analisi completa. Ma non si può passare sotto
silenzio un fatto saliente del quadro politico, che caratterizza il periodo
storico seguito al secondo conflitto mondiale ed è un fattore non trascurabile
nell'andamento dello sviluppo dei popoli. Ci riferiamo all'esistenza di due
blocchi contrapposti, designati comunemente con i nomi convenzionali di Est e
Ovest oppure di Oriente e Occidente. La ragione di questa connotazione non è
puramente politica, ma anche, come si dice, geo politica. Ciascuno dei due
blocchi tende ad assimilare o ad aggregare intorno a sé, con diversi gradi di
adesione o partecipazione, altri Paesi o gruppi di Paesi.
La contrapposizione è innanzitutto politica, in quanto ogni blocco trova la
propria identità in un sistema di organizzazione della società e di gestione del
potere, che tende ad essere alternativo all'altro; a sua volta, la
contrapposizione politica trae origine da una contrapposizione più profonda, che
è di ordine ideologico. In Occidente esiste, infatti, un sistema che
storicamente si ispira ai principi del capitalismo liberista, quale si sviluppò
nel secolo scorso con l'industrializzazione; in Oriente c'è un sistema ispirato
al collettivismo marxista, che nacque dall'interpretazione della condizione
delle classi proletarie, alla luce di una peculiare lettura della storia.
Ciascuna delle due ideologie, facendo riferimento a due visioni così diverse
dell'uomo, della sua libertà e del suo ruolo sociale, ha proposto e promuove,
sul piano economico, forme antitetiche di organizzazione del lavoro e di
strutture della proprietà, specialmente per quanto riguarda i cosiddetti mezzi
di produzione.
Era inevitabile che la contrapposizione ideologica, sviluppando sistemi e centri
antagonisti di potere, con proprie forme di propaganda e di indottrinamento,
evolvesse in una crescente contrapposizione militare, dando origine a due
blocchi di potenze armate, ciascuno diffidente e timoroso del prevalere
dell'altro. A loro volta, le relazioni internazionali non potevano non risentire
gli effetti di questa "logica dei blocchi" e delle rispettive "sfere di
influenza". Nata dalla conclusione della seconda guerra mondiale, la tensione
tra i due blocchi ha dominato tutto il quarantennio successivo, assumendo ora il
carattere di "guerra fredda", ora di "guerre per procura" mediante la
strumentalizzazione di conflitti locali, ora tenendo sospesi e angosciati gli
animi con la minaccia di una guerra aperta e totale. Se al presente un tale
pericolo sembra divenuto più remoto, pur senza essere del tutto scomparso, e se
si è pervenuti ad un primo accordo sulla distruzione di un tipo di armamenti
nucleari, l'esistenza e la contrapposizione dei blocchi non cessano di essere
tuttora un fatto reale e preoccupante, che continua a condizionare il quadro
mondiale.
21. Ciò si verifica con effetto particolarmente negativo nelle relazioni
internazionali, che riguardano i Paesi in via di sviluppo. Infatti, com'è noto,
la tensione tra Oriente ed Occidente non riguarda di per sé un'opposizione tra
due diversi gradi di sviluppo, ma piuttosto tra due concezioni dello sviluppo
stesso degli uomini e dei popoli, entrambe imperfette e tali da esigere una
radicale correzione. Detta opposizione viene trasferita in seno a quei Paesi,
contribuendo così ad allargare il fossato, che già esiste sul piano economico
tra Nord e Sud ed e conseguenza della distanza tra i due mondi più sviluppati e
quelli meno sviluppati. É, questa, una delle ragioni per cui la dottrina sociale
della Chiesa assume un atteggiamento critico nei confronti sia del capitalismo
liberista sia del collettivismo marxista. Infatti, dal punto di vista dello
sviluppo viene spontanea la domanda: in qual modo o in che misura questi due
sistemi sono suscettibili di trasformazioni e di aggiornamenti, tali da favorire
o promuovere un vero ed integrale sviluppo dell'uomo e dei popoli nella società
contemporanea? Di fatto, queste trasformazioni e aggiornamenti sono urgenti e
indispensabili per la causa di uno sviluppo comune a tutti.
I Paesi di recente indipendenza, che, sforzandosi di conseguire una propria
identità culturale e politica, avrebbero bisogno del contributo efficace e
disinteressato dei Paesi più ricchi e sviluppati, si trovano coinvolti, e talora
anche travolti, nei conflitti ideologici, che generano inevitabili divisioni al
loro interno, fino a provocare in certi casi vere guerre civili. Ciò anche
perché gli investimenti e gli aiuti allo sviluppo sono spesso distolti dal
proprio fine e strumentalizzati per alimentare i contrasti, al di fuori e contro
gli interessi dei Paesi che dovrebbero beneficiarne. Molti di questi diventano
sempre più consapevoli del pericolo di cadere vittime di un neo-colonialismo e
tentano di sottrarvisi. É tale consapevolezza che ha dato origine, pur tra
difficoltà, oscillazioni e talvolta contraddizioni, al Movimento internazionale
dei Paesi non allineati, il quale, in ciò che ne forma la parte positiva,
vorrebbe effettivamente affermare il diritto di ogni popolo alla propria
identità, alla propria indipendenza e sicurezza, nonché alla partecipazione,
sulla base dell'eguaglianza e della solidarietà, al godimento dei beni che sono
destinati a tutti gli uomini.
22. Fatte queste considerazioni, riesce agevole avere una visione più chiara del
quadro degli ultimi venti anni e comprender meglio i contrasti esistenti nella
parte Nord del mondo, cioè tra Oriente e Occidente, quale causa non ultima del
ritardo o del ristagno del Sud. I Paesi in via di sviluppo, più che trasformarsi
in Nazioni autonome, preoccupate del proprio cammino verso la giusta
partecipazione ai beni ed ai servizi destinati a tutti, diventano pezzi di un
meccanismo, parti di un ingranaggio gigantesco. Ciò si verifica spesso anche nel
campo dei mezzi di comunicazione sociale, i quali, essendo per lo più gestiti da
centri nella parte Nord del mondo, non tengono sempre nella dovuta
considerazione le priorità ed i problemi propri di questi Paesi né rispettano la
loro fisionomia culturale, ma non di rado impongono una visione distorta della
vita e dell'uomo e cosi non rispondono alle esigenze del vero sviluppo.
Ognuno dei due blocchi nasconde dentro di sé, a suo modo, la tendenza
all'imperialismo, come si dice comunemente, o a forme di neo-colonialismo:
tentazione facile, nella quale non di rado si cade, come insegna la storia anche
recente. É questa situazione anormale, conseguenza di una guerra e di una
preoccupazione ingigantita, oltre il lecito, da motivi della propria
sicurezza, che mortifica lo slancio di cooperazione solidale di tutti per il
bene comune del genere umano, a danno soprattutto di popoli pacifici, bloccati
nel loro diritto di accesso ai beni destinati a tutti gli uomini. Vista così, la
presente divisione del mondo è di diretto ostacolo alla vera trasformazione
delle condizioni di sottosviluppo nei Paesi in via di sviluppo o in quelli meno
avanzati. I popoli, però, non sempre si rassegnano alla loro sorte. Inoltre, gli
stessi bisogni di un'economia soffocata dalle spese militari, come dal
burocratismo e dall'intrinseca inefficienza, sembrano adesso favorire dei
processi che potrebbero rendere meno rigida la contrapposizione e più facile
l'avvio di un proficuo dialogo e di una vera collaborazione per la pace.
23. L'affermazione dell'Enciclica Populorum Progressio, secondo cui le risorse e
gli investimenti destinati alla produzione delle armi debbono essere impiegati
per alleviare la miseria delle popolazioni indigenti, (41) rende più urgente
l'appello a superare la contrapposizione tra i due blocchi. Oggi, in pratica
tali risorse servono a mettere ciascuno dei due blocchi in condizione di potersi
avvantaggiare sull'altro, e garantire così la propria sicurezza. Questa
distorsione, che è un vizio d'origine, rende difficile a quelle Nazioni, che
sotto l'aspetto storico, economico e politico hanno la possibilità di svolgere
un ruolo di guida, l'adempiere adeguatamente il loro dovere di solidarietà in
favore dei popoli che aspirano al pieno sviluppo. É qui opportuno affermare, e
non sembri un'esagerazione, che una funzione di guida tra le Nazioni si può
giustificare solo con la possibilità e la volontà di contribuire, in maniera
ampia e generosa, al bene comune. Una Nazione che cedesse, più o meno
consapevolmente, alla tentazione di chiudersi in se stessa, venendo meno alle
responsabilità conseguenti ad una superiorità nel concerto delle Nazioni,
mancherebbe gravemente ad un suo preciso dovere etico. E questo e facilmente
ravvisabile nella contingenza storica, nella quale i credenti intravedono le
disposizioni della divina Provvidenza, pronta a servirsi delle Nazioni per la
realizzazione dei suoi progetti, così come a rendere "vani i disegni dei popoli"
(Sal32,10). Quando l'Occidente dà l'impressione di abbandonarsi a forme di
crescente ed egoistico isolamento, e l'Oriente a sua volta, sembra ignorare per
discutibili motivi il dovere di cooperazione nell'impegno di alleviare la
miseria dei popoli, non ci si trova soltanto di fronte ad un tradimento delle
legittime attese dell'umanità, foriero di imprevedibili conseguenze ma ad una
vera e propria defezione rispetto ad un obbligo morale.
24. Se la produzione delle armi è un grave disordine che regna nel mondo odierno
rispetto alle vere necessità degli uomini e all'impiego dei mezzi adatti a
soddisfarle, non lo è meno il commercio delle stesse armi. Anzi, a proposito di
questo, è necessario aggiungere che il giudizio morale è ancora più severo. Come
si sa, si tratta di un commercio senza frontiere capace di oltrepassare perfino
le barriere dei blocchi. Esso sa superare la divisione tra Oriente e Occidente
e, soprattutto, quella tra Nord e Sud sino a inserirsi, e questo è più grave, tra le diverse componenti della zona meridionale del mondo. Ci troviamo
così di fronte a uno strano fenomeno: mentre gli aiuti economici e i piani di
sviluppo si imbattono nell'ostacolo di barriere ideologiche insuperabili, di
barriere tariffarie e di mercato, le armi di qualsiasi provenienza circolano con
quasi assoluta libertà nelle varie parti del mondo. E nessuno ignora, come
rileva il recente Documento della Pontificia Commissione Iustitia et Pax sul
debito internazionale, (42) che in certi casi i capitali, dati in prestito dal
mondo dello sviluppo, son serviti ad acquistare armamenti nel mondo non
sviluppato. Se a tutto questo si aggiunge il pericolo tremendo, universalmente
conosciuto, rappresentato dalle armi atomiche accumulate fino all'incredibile,
la conclusione logica appare questa: il panorama del mondo odierno, compreso
quello economico, anziché rivelare preoccupazione per un vero sviluppo che
conduca tutti verso una vita "più umana", come auspicava l'Enciclica Populorum
Progressio, (43) sembra destinato ad avviarci più rapidamente verso la morte.
