RERUM NOVARUM
Leone XIII
INTRODUZIONE
Motivo dell’enciclica: la questione operaia
1. L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i
popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile
dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi
metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi
accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il
sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e
l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei
peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto. Il quale è di tale e
tanta gravità che tiene sospesi gli animi in trepida aspettazione e affatica
l’ingegno dei dotti, i congressi dei sapienti, le assemblee popolari, le
deliberazioni dei legislatori, i consigli dei principi, tanto che oggi non vi è
questione che maggiormente interessi il mondo.
Pertanto, venerabili fratelli, ciò che altre volte facemmo a bene della Chiesa e
a comune salvezza con le nostre lettere encicliche sui Poteri pubblici, la
Libertà umana, la Costituzione cristiana degli Stati, ed altri simili argomenti
che ci parvero opportuni ad abbattere errori funesti, la medesima cosa crediamo
di dover fare adesso per gli stessi motivi sulla Questione operaia. Trattammo
già questa materia, come ce ne venne l’occasione più di una volta: ma la
coscienza dell’apostolico nostro ministero ci muove a trattarla ora di proposito
e in pieno, al fine di mettere in rilievo i principi con cui, secondo giustizia
ed equità, si deve risolvere la questione. Questione difficile e pericolosa.
Difficile, perché ardua cosa è segnare i precisi confini nelle relazioni tra
proprietari e proletari, tra capitale e lavoro. Pericolosa perché uomini
turbolenti ed astuti si sforzano ovunque di falsare i giudizi e volgere la
questione stessa a perturbamento dei popoli.
2. Comunque sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema
necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai
proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni,
indegne dell’uomo.
Poiché, soppresse nel secolo passato le corporazioni di arti e mestieri, senza
nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi
venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che poco a poco gli
operai rimanessero soli e indifesi in balìa della cupidigia dei padroni e di una
sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un’usura divoratrice che, sebbene
condannata tante volte dalla Chiesa, continua lo stesso, sotto altro colore, a
causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del
commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto
all’infinita moltitudine dei proletari un gioco poco meno che servile.
I - IL SOCIALISMO, FALSO RIMEDIO
La soluzione socialista inaccettabile dagli operai
3. A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai
ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari
patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello
Stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e
con l’eguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che
il male sia radicalmente riparato. Ma questa via, invece che risolvere le
contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per
molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le
competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale.
4. E infatti non è difficile capire che lo scopo del lavoro, il fine prossimo
che si propone l’artigiano, è la proprietà privata. Poiché se egli impiega le
sue forze e la sua industria a vantaggio altrui, lo fa per procurarsi il
necessario alla vita: e però con il suo lavoro acquista un vero e perfetto
diritto, non solo di esigere, ma d’investire come vuole, la dovuta mercede. Se
dunque con le sue economie è riuscito a far dei risparmi e, per meglio
assicurarli, li ha investiti in un terreno, questo terreno non è infine altra
cosa che la mercede medesima travestita di forma, e conseguente proprietà sua,
né più né meno che la stessa mercede. Ora in questo appunto, come ognuno sa,
consiste la proprietà, sia mobile che stabile. Con l’accumulare pertanto ogni
proprietà particolare, i socialisti, togliendo all’operaio la libertà di
investire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di trarre
vantaggio dal patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato, e ne
rendono perciò più infelice la condizione.
5. Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una aperta ingiustizia,
giacché la proprietà privata è diritto di natura. Poiché anche in questo passa
gran differenza tra l’uomo e il bruto. Il bruto non governa se stesso; ma due
istinti lo reggono e governano, i quali da una parte ne tengono desta l’attività
e ne svolgono le forze, dall’altra terminano e circoscrivono ogni suo movimento;
cioè l’istinto della conservazione propria, e l’istinto della conservazione
della propria specie. A conseguire questi due fini, basta al bruto l’uso di quei
determinati mezzi che trova intorno a sé; né potrebbe mirare più lontano, perché
mosso unicamente dal senso e dal particolare sensibile. Ben diversa è la natura
dell’uomo. Possedendo egli la vita sensitiva nella sua pienezza, da questo lato
anche a lui è dato, almeno quanto agli altri animali, di usufruire dei beni
della natura materiale. Ma l’animalità in tutta la sua estensione, lungi dal
circoscrivere la natura umana, le è di gran lunga inferiore, e fatta per esserle
soggetta. Il gran privilegio dell’uomo, ciò che lo costituisce tale o lo
distingue essenzialmente dal bruto, è l’intelligenza, ossia la ragione. E
appunto perché ragionevole, si deve concedere all’uomo qualche cosa di più che
il semplice uso dei beni della terra, comune anche agli altri animali: e questo
non può essere altro che il diritto di proprietà stabile; né proprietà soltanto
di quelle cose che si consumano usandole, ma anche di quelle che l’uso non
consuma.