Le conseguenze di tale stato di cose si manifestano nell'acuirsi di una piaga
tipica e rivelatrice degli squilibri e dei conflitti del mondo contemporaneo: i
milioni di rifugiati, a cui guerre, calamità naturali, persecuzioni e
discriminazioni di ogni tipo hanno sottratto la casa, il lavoro, la famiglia e
la patria. La tragedia di queste moltitudini si riflette nel volto disfatto di
uomini, donne e bambini, che, in un mondo diviso e divenuto inospitale, non
riescono a trovare più un focolare.
Né si possono chiudere gli occhi su un'altra dolorosa piaga del mondo odierno:
il fenomeno del terrorismo, inteso come proposito di uccidere e distruggere
indistintamente uomini e beni e di creare appunto un clima di terrore e di
insicurezza, spesso anche con la cattura di ostaggi. Anche quando si adduce come
motivazione di questa pratica inumana una qualsiasi ideologia o la creazione di
una società migliore, gli atti di terrorismo non sono mai giustificabili. Ma
tanto meno lo sono quando, come accade oggi, tali decisioni e gesti, che
diventano a volte vere stragi, certi rapimenti di persone innocenti ed estranee
ai conflitti si prefiggono un fine propagandistico a vantaggio della propria
causa; ovvero, peggio ancora, sono fine a se stessi, sicché si uccide soltanto
per uccidere. Di fronte a tanto orrore e a tanta sofferenza mantengono sempre il
loro valore le parole che ho pronunciato alcuni anni fa e che vorrei ripetere
ancora: "Il Cristianesimo proibisce [...] il ricorso alle vie dell'odio,
all'assassinio di persone indifese, ai metodi del terrorismo". (44)
25. A questo punto occorre fare un riferimento al problema demografico ed al
modo di parlarne oggi, seguendo quanto Paolo VI ha indicato nell'Enciclica (45)
ed io stesso ho esposto diffusamente nell'Esortazione Apostolica Familiaris
Consorzio. (46) Non si può negare l'esistenza, specie nella zona Sud del nostro
pianeta, di un problema demografico tale da creare difficoltà allo sviluppo. É
bene aggiungere subito che nella zona Nord questo problema si pone con
connotazioni inverse: qui, a preoccupare, è la caduta del tasso di natalità, con
ripercussioni sull'invecchiamento della popolazione, incapace perfino di
rinnovarsi biologicamente. Fenomeno, questo, in grado di ostacolare di per sé lo
sviluppo. Come non è esatto affermare che tali difficoltà provengono soltanto
dalla crescita demografica, così non è neppure dimostrato che ogni crescita
demografica sia incompatibile con uno sviluppo ordinato.
D'altra parte, appare molto allarmante costatare in molti Paesi il lancio di
campagne sistematiche contro la natalità per iniziativa dei loro governi, in
contrasto non solo con l'identità culturale e religiosa degli stessi Paesi, ma
anche con la natura del vero sviluppo. Avviene spesso che tali campagne sono
dovute a pressioni e sono finanziate da capitali provenienti dall'estero e, in
qualche caso, ad esse sono addirittura subordinati gli aiuti e l'assistenza
economico-finanziaria. In ogni caso, si tratta di assoluta mancanza di rispetto
per la libertà di decisione delle persone interessate, uomini e donne,
sottoposte non di rado a intolleranti pressioni, comprese quelle economiche, per
piegarle a questa forma nuova di oppressione. Sono le popolazioni più povere a
subirne i maltrattamenti: e ciò finisce con l'ingenerare, a volte, la tendenza a
un certo razzismo, o col favorire l'applicazione di certe forme, egualmente
razzistiche, di eugenismo. Anche questo fatto, che reclama la condanna più
energica, è indizio di un concetto errato e perverso del vero sviluppo umano.
26. Simile panorama prevalentemente negativo, della reale situazione dello
sviluppo del mondo contemporaneo, non sarebbe completo se non si segnalasse la
coesistenza di aspetti positivi.
La prima nota positiva è la piena consapevolezza, in moltissimi uomini e donne,
della dignità propria e di ciascun essere umano. Tale consapevolezza si esprime,
per esempio, con la preoccupazione dappertutto più viva per il rispetto dei
diritti umani e col più deciso rigetto delle loro violazioni. Ne è segno
rivelatore il numero delle associazioni private, alcune di portata mondiale, di
recente istituzione, e quasi tutte impegnate a seguire con grande cura e
lodevole obiettività gli avvenimenti internazionali in un campo così delicato.
Su questo piano bisogna riconoscere l'influsso esercitato dalla Dichiarazione
dei Diritti Umani, promulgata circa quaranta anni fa dall'Organizzazione delle
Nazioni Unite. La sua stessa esistenza e la sua progressiva accettazione da
parte della comunità internazionale sono già segno di una consapevolezza che si
va affermando. Lo stesso bisogna dire, sempre nel campo dei diritti umani, per
gli altri strumenti giuridici della medesima Organizzazione delle Nazioni Unite
o di altri Organismi internazionali. (47) La consapevolezza, di cui parliamo,
non va riferita soltanto agli individui, ma anche alle Nazioni e ai popoli, che,
quali entità aventi una determinata identità culturale, sono particolarmente
sensibili alla conservazione, alla libera gestione e alla promozione del loro
prezioso patrimonio.
Contemporaneamente, nel mondo diviso e sconvolto da ogni tipo di conflitti, si
fa strada la convinzione di una radicale interdipendenza e, per conseguenza, la
necessità di una solidarietà che la assuma e traduca sul piano morale. Oggi
forse più che in passato, gli uomini si rendono conto di essere legati da un
comune destino, da costruire insieme, se si vuole evitare la catastrofe per
tutti. Dal profondo dell'angoscia, della paura e dei fenomeni di evasione come
la droga, tipici del mondo contemporaneo, emerge via via l'idea che il bene, al
quale siamo tutti chiamati, e la felicità, a cui aspiriamo, non si possono
conseguire senza lo sforzo e l'impegno di tutti, nessuno escluso, e con la
conseguente rinuncia al proprio egoismo.
Qui s'inserisce anche, come segno del rispetto per la vita, nonostante tutte le
tentazioni di distruggerla, dall'aborto all'eutanasia, la preoccupazione
concomitante per la pace; e, di nuovo, la coscienza che questa è indivisibile: o
è di tutti, o non è di nessuno. Una pace che esige sempre più il rispetto
rigoroso della giustizia e, conseguentemente, l'equa distribuzione dei frutti
del vero sviluppo. (48)
Tra i segnali positivi del presente occorre registrare ancora la maggiore
consapevolezza dei limiti delle risorse disponibili, la necessità di rispettare
l'integrità e i ritmi della natura e di tenerne conto nella programmazione dello
sviluppo, invece di sacrificarlo a certe concezioni demagogiche dello stesso. É
quella che oggi va sotto il nome di preoccupazione ecologica. É giusto
riconoscere pure l'impegno di uomini di governo, politici, economisti,
sindacalisti, personalità della scienza e funzionari internazionali, molti dei
quali ispirati dalla fede religiosa, a risolvere generosamente, con non pochi
sacrifici personali, i mali del mondo e ad adoperarsi con ogni mezzo, perché un
sempre maggior numero di uomini e donne possa godere del beneficio della pace e
di una qualità di vita degna di questo nome. A ciò contribuiscono in non piccola
misura le grandi Organizzazioni internazionali ed alcune Organizzazioni
regionali, i cui sforzi congiunti consentono interventi di maggiore efficacia. É
stato anche per questi contributi che alcuni Paesi del Terzo Mondo, nonostante
il peso di numerosi condizionamenti negativi, sono riusciti a raggiungere una
certa autosufficienza alimentare, o un grado di industrializzazione che consente
di sopravvivere degnamente e di garantire fonti di lavoro alla popolazione
attiva. Pertanto, non tutto è negativo nel mondo contemporaneo, e non potrebbe
essere altrimenti, perché la Provvidenza del Padre celeste vigila con amore
perfino sulle nostre preoccupazioni quotidiane (Mt6,25); (Mt10,23); (Lc12,6);
(Lc22,1); anzi i valori positivi, che abbiamo rilevato, attestano una nuova
preoccupazione morale soprattutto in ordine ai grandi problemi umani, quali sono
lo sviluppo e la pace. Questa realtà mi spinge a portare la riflessione sulla
vera natura dello sviluppo dei popoli, in linea con l'Enciclica di cui
celebriamo l'anniversario, e come omaggio al suo insegnamento.
CAPITOLO IV
L'AUTENTICO SVILUPPO UMANO
27. Lo sguardo che l'Enciclica ci invita a rivolgere al mondo contemporaneo ci
fa costatare, anzitutto, che lo sviluppo non è un processo rettilineo, quasi
automatico e di per sé illimitato, come se, a certe condizioni, il genere umano
debba camminare spedito verso una specie di perfezione indefinita. (49) Simile
concezione, legata ad una nozione di "progresso" dalle connotazioni filosofiche
di tipo illuministico, piuttosto che a quella di "sviluppo", (50) adoperata in
senso specificamente economico-sociale, sembra posta ora seriamente in dubbio,
specie dopo la tragica esperienza delle due guerre mondiali, della distruzione
pianificata e in parte attuata di intere popolazioni e dell'incombente pericolo
atomico. Ad un ingenuo ottimismo meccanicistico è subentrata una fondata
inquietudine per il destino dell'umanità.
28. Al tempo stesso, però, è entrata in crisi la stessa concezione "economica" o
"economicista", legata al vocabolo sviluppo. Effettivamente oggi si comprende
meglio che la pura accumulazione di beni e dl servizi, anche a favore della
maggioranza, non basta a realizzare la felicità umana. Né, di conseguenza, la
disponibilità dei molteplici benefici reali, apportati negli ultimi tempi dalla
scienza e dalla tecnica, compresa l'informatica, comporta la liberazione da ogni
forma di schiavitù. Al contrario, l'esperienza degli anni più recenti dimostra
che, se tutta la massa delle risorse e delle potenzialità, messe a disposizione
dell'uomo, non è retta da un intendimento morale e da un orientamento verso il
vero bene del genere umano, si ritorce facilmente contro di lui per opprimerlo.
Dovrebbe essere altamente istruttiva una sconcertante costatazione del più
recente periodo: accanto alle miserie del sottosviluppo, che non possono essere
tollerate, ci troviamo di fronte a una sorta di supersviluppo, egualmente
inammissibile, perché, come il primo, è contrario al bene e alla felicità
autentica. Tale supersviluppo, infatti, consistente nell'eccessiva disponibilità
di ogni tipo di beni materiali in favore di alcune fasce sociali, rende
facilmente gli uomini schiavi del "possesso" e del godimento immediato, senza
altro orizzonte che la moltiplicazione o la continua sostituzione delle cose,
che già si posseggono, con altre ancora più perfette. É la cosiddetta civiltà
dei "consumi", o consumismo, che comporta tanti "scarti" e "rifiuti". Un oggetto
posseduto, e già superato da un altro più perfetto, è messo da parte, senza
tener conto del suo possibile valore permanente per sé o in favore di un altro
essere umano più povero. Tutti noi tocchiamo con mano i tristi effetti di questa
cieca sottomissione al puro consumo: prima di tutto, una forma di materialismo
crasso, e al tempo stesso una radicale insoddisfazione, perché si comprende
subito che, se non si è premuniti contro il dilagare dei messaggi pubblicitari
e l'offerta incessante e tentatrice dei prodotti, quanto più si possiede tanto
più si desidera mentre le aspirazioni più profonde restano insoddisfatte e forse
anche soffocate.
L'Enciclica di Papa Paolo VI segnalò la differenza, al giorno d'oggi così
frequentemente accentuata, tra l'"avere" e l'"essere", (51) in precedenza
espressa con parole precise dal Concilio Vaticano II. (52) L'"avere" oggetti e
beni non perfeziona di per sé il soggetto umano, se non contribuisce alla
maturazione e all'arricchimento del suo "essere", cioè alla realizzazione della
vocazione umana in quanto tale. Certo, la differenza tra "essere" e "avere", il
pericolo inerente a una mera moltiplicazione o sostituzione di cose possedute
rispetto al valore dell'"essere" non deve trasformarsi necessariamente in
un'antinomia. Una delle più grandi ingiustizie del mondo contemporaneo consiste
proprio in questo: che sono relativamente pochi quelli che possiedono molto, e
molti quelli che non possiedono quasi nulla. É l'ingiustizia della cattiva
distribuzione dei beni e dei servizi destinati originariamente a tutti . Ecco
allora il quadro: ci sono quelli, i pochi che possiedono molto, che non
riescono veramente ad "essere", perché, per un capovolgimento della gerarchia
dei valori, ne sono impediti dal culto dell'"avere"; e ci sono quelli, i molti
che possiedono poco o nulla, i quali non riescono a realizzare la loro
vocazione umana fondamentale, essendo privi dei beni indispensabili. Il male non
consiste nell'"avere" in quanto tale, ma nel possedere in modo irrispettoso
della qualità e dell'ordinata gerarchia dei beni che si hanno. Qualità e
gerarchia che scaturiscono dalla subordinazione dei beni e dalla loro
disponibilità all'"essere" dell'uomo ed alla sua vera vocazione. Con ciò resta
dimostrato che, se lo sviluppo ha una necessaria dimensione economica, poiché
deve fornire al maggior numero possibile degli abitanti del mondo la
disponibilità di beni indispensabili per "essere", tuttavia non si esaurisce in
tale dimensione. Se viene limitato a questa, esso si ritorce contro quelli che
si vorrebbero favorire. Le caratteristiche di uno sviluppo pieno, "più umano",
che senza negare le esigenze economiche, sia in grado di mantenersi all'altezza
dell'autentica vocazione dell'uomo e della donna, sono state descritte da Paolo
VI. (53)
29. Uno sviluppo non soltanto economico si misura e si orienta secondo questa
realtà e vocazione dell'uomo visto nella sua globalità, ossia secondo un suo
parametro interiore. Egli ha senza dubbio bisogno dei beni creati e dei prodotti
dell'industria, arricchita di continuo dal progresso scientifico e tecnologico.
E la disponibilità sempre nuova dei beni materiali, mentre viene incontro alle
necessità, apre nuovi orizzonti. Il pericolo dell'abuso consumistico e
l'apparizione delle necessità artificiali non debbono affatto impedire la stima
e l'utilizzazione dei nuovi beni e risorse posti a nostra disposizione; in ciò
dobbiamo, anzi, vedere un dono di Dio e una risposta alla vocazione dell'uomo,
che si realizza pienamente in Cristo. Ma per conseguire il vero sviluppo e
necessario non perder mai di vista detto parametro, che è nella natura specifica
dell'uomo, creato da Dio a sua immagine e somiglianza (Gen1,26). Natura
corporale e spirituale, simboleggiata nel secondo racconto della creazione dai
due elementi: la terra, con cui Dio plasma il fisico dell'uomo, e l'alito di
vita, soffiato nelle sue narici (Gen2,7). L'uomo così viene ad avere una certa
affinità con le altre creature: è chiamato a utilizzarle a occuparsi di esse e
sempre secondo la narrazione della Genesi (Gen2,15) è posto nel giardino col
compito di coltivarlo e custodirlo, al di sopra di tutti gli altri esseri
collocati da Dio sotto il suo dominio (Gen1,25). Ma nello stesso tempo l'uomo
deve rimanere sottomesso alla volontà di Dio, che gli prescrive limiti nell'uso
e nel dominio delle cose (Gen2,16), così come gli promette l'immortalità
(Gen2,9); (Sap2,23). L'uomo, pertanto, essendo immagine di Dio, ha una vera
affinità anche con lui.
Sulla base di questo insegnamento, lo sviluppo non può consistere soltanto
nell'uso, nel dominio e nel possesso indiscriminato delle cose create e dei
prodotti dell'industria umana, ma piuttosto nel subordinare il possesso, il
dominio e l'uso alla somiglianza divina dell'uomo e alla sua vocazione
all'immortalità. Ecco la realtà trascendente dell'essere umano, la quale appare
partecipata fin dall'origine ad una coppia di uomo e donna (Gen1,27) ed è quindi
fondamentalmente sociale.
30. Secondo la Sacra Scrittura, dunque, la nozione di sviluppo non è soltanto
"laica" o "profana", ma appare anche, pur con una sua accentuazione
socio-economica, come l'espressione moderna di un'essenziale dimensione della
vocazione dell'uomo. L'uomo, infatti, non è stato creato, per così dire,
immobile e statico. La prima raffigurazione, che di lui offre la Bibbia, lo
presenta senz'altro come creatura e immagine, definita nella sua profonda realtà
dall'origine e dall'affinità, che lo costituiscono. Ma tutto questo immette
nell'essere umano, uomo e donna, il germe e l'esigenza di un compito originario
da svolgere, sia ciascuno individualmente sia come coppia. Il compito è di
"dominare" sulle altre creature, "coltivare il giardino", ed è da assolvere nel
quadro dell'ubbidienza alla legge divina e, quindi, nel rispetto dell'immagine
ricevuta, fondamento chiaro del potere di dominio, riconosciutogli in ordine al
suo perfezionamento (Gen1,26); (Gen2,12); (Sap9,2). Quando l'uomo disobbedisce a
Dio e rifiuta di sottomettersi alla sua potestà, allora la natura gli si ribella
e non lo riconosce più come "signore", perché egli ha appannato in sé l'immagine
divina. L'appello al possesso e all'uso dei mezzi creati rimane sempre valido,
ma dopo il peccato l'esercizio ne diviene arduo e carico di sofferenze
(Gen3,17). Infatti, il successivo capitolo della Genesi ci mostra la discendenza
di Caino, la quale costruisce "una città", si dedica alla pastorizia, si dà alle
arti (la musica) e alla tecnica (la metallurgia), mentre al tempo stesso si
comincia "ad invocare il nome del Signore" (Gen4,17). La storia del genere
umano, delineata dalla Sacra Scrittura, anche dopo la caduta nel peccato è una
storia di realizzazioni continue, che, sempre rimesse in questione e in pericolo
dal peccato, si ripetono, si arricchiscono e si diffondono come risposta alla
vocazione divina, assegnata sin dal principio all'uomo e alla donna (Gen1,26) e
impressa nell'immagine, da loro ricevuta.
É logico concludere, almeno da parte di quanti credono nella Parola di Dio, che
lo "sviluppo" di oggi deve essere visto come un momento della storia iniziata
con la creazione e di continuo messa in pericolo a motivo dell'infedeltà alla
volontà del Creatore, soprattutto per la tentazione dell'idolatria; ma esso
corrisponde fondamentalmente alle premesse iniziali. Chi volesse rinunciare al
compito, difficile ma esaltante, di elevare la sorte di tutto l'uomo e di tutti
gli uomini, sotto il pretesto del peso della lotta e dello sforzo incessante di
superamento, o addirittura per l'esperienza della sconfitta e del ritorno al
punto di partenza, verrebbe meno alla volontà di Dio creatore. Sotto questo
aspetto nell'Enciclica Laborem exercens ho fatto riferimento alla vocazione
dell'uomo al lavoro, per sottolineare il concetto che e sempre lui il
protagonista dello sviluppo. (54) Anzi, lo stesso Signore Gesù, nella parabola
dei talenti, mette in rilievo il severo trattamento riservato a chi osò
nascondere il dono ricevuto: "Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove
non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso [...]. Toglietegli, dunque, il
talento e datelo a chi ha dieci talenti" (Mt25,26). A noi, che riceviamo i doni
di Dio per farli fruttificare, tocca "seminare" e "raccogliere". Se non lo
faremo, ci sarà tolto anche quello che abbiamo. L'approfondimento di queste
severe parole potrà spingerci a impegnarci con più decisione nel dovere, oggi
per tutti urgente di collaborare allo sviluppo pieno degli altri: "Sviluppo di
tutto l'uomo e di tutti gli uomini". (55)
31. La fede in Cristo Redentore, mentre illumina dal di dentro la natura dello
sviluppo, guida anche nel compito della collaborazione. Nella Lettera di san
Paolo ai Colossesi leggiamo che Cristo è "il primogenito di tutta la creazione"
e che "tutte le cose sono state create per mezzo di lui ed in vista di lui"
(Col1,15). Infatti, ogni cosa "ha consistenza in lui", perché "piacque a Dio di
fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le
cose" (Col1,20). In questo piano divino, che comincia dall'eternità in Cristo,
"immagine" perfetta del Padre, e che culmina in lui, "primogenito di coloro che
risuscitano dai morti" (Col1,15), s'inserisce la nostra storia, segnata dal
nostro sforzo personale e collettivo di elevare la condizione umana, superare
gli ostacoli sempre risorgenti lungo il nostro cammino, disponendoci così a
partecipare alla pienezza che "risiede nel Signore" e che egli comunica "al suo
corpo, che è la Chiesa" (Col1,18); (Ef1,22), mentre il peccato, che sempre ci
insidia e compromette le nostre realizzazioni umane è vinto e riscattato dalla
"riconciliazione" operata da Cristo (Col1, 20).
Qui le prospettive si allargano. Il sogno di un "progresso indefinito" si
ritrova trasformato radicalmente dall'ottica nuova aperta dalla fede cristiana,
assicurandoci che tale progresso è possibile solo perché Dio Padre ha deciso fin
dal principio di rendere l'uomo partecipe della sua gloria in Gesù Cristo
risorto, "nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione
dei peccati" (Ef1,7), e in lui ha voluto vincere il peccato e farlo servire per
il nostro bene più grande, (56) che supera infinitamente quanto il progresso
potrebbe realizzare. Possiamo dire allora, mentre ci dibattiamo in mezzo alle
oscurità e alle carenze del sottosviluppo e del supersviluppo, che un giorno
"questo corpo corruttibile si vestirà di incorruttibilità e questo corpo mortale
di immortalità" (1Cor15,54), quando il Signore "consegnerà il Regno a Dio Padre"
(1Cor15,24) e tutte le opere e azioni, degne dell'uomo, saranno riscattate.
La concezione della fede inoltre, mette bene in chiaro le ragioni che spingono
la Chiesa a preoccuparsi della problematica dello sviluppo, a considerarlo un
dovere del suo ministero pastorale, a stimolare la riflessione di tutti circa la
natura e le caratteristiche dell'autentico sviluppo umano. Col suo impegno essa
desidera, da una parte, mettersi al servizio del piano divino inteso a ordinare
tutte le cose alla pienezza che abita in Cristo (Col1,19), e che egli comunicò
al suo corpo, e dall'altra, rispondere alla sua vocazione fondamentale di
"sacramento", ossia "segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità
di tutto il genere umano". (57)
Alcuni Padri della Chiesa si sono ispirati a tale visione per elaborare a loro
volta in forme originali, una concezione circa il significato della storia e il
lavoro umano, come indirizzato a un fine che lo supera e definito sempre dalla
relazione con l'opera di Cristo. In altre parole, è possibile ritrovare
nell'insegnamento patristico una visione ottimistica della storia e del lavoro,
ossia del valore perenne delle autentiche realizzazioni umane, in quanto
riscattate dal Cristo e destinate al Regno promesso. (58) Così fa parte
dell'insegnamento e della pratica più antica della Chiesa la convinzione di
esser tenuta per vocazione, essa stessa, i suoi ministri e ciascuno dei suoi
membri, ad alleviare la miseria dei sofferenti, vicini e lontani, non solo col
"superfluo", ma anche col "necessario". Di fronte ai casi di bisogno, non si
possono preferire gli ornamenti superflui delle chiese e la suppellettile
preziosa del culto divino; al contrario, potrebbe essere obbligatorio alienare
questi beni per dar pane, bevanda, vestito e casa a chi ne è privo. (59) Come si
è già notato, ci viene qui indicata una "gerarchia di valori", nel quadro del
diritto di proprietà, tra l'"avere" e l'"essere", specie quando l'"avere" di
alcuni può risolversi a danno dell'"essere" di tanti altri. Nella sua Enciclica
Papa Paolo VI sta nella linea di tale insegnamento, ispirandosi alla
Costituzione pastorale Gaudium et spes.(60) Per parte mia, desidero insistere
ancora sulla sua gravità e urgenza, implorando dal Signore forza a tutti i
cristiani per poter passare fedelmente all'applicazione pratica.
32. L'obbligo di impegnarsi per lo sviluppo dei popoli non è un dovere soltanto
individuale, né tanto meno individualistico, come se fosse possibile conseguirlo
con gli sforzi isolati di ciascuno. Esso è un imperativo per tutti e per
ciascuno degli uomini e delle donne, per le società e le Nazioni, in particolare
per la Chiesa cattolica e per le altre Chiese e Comunità ecclesiali, con le
quali siamo pienamente disposti a collaborare in questo campo. In tal senso,
come noi cattolici invitiamo i fratelli cristiani a partecipare alle nostre
iniziative, cosi ci dichiariamo pronti a collaborare alle loro, accogliendo gli
inviti che ci sono rivolti. In questa ricerca dello sviluppo integrale dell'uomo
possiamo fare molto anche con i credenti delle altre religioni, come del resto
si sta facendo in diversi luoghi. La collaborazione allo sviluppo di tutto
l'uomo e di ogni uomo, infatti, è un dovere di tutti verso tutti e deve, al
tempo stesso, essere comune alle quattro parti del mondo: Est e Ovest, Nord e
Sud; o, per adoperare il termine oggi in uso, ai diversi "mondi". Se, al
contrario, si cerca di realizzarlo in una sola parte, o in un solo mondo, esso è
fatto a spese degli altri; e là dove comincia, proprio perché gli altri sono
ignorati, si ipertrofizza e si perverte. I popoli o le Nazioni hanno anch'essi
diritto al proprio pieno sviluppo, che, se implica, come si è detto, gli aspetti
economici e sociali, deve comprendere pure la rispettiva identità culturale e
l'apertura verso il trascendente. Nemmeno la necessità dello sviluppo può essere
assunta come pretesto per imporre agli altri il proprio modo di vivere o la
propria fede religiosa.
33. Né sarebbe veramente degno dell'uomo un tipo di sviluppo che non rispettasse
e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e politici,
inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli. Oggi, forse più che in passato, si
riconosce con maggior chiarezza l'intrinseca contraddizione di uno sviluppo
limitato soltanto al lato economico. Esso subordina facilmente la persona umana
e le sue necessità più profonde alle esigenze della pianificazione economica o
del profitto esclusivo. L'intrinseca connessione tra sviluppo autentico e
rispetto dei diritti dell'uomo ne rivela ancora una volta il carattere morale:
la vera elevazione dell'uomo, conforme alla vocazione naturale e storica di
ciascuno non si raggiunge sfruttando solamente l'abbondanza dei beni e dei
servizi, o disponendo di perfette infrastrutture. Quando gli individui e le
comunità non vedono rispettate rigorosamente le esigenze morali, culturali e
spirituali, fondate sulla dignità della persona e sull'identità propria di
ciascuna comunità, a cominciare dalla famiglia e dalle società religiose, tutto
il resto, disponibilità di beni, abbondanza di risorse tecniche applicate alla
vita quotidiana, un certo livello di benessere materiale, risulterà
insoddisfacente e, alla lunga, disprezzabile. Ciò afferma chiaramente il Signore
nel Vangelo, richiamando l'attenzione di tutti sulla vera gerarchia dei valori:
"Qual vantaggio avrà l'uomo, se guadagnerà il mondo intero e poi perderà la
propria anima?" (Mt16,26).
Un vero sviluppo, secondo le esigenze proprie dell'essere umano, uomo o donna,
bambino, adulto o anziano, implica soprattutto da parte di quanti intervengono
attivamente in questo processo e ne sono responsabili una viva coscienza del
valore dei diritti di tutti e di ciascuno nonché della necessità di rispettare
il diritto di ognuno all'utilizzazione piena dei benefici offerti dalla scienza
e dalla tecnica.
Sul piano interno di ogni Nazione, assume grande importanza il rispetto di tutti
i diritti: specialmente il diritto alla vita in ogni stadio dell'esistenza; i
diritti della famiglia, in quanto comunità sociale di base, o "cellula della
società"; la giustizia nei rapporti di lavoro; i diritti inerenti alla vita
della comunità politica in quanto tale; i diritti basati sulla vocazione
trascendente dell'essere umano, a cominciare dal diritto alla libertà di
professare e di praticare il proprio credo religioso. Sul piano internazionale,
ossia dei rapporti tra gli Stati o, secondo il linguaggio corrente, tra i vari
"mondi", è necessario il pieno rispetto dell'identità di ciascun popolo con le
sue caratteristiche storiche e culturali. É indispensabile, altresì, come già
auspicava l'Enciclica Populorum Progressio, riconoscere a ogni popolo l'eguale
diritto "ad assidersi alla mensa del banchetto comune"", (61) invece di giacere
come Lazzaro fuori della porta, mentre "i cani vengono a leccare le sue piaghe"
(Lc16,21). Sia i popoli che le persone singole debbono godere dell'eguaglianza
fondamentale, (62) su cui si basa, per esempio, la Carta dell'Organizzazione
delle Nazioni Unite: eguaglianza che è il fondamento del diritto di tutti alla
partecipazione al processo di pieno sviluppo.
Per essere tale, lo sviluppo deve realizzarsi nel quadro della solidarietà e
della libertà, senza sacrificare mai l'una e l'altra per nessun pretesto. Il
carattere morale dello sviluppo e la sua necessaria promozione sono esaltati
quando c'è il più rigoroso rispetto di tutte le esigenze derivanti dall'ordine
della verità e del bene, propri della creatura umana. Il cristiano, inoltre,
educato a vedere nell'uomo l'immagine di Dio, chiamato alla partecipazione della
verità e del bene, che è Dio stesso, non comprende l'impegno per lo sviluppo e
la sua attuazione fuori dell'osservanza e del rispetto della dignità unica di
questa "immagine". In altre parole, il vero sviluppo deve fondarsi sull'amore di
Dio e del prossimo, e contribuire a favorire i rapporti tra individui e società.
Ecco la "civiltà dell'amore", di cui parlava spesso il Papa Paolo VI.
34. Il carattere morale dello sviluppo non può prescindere neppure dal rispetto
per gli esseri che formano la natura visibile e che i Greci, alludendo appunto
all'ordine che la contraddistingue, chiamavano il "cosmo". Anche tali realtà
esigono rispetto, in virtù di una triplice considerazione, su cui giova
attentamente riflettere. La prima consiste nella convenienza di prendere
crescente consapevolezza che non si può fare impunemente uso delle diverse
categorie di esseri viventi o inanimati, animali, piante, elementi naturali, come si vuole, a seconda delle proprie esigenze economiche. Al contrario,
occorre tener conto della natura di ciascun essere e della sua mutua connessione
in un sistema ordinato, ch'è appunto il cosmo.
La seconda considerazione, invece, si fonda sulla costatazione, si direbbe più
pressante, della limitazione delle risorse naturali, alcune delle quali non
sono, come si dice, rinnovabili. Usarle come se fossero inesauribili, con
assoluto dominio, mette seriamente in pericolo la loro disponibilità non solo
per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future.
La terza considerazione si riferisce direttamente alle conseguenze che un certo
tipo di sviluppo ha sulla qualità della vita nelle zone industrializzate.
Sappiamo tutti che risultato diretto o indiretto dell'industrializzazione e,
sempre più di frequente, la contaminazione dell'ambiente, con gravi conseguenze
per la salute della popolazione.
Ancora una volta risulta evidente che lo sviluppo, la volontà di pianificazione
che lo governa, l'uso delle risorse e la maniera di utilizzarle non possono
essere distaccati dal rispetto delle esigenze morali. Una di queste impone senza
dubbio limiti all'uso della natura visibile. Il dominio accordato dal Creatore
all'uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di "usare e
abusare", o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta
dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la
proibizione di "mangiare il frutto dell'albero" (Gen2,16), mostra con
sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi
a leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente
trasgredire. Una giusta concezione dello sviluppo non può prescindere da queste
considerazioni, relative all'uso degli elementi della natura, alla rinnovabilità
delle risorse e alle conseguenze di una industrializzazione disordinata, le
quali ripropongono alla nostra coscienza la dimensione morale, che deve
distinguere lo sviluppo. (63)
CAPITOLO V
UNA LETTURA TEOLOGICA DEI PROBLEMI MODERNI
35. Alla luce dello stesso essenziale carattere morale proprio dello sviluppo,
sono da considerare anche gli ostacoli che ad esso si oppongono. Se durante gli
anni trascorsi dalla pubblicazione dell'Enciclica paolina lo sviluppo non c'è
stato, o c'è stato in misura scarsa, irregolare, se non addirittura
contraddittoria, le ragioni non possono essere di natura soltanto economica.
Come si e già accennato, vi intervengono anche moventi politici. Le decisioni
propulsive o frenanti lo sviluppo dei popoli, infatti, non sono che fattori di
carattere politico. Per superare i meccanismi perversi, sopra ricordati, e
sostituirli con nuovi, più giusti e conformi al bene comune dell'umanità, è
necessaria un'efficace volontà politica. Purtroppo, dopo aver analizzato la
situazione, occorre concludere che essa è stata insufficiente.
In un documento pastorale, come il presente, un'analisi limitata esclusivamente
alle cause economiche e politiche del sottosviluppo (e, fatti i debiti
riferimenti, anche del cosiddetto supersviluppo) sarebbe incompleta. É
necessario, perciò, individuare le cause di ordine morale che, sul piano del
comportamento degli uomini considerati persone responsabili, interferiscono per
frenare il corso dello sviluppo e ne impediscono il pieno raggiungimento.
Parimenti, quando siano disponibili risorse scientifiche e tecniche, che con le
necessarie e concrete decisioni di ordine politico debbono contribuire
finalmente a incamminare i popoli verso un vero sviluppo, il superamento dei
maggiori ostacoli avverrà soltanto in forza di determinazioni essenzialmente
morali, le quali, per i credenti, specie se cristiani, s'ispireranno ai principi
della fede con l'aiuto della grazia divina.
36. É da rilevare, pertanto, che un mondo diviso in blocchi, sostenuti da
ideologie rigide, dove, invece dell'interdipendenza e della solidarietà,
dominano differenti forme di imperialismo, non può che essere un mondo
sottomesso a "strutture di peccato". La somma dei fattori negativi, che agiscono
in senso contrario a una vera coscienza del bene comune universale e
all'esigenza di favorirlo, dà l'impressione di creare, in persone e istituzioni,
un ostacolo difficile da superare. (64) Se la situazione di oggi è da attribuire
a difficoltà di diversa indole, non è fuori luogo parlare di "strutture di
peccato", le quali, come ho affermato nell'Esortazione Apostolica Reconciliatio
et paenitentia, si radicano nel peccato personale e, quindi, son sempre
collegate ad atti concreti delle persone, che le introducono, le consolidano e
le rendono difficili da rimuovere. (65) E così esse si rafforzano, si diffondono
e diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini.
"Peccato" e "strutture di peccato" sono categorie che non sono spesso applicate
alla situazione del mondo contemporaneo. Non si arriva, però, facilmente alla
comprensione profonda della realtà quale si presenta ai nostri occhi, senza dare
un nome alla radice dei mali che ci affliggono. Si può parlare certo di
"egoismo" e di "corta veduta"; si può fare riferimento a "calcoli politici
sbagliati", a "decisioni economiche imprudenti". E in ciascuna di tali
valutazioni si nota un'eco di natura etico-morale. La condizione dell'uomo è
tale da rendere difficile un'analisi più profonda delle azioni e delle omissioni
delle persone senza implicare, in una maniera o nell'altra, giudizi o
riferimenti di ordine etico. Questa valutazione è di per sé positiva, specie se
diventa coerente fino in fondo e se si basa sulla fede in Dio e sulla sua legge,
che ordina il bene e proibisce il male.
In ciò consiste la differenza tra il tipo di analisi socio-politica e il
riferimento formale al "peccato" e alle "strutture di peccato". Secondo quest'ultima
visione si inseriscono la volontà di Dio tre volte Santo, il suo progetto sugli
uomini, la sua giustizia e la sua misericordia. Il Dio ricco in misericordia,
redentore dell'uomo, Signore e datore della vita, esige dagli uomini
atteggiamenti precisi che si esprimano anche in azioni o omissioni nei riguardi
del prossimo. Si ha qui un riferimento alla "seconda tavola" dei dieci
Comandamenti (Es20,12); (Dt5,16): con l'inosservanza di questi si offende Dio e
si danneggia il prossimo, introducendo nel mondo condizionamenti e ostacoli, che
vanno molto più in là delle azioni e del breve arco della vita di un individuo.
S'interferisce anche nel processo dello sviluppo dei popoli, il cui ritardo o la
cui lentezza deve essere giudicata anche sotto tale luce.
37. A questa analisi generale di ordine religioso si possono aggiungere alcune
considerazioni particolari, per notare che tra le azioni e gli atteggiamenti
opposti alla volontà di Dio e al bene del prossimo e le "strutture" che essi
inducono, i più caratteristici sembrano oggi soprattutto due: da una parte, la
brama esclusiva del profitto e dall'altra, la sete del potere col proposito di
imporre agli altri la propria volontà. A ciascuno di questi atteggiamenti si può
aggiungere, per caratterizzarli meglio, l'espressione: "a qualsiasi prezzo". In
altre parole, siamo di fronte all'assolutizzazione di atteggiamenti umani con
tutte le possibili conseguenze. Anche se di per sé sono separabili, sicché l'uno
potrebbe stare senza l'altro, entrambi gli atteggiamenti si ritrovano, nel
panorama aperto davanti ai nostri occhi, indissolubilmente uniti, sia che
predomini l'uno o l'altro. Ovviamente, a cader vittime di questo duplice
atteggiamento di peccato non sono solo gli individui. possono essere anche le
Nazioni e i blocchi. E ciò favorisce di più l'introduzione delle "strutture di
peccato", di cui ho parlato. Se certe forme di "imperialismo" moderno si
considerassero alla luce di questi criteri morali, si scoprirebbe che sotto
certe decisioni, apparentemente ispirate solo dall'economia o dalla politica si
nascondono vere forme di idolatria: del denaro, dell'ideologia, della classe,
della tecnologia. Ho voluto introdurre questo tipo di analisi soprattutto per
indicare quale sia la vera natura del male a cui ci si trova di fronte nella
questione dello "sviluppo dei popoli": si tratta di un male morale, frutto di
molti peccati, che portano a "strutture di peccato". Diagnosticare così il male
significa identificare esattamente, a livello della condotta umana, il cammino
da seguire per superarlo.
38. É un cammino lungo e complesso e, per di più, tenuto sotto costante minaccia
sia per l'intrinseca fragilità dei propositi e delle realizzazioni umane, sia
per la mutabilità delle circostanze esterne tanto imprevedibili. Bisogna,
tuttavia, avere il coraggio d'intraprenderlo e, dove sono stati fatti alcuni
passi o percorsa una parte del tragitto, andare fino in fondo. Nel quadro di
tali riflessioni, la decisione di mettersi sulla strada o di continuare la
marcia comporta, innanzitutto, un valore morale che gli uomini e le donne
credenti riconoscono come richiesto dalla volontà di Dio, unico vero fondamento
di un'etica assolutamente vincolante.
É da auspicare che anche gli uomini e donne privi di una fede esplicita siano
convinti che gli ostacoli frapposti al pieno sviluppo non sono soltanto di
ordine economico, ma dipendono da atteggiamenti più profondi configurabili, per
l'essere umano, in valori assoluti. Perciò, è sperabile che quanti, in una
misura o l'altra, sono responsabili di una "vita più umana" verso i propri
simili, ispirati o no da una fede religiosa, si rendano pienamente conto
dell'urgente necessità di un cambiamento degli atteggiamenti spirituali, che
definiscono I rapporti di ogni uomo con se stesso, col prossimo, con le comunità
umane, anche le più lontane, e con la natura. in virtù di valori superiori, come
il bene comune, o, per riprendere la felice espressione dell'Enciclica Populorum
Progressio, il pieno sviluppo "di tutto l'uomo e di tutti gli uomini". (66)
Per i cristiani, come per tutti coloro che riconoscono il preciso significato
teologico della parola "peccato", il cambiamento di condotta o di mentalità o
del modo di essere si chiama, con linguaggio biblico, "conversione" (Mc1,15);
(Lc13,3); (Is30,15). Questa conversione indica specificamente relazione a Dio,
alla colpa commessa, alle sue conseguenze e, pertanto, al prossimo, individuo o
comunità. É Dio, nelle "cui mani sono i cuori dei potenti", (67) e quelli di
tutti, che può, secondo la sua stessa promessa, trasformare ad opera del suo
Spirito i "cuori di pietra" in "cuori di carne" (Ez36,26). Nel cammino della
desiderata conversione verso il superamento degli ostacoli morali per lo
sviluppo, si può già segnalare, come valore positivo e morale, la crescente
consapevolezza dell'interdipendenza tra gli uomini e le Nazioni. Il fatto che
uomini e donne, in varie parti del mondo, sentano come proprie le ingiustizie e
le violazioni dei diritti umani commesse in Paesi lontani, che forse non
visiteranno mai, è un segno ulteriore di una realtà trasformata in coscienza,
acquistando così connotazione morale.
Si tratta, innanzitutto, dell'interdipendenza, sentita come sistema determinante
di relazioni nel mondo contemporaneo, nelle sue componenti economica, culturale,
politica e religiosa, e assunta come categoria morale. Quando l'interdipendenza
viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come atteggiamento morale e
sociale, come "virtù"", è la solidarietà. Questa, dunque, non è un sentimento di
vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone,
vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di
impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché
tutti siamo veramente responsabili di tutti. Tale determinazione è fondata sulla
salda convinzione che le cause che frenano il pieno sviluppo siano quella brama
del profitto e quella sete del potere, di cui si è parlato. Questi atteggiamenti
e "strutture di peccato" si vincono solo, presupposto l'aiuto della grazia divina, con un atteggiamento diametralmente opposto: l'impegno per il bene del
prossimo con la disponibilità, in senso evangelico, a "perdersi" a favore
dell'altro invece di sfruttarlo e a "servirlo" invece di opprimerlo per il
proprio tornaconto (Mt10,40); (Mt20,25); (Mc10,42); (Lc22, 25).
39. L'esercizio della solidarietà all'interno di ogni società è valido, quando i
suoi componenti si riconoscono tra di loro come persone. Coloro che contano di
più, disponendo di una porzione più grande di beni e di servizi comuni, si
sentano responsabili dei più deboli e siano disposti a condividere quanto
possiedono. I più deboli, da parte loro, nella stessa linea di solidarietà, non
adottino un atteggiamento puramente passivo o distruttivo del tessuto sociale,
ma, pur rivendicando i loro legittimi diritti, facciano quanto loro spetta per
il bene di tutti. I gruppi intermedi, a loro volta, non insistano egoisticamente
nel loro particolare interesse, ma rispettino gli interessi degli altri. Segni
positivi nel mondo contemporaneo sono la crescente coscienza di solidarietà dei
poveri tra di loro, i loro interventi di appoggio reciproco, le manifestazioni
pubbliche nella scena sociale, senza far ricorso alla violenza, ma prospettando
i propri bisogni e i propri diritti di fronte all'inefficienza o alla corruzione
dei pubblici poteri. In virtù del suo impegno evangelico, la Chiesa si sente
chiamata a restare accanto alle folle povere, a discernere la giustizia delle
loro richieste, a contribuire a soddisfarle, senza perdere di vista il bene dei
gruppi nel quadro del bene comune. Lo stesso criterio si applica, per analogia,
nelle relazioni internazionali. L'interdipendenza deve trasformarsi in
solidarietà, fondata sul principio che i beni della creazione sono destinati a
tutti: ciò che l'industria umana produce con la lavorazione delle materie prime,
col contributo del lavoro, deve servire egualmente al bene di tutti.
Superando gli imperialismi di ogni tipo e i propositi di conservare la propria
egemonia, le Nazioni più forti e più dotate debbono sentirsi moralmente
responsabili delle altre, affinché sia instaurato un vero sistema
internazionale, che si regga sul fondamento dell'eguaglianza di tutti i popoli e
sul necessario rispetto delle loro legittime differenze. I Paesi economicamente
più deboli, o rimasti al limite della sopravvivenza, con l'assistenza degli
altri popoli e della comunità internazionale, debbono essere messi in grado di
dare anch'essi un contributo al bene comune con i loro tesori di umanità e di
cultura, che altrimenti andrebbero perduti per sempre. La solidarietà ci aiuta a
vedere l'"altro", persona, popolo o Nazione, non come uno strumento qualsiasi,
per sfruttarne a basso costo la capacità di lavoro e la resistenza fisica,
abbandonandolo poi quando non serve più ma come un nostro "simile", un "aiuto"
(Gen2,18), da rendere partecipe, al pari di noi, del banchetto della vita, a cui
tutti gli uomini sono egualmente invitati da Dio. Di qui l'importanza di
risvegliare la coscienza religiosa degli uomini e dei popoli. Sono così esclusi
lo sfruttamento, l'oppressione, l'annientamento degli altri. Questi fatti, nella
presente divisione del mondo in blocchi contrapposti, vanno a confluire nel
pericolo di guerra e nell'eccessiva preoccupazione per la propria sicurezza a
spese non di rado dell'autonomia, della libera decisione della stessa integrità
territoriale delle Nazioni più deboli, che son comprese nelle cosiddette "zone
d'influenza" o nelle "cinture di sicurezza". Le "strutture di peccato" e i
peccati, che in esse sfociano, si oppongono con altrettanta radicalità alla pace
e allo sviluppo, perché lo sviluppo, secondo la nota espressione dell'Enciclica
paolina, è "il nuovo nome della pace". (68)
In tal modo la solidarietà da noi proposta è via alla pace e insieme allo
sviluppo. Infatti, la pace del mondo è inconcepibile se non si giunge, da parte
dei responsabili, a riconoscere che l'interdipendenza esige di per sé il
superamento della politica dei blocchi, la rinuncia a ogni forma di imperialismo
economico, militare o politico, e la trasformazione della reciproca diffidenza
in collaborazione. Questo è, appunto, l'atto proprio della solidarietà tra
individui e Nazioni. Il motto del pontificato del mio venerato predecessore Pio
XII era Opus iustitiae pax, la pace come frutto della giustizia. Oggi si
potrebbe dire, con la stessa esattezza e la stessa forza di ispirazione biblica
(Is32,17); (Gc3,18). Opus solidaritatis pax, la pace come frutto della
solidarietà. Il traguardo della pace, tanto desiderata da tutti, sarà certamente
raggiunto con l'attuazione della giustizia sociale e internazionale, ma anche
con la pratica delle virtù che favoriscono la convivenza e ci insegnano a vivere
uniti, per costruirne uniti, dando e ricevendo, una società nuova e un mondo
migliore.
40. La solidarietà è indubbiamente una virtù cristiana. Già nella precedente
esposizione era possibile intravedere numerosi punti di contatto tra essa e la
carità, che è il segno distintivo dei discepoli di Cristo (Gv13,35). Alla luce
della fede, la solidarietà tende a superare se stessa, a rivestire le dimensioni
specificamente cristiane della gratuità totale, del perdono e della
riconciliazione. Allora il prossimo non è soltanto un essere umano con i suoi
diritti e la sua fondamentale eguaglianza davanti a tutti, ma diviene la viva
immagine di Dio Padre, riscattata dal sangue di Gesù Cristo e posta sotto
l'azione permanente dello Spirito Santo. Egli, pertanto, deve essere amato,
anche se nemico, con lo stesso amore con cui lo ama il Signore, e per lui
bisogna essere disposti al sacrificio, anche supremo: "Dare la vita per i propri
fratelli" (1Gv3,16). Allora la coscienza della paternità comune di Dio, della
fratellanza di tutti gli uomini in Cristo, "figli nel Figlio", della presenza e
dell'azione vivificante dello Spirito Santo, conferirà al nostro sguardo sul
mondo come un nuovo criterio per interpretarlo. Al di là dei vincoli umani e
naturali, già così forti e stretti, si prospetta alla luce della fede un nuovo
modello di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi, in ultima istanza,
la solidarietà. Questo supremo modello di unità, riflesso della vita intima di
Dio, uno in tre Persone, è ciò che noi cristiani designiamo con la parola
"comunione". Tale comunione, specificamente cristiana, gelosamente custodita,
estesa e arricchita, con l'aiuto del Signore, è l'anima della vocazione della
Chiesa ad essere "sacramento", nel senso già indicato. La solidarietà, perciò,
deve contribuire all'attuazione di questo disegno divino tanto sul piano
individuale, quanto su quello della società nazionale e internazionale. I
"meccanismi perversi" e le "strutture di peccato", di cui abbiamo parlato,
potranno essere vinte solo mediante l'esercizio della solidarietà umana e
cristiana, a cui la Chiesa invita e che promuove instancabilmente. Solo così
tante energie positive potranno pienamente sprigionarsi a vantaggio dello
sviluppo e della pace. Molti Santi canonizzati dalla Chiesa offrono mirabili
testimonianze di tale solidarietà e possono servire di esempio nelle difficili
circostanze presenti. Fra tutti desidero ricordare san Pietro Claver, col suo
servizio agli schiavi di Cartagena de Indias, e san Massimiliano Maria Kolbe,
con l'offerta della sua vita in favore di un prigioniero a lui sconosciuto nel
campo di concentramento di Auschwitz-Oswiecim.
CAPITOLO VI
ALCUNI ORIENTAMENTI PARTICOLARI
41. La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire al problema del sottosviluppo
in quanto tale, come affermò già Papa Paolo VI nella sua Enciclica. (69) Essa,
infatti, non propone sistemi o programmi economici e politici, né manifesta
preferenze per gli uni o per gli altri, purché la dignità dell'uomo sia
debitamente rispettata e promossa ed a lei stessa sia lasciato lo spazio
necessario per esercitare il suo ministero nel mondo. Ma la Chiesa è "esperta in
umanità", (70) e ciò la spinge a estendere necessariamente la sua missione
religiosa ai diversi campi in cui uomini e donne dispiegano le loro attività, in
cerca della felicità, pur sempre relativa, che è possibile in questo mondo, in
linea con la loro dignità di persone. Sull'esempio dei miei predecessori, debbo
ripetere che non può ridursi a problema "tecnico" ciò che, come lo sviluppo
autentico, tocca la dignità dell'uomo e dei popoli. Così ridotto, lo sviluppo
sarebbe svuotato del suo vero contenuto e si compirebbe un atto di tradimento
verso l'uomo e i popoli, al cui servizio esso deve essere messo. Ecco perché la
Chiesa ha una parola da dire oggi, come venti anni fa, ed anche in futuro,
intorno alla natura, alle condizioni, esigenze e finalità dell'autentico
sviluppo ed agli ostacoli, altresì, che vi si oppongono. Così facendo, la Chiesa
adempie la missione di evangelizzare, poiché dà il suo primo contributo alla
soluzione dell'urgente problema dello sviluppo, quando proclama la verità su
Cristo, su se stessa e sull'uomo, applicandola a una situazione concreta. (71)
Quale strumento per raggiungere lo scopo, la Chiesa adopera la sua dottrina
sociale. Nell'odierna difficile congiuntura, per favorire sia la corretta
impostazione dei problemi che la loro migliore soluzione, potrà essere di grande
aiuto una conoscenza più esatta e una diffusione più ampia dell'"insieme dei
principi di riflessione, dei criteri di giudizio e delle direttrici di azione"
proposti dal suo insegnamento. (72) Si avvertirà così immediatamente che le
questioni che ci stanno di fronte sono innanzitutto morali. e che né l'analisi
del problema dello sviluppo in quanto tale, ne i mezzi per superare le presenti
difficoltà possono prescindere da tale essenziale dimensione. La dottrina
sociale della Chiesa non è una "terza via" tra capitalismo liberista e
collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni
meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé. Non è
neppure un'ideologia, ma l'accurata formulazione dei risultati di un'attenta
riflessione sulle complesse realtà dell'esistenza dell'uomo, nella società e nel
contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo
scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la conformità o
difformità con le linee dell'insegnamento del Vangelo sull'uomo e sulla sua
vocazione terrena e insieme trascendente; per orientare, quindi, il
comportamento cristiano. Essa appartiene, perciò, non al campo dell'ideologia,
ma della teologia e specialmente della teologia morale.
L'insegnamento e la diffusione della dottrina sociale fanno parte della missione
evangelizzatrice della Chiesa. E, trattandosi di una dottrina indirizzata a
guidare la condotta delle persone, ne deriva di conseguenza l'"impegno per la
giustizia" secondo il ruolo, la vocazione, le condizioni di ciascuno.
All'esercizio del ministero dell'evangelizzazione in campo sociale, che è un
aspetto della funzione profetica della Chiesa, appartiene pure la denuncia dei
mali e delle ingiustizie. Ma conviene chiarire che l'annuncio è sempre più
importante della denuncia, e questa non può prescindere da quello, che le offre
la vera solidità e la forza della motivazione più alta.
42. La dottrina sociale della Chiesa, oggi più di prima, ha il dovere di aprirsi
a una prospettiva internazionale in linea col Concilio Vaticano II, (73) con le
più recenti Encicliche (74) e, in particolare, con quella che stiamo ricordando.
(75) Non sarà, pertanto, superfluo riesaminarne e approfondirne sotto questa
luce i temi e gli orientamenti caratteristici, ripresi dal Magistero in questi
anni. Desidero qui segnalarne uno: l'opzione, o amore preferenziale per i
poveri. É, questa, una opzione, o una forma speciale di primato nell'esercizio
della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa. Essa
si riferisce alla vita di ciascun cristiano, in quanto imitatore della vita di
Cristo, ma si applica egualmente alle nostre responsabilità sociali e, perciò,
al nostro vivere, alle decisioni da prendere coerentemente circa la proprietà e
l'uso dei beni. Oggi poi, attesa la dimensione mondiale che la questione sociale
ha assunto, (76) questo amore preferenziale, con le decisioni che esso ci
ispira, non può non abbracciare le immense moltitudini di affamati, di
mendicanti, di senzatetto, senza assistenza medica e, soprattutto, senza
speranza di un futuro migliore: non si può non prendere atto dell'esistenza di
queste realtà. L'ignorarle significherebbe assimilarci al "ricco epulone", che
fingeva di non conoscere Lazzaro il mendico, giacente fuori della sua porta (77)
(Lc16,19).
La nostra vita quotidiana deve essere segnata da queste realtà, come pure le
nostre decisioni in campo politico ed economico. Parimenti i responsabili delle
Nazioni e degli stessi Organismi internazionali, mentre hanno l'obbligo di tener
sempre presente come prioritaria nei loro piani la vera dimensione umana, non
devono dimenticare di dare la precedenza al fenomeno della crescente povertà.
Purtroppo, invece di diminuire, i poveri si moltiplicano non solo nei Paesi meno
sviluppati, ma, ciò che appare non meno scandaloso, anche in quelli maggiormente
sviluppati.
Bisogna ricordare ancora una volta il principio tipico della dottrina sociale
cristiana: i beni di questo mondo sono originariamente destinati a tutti. (78)
Il diritto alla proprietà privata è valido e necessario, ma non annulla il
valore di tale principio: su di essa, infatti, grava "un'ipoteca sociale", (79)
cioè vi si riconosce, come qualità intrinseca, una funzione sociale, fondata e
giustificata precisamente sul principio della destinazione universale dei beni.
Né sarà da trascurare, in questo impegno per i poveri, quella speciale forma di
povertà che è la privazione dei diritti fondamentali della persona, in
particolare del diritto alla libertà religiosa e del diritto, altresì,
all'iniziativa economica.
43. La preoccupazione stimolante verso i poveri, i quali, secondo la
significativa formula, sono "i poveri del Signore" (80), deve tradursi, a
tutti i livelli, in atti concreti fino a giungere con decisione a una serie di
necessarie riforme. Dipende dalle singole situazioni locali individuare le più
urgenti ed i modi per realizzarle; ma non bisogna dimenticare quelle richieste
dalla situazione di squilibrio internazionale, sopra descritto. Al riguardo,
desidero ricordare in particolare: la riforma del sistema internazionale di
commercio, ipotecato dal protezionismo e dal crescente bilateralismo; la riforma
del sistema monetario e finanziario mondiale, oggi riconosciuto insufficiente;
la questione degli scambi delle tecnologie e del loro uso appropriato; la
necessità di una revisione della struttura delle Organizzazioni internazionali
esistenti, nella cornice di un ordine giuridico internazionale. Il sistema
internazionale di commercio oggi discrimina frequentemente i prodotti delle
industrie incipienti dei Paesi in via di sviluppo, mentre scoraggia i produttori
di materie prime. Esiste, peraltro, una sorta di divisione internazionale del
lavoro, per cui i prodotti a basso costo di alcuni Paesi, privi di leggi
efficaci sul lavoro o troppo deboli per applicarle, sono venduti in altre parti
del mondo con considerevoli guadagni per le imprese dedite a questo tipo di
produzione, che non conosce frontiere. Il sistema monetario e finanziario
mondiale si caratterizza per l'eccessiva fluttuazione dei metodi di scambio e di
interesse, a detrimento della bilancia dei pagamenti e della situazione di
indebitamento dei Paesi poveri. Le tecnologie e i loro trasferimenti
costituiscono oggi uno dei principali problemi dell'interscambio internazionale
e dei gravi danni, che ne derivano. Non sono rari i casi di Paesi in via di
sviluppo, a cui si negano le tecnologie necessarie o si inviano quelle inutili.
Le Organizzazioni internazionali, secondo l'opinione di molti, sembrano trovarsi
a un momento della loro esistenza, in cui i meccanismi di funzionamento, i costi
operativi e la loro efficacia richiedono un attento riesame ed eventuali
correzioni. Evidentemente, un processo così delicato non si potrà ottenere senza
la collaborazione di tutti. Esso suppone il superamento delle rivalità politiche
e la rinuncia ad ogni volontà di strumentalizzare le stesse Organizzazioni, che
hanno per unica ragion d'essere il bene comune. Le Istituzioni e le
Organizzazioni esistenti hanno operato bene a favore dei popoli. Tuttavia
l'umanità, di fronte a una fase nuova e più difficile dei suo autentico
sviluppo, ha oggi bisogno di un grado superiore di ordinamento internazionale, a
servizio delle società, delle economie e delle culture del mondo intero.
44. Lo sviluppo richiede soprattutto spirito d'iniziativa da parte degli stessi
Paesi che ne hanno bisogno. (81) Ciascuno di essi deve agire secondo le proprie
responsabilità, senza sperare tutto dai Paesi più favoriti ed operando in
collaborazione con gli altri che sono nella stessa situazione. Ciascuno deve
scoprire e utilizzare il più possibile lo spazio della propria libertà. Ciascuno
dovrà rendersi capace di iniziative rispondenti alle proprie esigenze di
società. Ciascuno dovrà pure rendersi conto delle reali necessità, nonché dei
diritti e dei doveri che gli impongono di risolverle. Lo sviluppo dei popoli
inizia e trova l'attuazione più adeguata nell'impegno di ciascun popolo per il
proprio sviluppo, in collaborazione con gli altri. É importante allora che le
stesse Nazioni in via di sviluppo favoriscano l'autoaffermazione di ogni
cittadino mediante l'accesso a una maggiore cultura ed a una libera circolazione
delle informazioni. Tutto quanto potrà favorire l'alfabetizzazione e
l'educazione di base che l'approfondisce e completa, come proponeva l'Enciclica
Populorum Progressio (82), mete ancora lontane dall'attuazione in tante parti
del mondo, è un diretto contributo al vero sviluppo. Per incamminarsi su
questa via, le stesse Nazioni dovranno individuare le proprie priorità e
riconoscer bene i propri bisogni secondo le particolari condizioni della
popolazione, dell'ambiente geografico e delle tradizioni culturali. Alcune
Nazioni dovranno incrementare la produzione alimentare, per aver sempre a
disposizione il necessario al nutrimento e alla vita. Nel mondo contemporaneo,
in cui la fame miete tante vittime, specie in mezzo all'infanzia, ci sono esempi
di Nazioni non particolarmente sviluppate, che pure sono riuscite a conseguire
l'obiettivo dell'autosufficienza alimentare e a divenire perfino esportatrici di
generi alimentari.
Altre Nazioni hanno bisogno di riformare alcune ingiuste strutture e, in
particolare, le proprie istituzioni politiche, per sostituire regimi corrotti,
dittatoriali o autoritari con quelli democratici e partecipativi. É un processo
che ci auguriamo si estenda e si consolidi, perché la "salute" di una comunità
politica, in quanto si esprime mediante la libera partecipazione e
responsabilità di tutti i cittadini alla cosa pubblica, la sicurezza del
diritto, il rispetto e la promozione dei diritti umani, è condizione necessaria
e garanzia sicura di sviluppo di "tutto l'uomo e di tutti gli uomini".
45. Quanto si è detto non si potrà realizzare senza la collaborazione di tutti
specialmente della comunità internazionale, nel quadro di una solidarietà che
abbracci tutti, a cominciare dai più emarginati. Ma le stesse Nazioni in via di
sviluppo hanno il dovere di praticare la solidarietà fra se stesse e con i Paesi
più emarginati del mondo. É desiderabile, per esempio, che Nazioni di una stessa
area geografica stabiliscano forme di cooperazione che le rendano meno
dipendenti da produttori più potenti. aprano le frontiere ai prodotti della
zona. esaminino le eventuali complementarità dei prodotti. si associno per
dotarsi dei servizi, che ciascuna da sola non è in grado di provvedere.
estendano la cooperazione al settore monetario e finanziario. L'interdipendenza
è già una realtà in molti di questi Paesi. Riconoscerla, in maniera da renderla
più attiva, rappresenta un'alternativa all'eccessiva dipendenza da Paesi più
ricchi e potenti, nell'ordine stesso dell'auspicato sviluppo, senza contrapporsi
a nessuno, ma scoprendo e valorizzando al massimo le proprie possibilità. I
Paesi in via di sviluppo di una stessa area geografica, anzitutto quelli
compresi nella denominazione "Sud", possono e debbono costituire, come già si
comincia a fare con promettenti risultati, nuove organizzazioni regionali,
ispirate a criteri di eguaglianza, libertà e partecipazione nel concerto delle
Nazioni. La solidarietà universale richiede, come condizione indispensabile,
autonomia e libera disponibilità di se stessi, anche all'interno di associazioni
come quelle indicate. Ma, nello stesso tempo, richiede disponibilità ad
accettare i sacrifici necessari per il bene della comunità mondiale.
CAPITOLO VII
CONCLUSIONE
46. Popoli e individui aspirano alla propria liberazione: la ricerca del pieno
sviluppo è il segno del loro desiderio di superare i molteplici ostacoli che
impediscono di fruire di una "vita più umana". Recentemente, nel periodo seguito
alla pubblicazione dell'Enciclica Populorum Progressio, in alcune aree della
Chiesa cattolica, in particolare nell'America Latina, si è diffuso un nuovo modo
di affrontare i problemi della miseria e del sottosviluppo, che fa della
liberazione la categoria fondamentale e il primo principio di azione. I valori
positivi, ma anche le deviazioni e i pericoli di deviazione, connessi a questa
forma di riflessione e di elaborazione teologica, sono stati convenientemente
segnalati dal Magistero ecclesiastico. (83) É bene aggiungere che l'aspirazione
alla liberazione da ogni forma di schiavitù, relativa all'uomo e alla società, è
qualcosa di nobile e valido. A questo mira propriamente lo sviluppo, o piuttosto
la liberazione e lo sviluppo, tenuto conto dell'intima connessione esistente tra
queste due realtà. Uno sviluppo soltanto economico non è in grado di liberare
l'uomo, anzi, al contrario, finisce con l'asservirlo ancora di più. Uno
sviluppo, che non comprenda le dimensioni culturali, trascendenti e religiose
dell'uomo e della società nella misura in cui non riconosce l'esistenza di tali
dimensioni e non orienta ad esse i propri traguardi e priorità, ancor meno
contribuisce alla vera liberazione. L'essere umano è totalmente libero solo
quando e se stesso, nella pienezza dei suoi diritti e doveri: la stessa cosa si
deve dire dell'intera società.
L'ostacolo principale da superare per una vera liberazione è il peccato e le
strutture da esso indotte, man mano che si moltiplica e si estende. (84) La
libertà, con la quale Cristo ci ha liberati (Gal5,1), stimola a convertirci in
servi di tutti. Così il processo dello sviluppo e della liberazione si concreta
in esercizio di solidarietà, ossia di amore e servizio al prossimo,
particolarmente ai più poveri: "Là dove vengono meno la verità e l'amore, il
processo di liberazione porta alla morte di una libertà, che non ha più
sostegno". (85)
47. Nel quadro delle tristi esperienze degli anni recenti e del panorama
prevalentemente negativo del momento presente la Chiesa deve affermare con forza
la possibilità del superamento degli intralci che, per eccesso o per difetto, si
frappongono allo sviluppo, e la fiducia per una vera liberazione. Fiducia e
possibilità fondate, in ultima istanza sulla consapevolezza che ha la Chiesa
della promessa divina, volta a garantire che la storia presente non resta chiusa
in se stessa, ma è aperta al Regno di Dio. La Chiesa ha fiducia anche nell'uomo,
pur conoscendo la malvagità di cui è capace, perché sa bene che, nonostante il
peccato ereditato e quello che ciascuno può commettere, ci sono nella persona
umana sufficienti qualità ed energie, c'è una fondamentale "bontà" (Gen1,31),
perché è immagine del Creatore, posta sotto l'influsso redentore di Cristo, "che
si è unito in certo modo a ogni uomo", (86) e perché l'azione efficace dello
Spirito Santo "riempie la terra" (Sap1,7). Non sono, pertanto, giustificabili né
la disperazione né il pessimismo, né la passività. Anche se con amarezza occorre
dire che, come si può peccare per egoismo, per brama di guadagno esagerato e di
potere, si può anche mancare, di fronte alle urgenti necessità di moltitudini
umane immerse nel sottosviluppo, per timore, indecisione e, in fondo, per
codardia. Siamo tutti chiamati, anzi obbligati, ad affrontare la tremenda sfida
dell'ultima decade del secondo Millennio. Anche perché i pericoli incombenti
minacciano tutti: una crisi economica mondiale, una guerra senza frontiere,
senza vincitori né vinti. Di fronte a simile minaccia, la distinzione tra
persone e Paesi ricchi, tra persone e Paesi poveri, avrà poco valore, salvo la
maggiore responsabilità gravante su chi ha di più e può di più.
Ma tale motivazione non è né l'unica né la principale. É in gioco la dignità
della persona umana la cui difesa e promozione ci sono state affidate dal
Creatore, e di cui sono rigorosamente e responsabilmente debitori gli uomini e
le donne in ogni congiuntura della storia. Il panorama odierno, come già molti
più o meno chiaramente avvertono, non sembra rispondente a questa dignità.
Ciascuno è chiamato a occupare il proprio posto in questa campagna pacifica, da
condurre con mezzi pacifici, per conseguire lo sviluppo nella pace, per
salvaguardare la stessa natura e il mondo che ci circonda. Anche la Chiesa si
sente profondamente implicata in questo cammino, nel cui felice esito finale
spera Perciò, sull'esempio di Papa Paolo VI con l'Enciclica Populorum Progressio,
(87) desidero rivolgermi con semplicità e umiltà a tutti, uomini e donne senza
eccezione, perché, convinti della gravità del momento presente e della
rispettiva, individuale responsabilità, mettano in opera, con lo stile personale
e familiare della vita, con l'uso dei beni, con la partecipazione come
cittadini, col contributo alle decisioni economiche e politiche e col proprio
impegno nei piani nazionali e internazionali, le misure ispirate alla
solidarietà e all'amore preferenziale per i poveri. Così richiede il momento,
così richiede soprattutto la dignità della persona umana, immagine
indistruttibile di Dio creatore, ch'è identica in ciascuno di noi.
In questo impegno debbono essere di esempio e di guida i figli della Chiesa,
chiamati, secondo il programma enunciato da Gesù stesso nella sinagoga di
Nazareth, ad "annunciare ai poveri un lieto messaggio [...], a proclamare ai
prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli
oppressi e predicare un anno di grazia del Signore" (Lc4,18). Conviene
sottolineare il ruolo preponderante, che spetta ai laici, uomini e donne, come è
stato ripetuto nella recente Assemblea sinodale. A loro compete animare, con
impegno cristiano, le realtà temporali e, in esse, mostrare di essere testimoni
e operatori di pace e di giustizia. Desidero rivolgermi specialmente a quanti,
per il sacramento del Battesimo e la professione dello stesso Credo, sono
compartecipi di una vera comunione, sia pure imperfetta, con noi. Sono sicuro
che sia la sollecitudine che questa Lettera esprime, sia le motivazioni chela
animano saranno loro familiari, perché ispirate dal Vangelo di Cristo Gesù.
Possiamo trovare qui un nuovo invito a dare testimonianza unanime delle nostre
comuni convinzioni sulla dignità dell'uomo, creato da Dio, redento da Cristo,
santificato dallo Spirito, e chiamato in questo mondo a vivere una vita conforme
a questa dignità. A coloro che condividono con noi l'eredità di Abramo "nostro
padre nella fede" (88) (Rm4,11), e la tradizione dell'Antico Testamento, ossia
gli Ebrei, a coloro che, come noi, credono in Dio giusto e misericordioso, ossia
i Mussulmani, rivolgo parimenti questo appello, che si estende, altresì, a tutti
i seguaci delle grandi religioni del mondo. L'incontro del 27 ottobre dell'anno
passato ad Assisi, la città di san Francesco, per pregare ed impegnarci per la
pace, ognuno in fedeltà alla propria professione religiosa, ha rivelato a tutti
fino a che punto la pace e, quale sua necessaria condizione, lo sviluppo di
"tutto l'uomo e di tutti gli uomini" siano una questione anche religiosa, e come
la piena attuazione dell'una e dell'altro dipenda dalla fedeltà alla nostra
vocazione di uomini e di donne credenti. Perché dipende, innanzitutto, da Dio.
48. La Chiesa sa bene che nessuna realizzazione temporale s'identifica col Regno
di Dio, ma che tutte le realizzazioni non fanno che riflettere e, in un certo
senso, anticipare la gloria del Regno, che attendiamo alla fine della storia,
quando il Signore ritornerà. Ma l'attesa non potrà esser mai una scusa per
disinteressarsi degli uomini nella loro concreta situazione personale e nella
loro vita sociale, nazionale e internazionale, in quanto questa, ora
soprattutto, condiziona quella.
Nulla, anche se imperfetto e provvisorio, di tutto ciò che si può e si deve
realizzare mediante lo sforzo solidale di tutti e la grazia divina in un certo
momento della storia, per rendere "più umana" la vita degli uomini, sarà perduto
né sarà stato vano. Questo insegna il Concilio Vaticano II in un testo luminoso
della Costituzione Gaudium et spes: "I beni della dignità umana, l'unione
fraterna e la libertà, in una parola tutti i frutti eccellenti della natura e
del nostro sforzo, dopo averli diffusi per la terra nello Spirito del Signore e
in accordo al suo mandato, torneremo a ritrovarli, purificati da ogni macchia,
illuminati e trasfigurati, quando Cristo consegnerà al Padre il Regno eterno e
universale [...], già misteriosamente presente sulla nostra terra". (89) Il
Regno di Dio si fa presente, ora, soprattutto con la celebrazione del Sacramento
dell'Eucaristia, che è il Sacrificio del Signore. In tale celebrazione i frutti
della terra e del lavoro umano, il pane e il vino, sono trasformati
misteriosamente, ma realmente e sostanzialmente per opera dello Spirito Santo e
delle parole del ministro nel Corpo e nel Sangue del Signore Gesù Cristo, Figlio
di Dio e Figlio di Maria, per il quale il Regno del Padre si è fatto presente in
mezzo a noi. I beni di questo mondo e l'opera delle nostre mani, il pane e il
vino, servono per la venuta del Regno definitivo, giacché il Signore mediante il
suo Spirito li assume in se, per offrirsi al Padre e offrire noi con lui nel
rinnovamento del suo unico sacrificio, che anticipa il Regno di Dio e ne
annuncia la venuta finale. Così il Signore mediante l'Eucaristia, sacramento e
sacrificio, ci unisce con sé e ci unisce tra di noi con un vincolo più forte di
ogni unione naturale; e uniti ci invia al mondo intero per dare testimonianza,
con la fede e con le opere, dell'amore di Dio, preparando la venuta del suo
Regno e anticipandolo pur nelle ombre del tempo presente. Quanti partecipiamo
dell'Eucaristia, siamo chiamati a scoprire, mediante questo Sacramento, il senso
profondo della nostra azione nel mondo in favore dello sviluppo e della pace; ed
a ricevere da esso le energie per impegnarci sempre più generosamente,
sull'esempio di Cristo che in tale Sacramento dà la vita per i suoi amici
(Gv15,13). Come quello di Cristo e in quanto unito al suo, il nostro personale
impegno non sarà inutile, ma certamente fecondo.
49. In quest'Anno Mariano, che ho indetto perché i fedeli cattolici guardino
sempre di più a Maria, che ci precede nel pellegrinaggio della fede (90) e con
materna premura intercede per noi davanti al suo Figlio, nostro Redentore,
desidero affidare a lei e alla sua intercessione la difficile congiuntura del
mondo contemporaneo, gli sforzi che si fanno e si faranno, spesso con grandi
sofferenze, per contribuire al vero sviluppo dei popoli, proposto e annunciato
dal mio predecessore Paolo VI. Come sempre ha fatto la pietà cristiana, noi
presentiamo alla Santissima Vergine le difficili situazioni individuali, perché,
esponendole a suo Figlio, ottenga da lui che siano alleviate e cambiate. Ma le
presentiamo, altresì, le situazioni sociali e la stessa crisi internazionale nei
loro aspetti preoccupanti di miseria, disoccupazione, carenza di vitto, corsa
agli armamenti, disprezzo dei diritti umani, stati o pericoli di conflitto,
parziale o totale. Tutto ciò vogliamo filialmente deporre davanti ai suoi "occhi
misericordiosi", ripetendo ancora una volta con fede e speranza l'antica
antifona: "Santa Madre di Dio non disprezzare le suppliche di noi che siamo
nella prova, ma liberaci sempre da tutti i pericoli, o Vergine gloriosa e
benedetta". Madre Santissima nostra Madre e Regina, è colei che volgendosi a suo
Figlio, dice: "Non hanno più vino" (Gv2,3), ed è anche colei che loda Dio Padre,
perché: "Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili. ha ricolmato
di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote" (Lc1,52). La sua
materna sollecitudine si interessa degli aspetti personali e sociali della vita
degli uomini sulla terra. (91) Davanti alla Santissima Trinità, io affido a
Maria quanto in questa Lettera ho esposto invitando tutti a riflettere e ad
impegnarsi attivamente nel promuovere il vero sviluppo dei popoli, come
efficacemente afferma l'orazione della Messa omonima: "O Dio, che hai dato a
tutte le genti una unica origine e vuoi riunirle in una sola famiglia, fa, che
gli uomini si riconoscano fratelli e promuovano nella solidarietà lo sviluppo di
ogni popolo, perché [...] si affermino i diritti di ogni persona e la comunità
umana conosca un'era di eguaglianza e di pace". (92)
Questo concludendo, io chiedo a nome di tutti i fratelli e sorelle, ai quali, in
segno di saluto e di augurio invio una speciale Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 dicembre dell'anno 1987, decimo di
Pontificato