La proprietà privata è di diritto naturale
6. Ciò riesce più evidente se si penetra maggiormente nell’umana natura. Per la
sterminata ampiezza del suo conoscimento, che abbraccia, oltre il presente,
anche l’avvenire, e per la sua libertà, l’uomo sotto la legge eterna e la
provvidenza universale di Dio è provvidenza a se stesso. Egli deve dunque poter
scegliere i mezzi che giudica più propri al mantenimento della sua vita, non
solo per il momento che passa, ma per il tempo futuro. Ciò vale quanto dire che,
oltre il dominio dei frutti che dà la terra, spetta all’uomo la proprietà della
terra stessa, dal cui seno fecondo deve essergli somministrato il necessario ai
suoi bisogni futuri. Giacché i bisogni dell’uomo hanno, per così dire, una
vicenda di perpetui ritorni e, soddisfatti oggi, rinascono domani. Pertanto la
natura deve aver dato all’uomo il diritto a beni stabili e perenni,
proporzionati alla perennità del soccorso di cui egli abbisogna, beni che può
somministrargli solamente la terra, con la sua inesauribile fecondità.
Non v’è ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato perché l’uomo è
anteriore allo Stato: quindi prima che si formasse il civile consorzio egli
dovette aver da natura il diritto di provvedere a se stesso.
7. L’aver poi Iddio dato la terra a uso e godimento di tutto il genere umano non
si oppone per nulla al diritto della privata proprietà; poiché quel dono egli lo
fece a tutti, non perché ognuno ne avesse un comune e promiscuo dominio, bensì
in quanto non assegnò nessuna parte del suolo determinatamente ad alcuno,
lasciando ciò all’industria degli uomini e al diritto speciale dei popoli. La
terra, per altro, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servizio e
beneficio di tutti, non essendovi uomo al mondo che non riceva alimento da essa.
Chi non ha beni propri vi supplisce con il lavoro; tanto che si può affermare
con verità che il mezzo universale per provvedere alla vita è il lavoro,
impiegato o nel coltivare un terreno proprio, o nell’esercitare un’arte, la cui
mercede in ultimo si ricava dai molteplici frutti della terra e in essi viene
commutata.
Ed è questa un’altra prova che la proprietà privata è conforme alla natura. Il
necessario al mantenimento e al perfezionamento della vita umana la terra ce lo
somministra largamente, ma ce lo somministra a questa condizione, che l’uomo la
coltivi e le sia largo di provvide cure. Ora, posto che a conseguire i beni
della natura l’uomo impieghi l’industria della mente e le forze del corpo, con
ciò stesso egli riunisce in sé quella parte della natura corporea che ridusse a
cultura, e in cui lasciò come impressa una impronta della sua personalità,
sicché giustamente può tenerla per sua ed imporre agli altri l’obbligo di
rispettarla.
La proprietà privata sancita dalle leggi umane e divine
8. Così evidenti sono tali ragioni che non si sa capire come abbiano potuto
trovar contraddizioni presso alcuni, i quali, rinfrescando vecchie utopie,
concedono bensì all’uomo l’uso del suolo e dei vari frutti dei campi, ma del
suolo ove egli ha fabbricato e del campo che ha coltivato gli negano la
proprietà. Non si accorgono costoro che in questa maniera vengono a defraudare
l’uomo degli effetti del suo lavoro. Giacché il campo dissodato dalla mano e
dall’arte del coltivatore non è più quello di prima, da silvestre è divenuto
fruttifero, da sterile ferace. Questi miglioramenti prendono talmente corpo in
quel terreno che la maggior parte di essi ne sono inseparabili. Ora, che
giustizia sarebbe questa, che un altro il quale non ha lavorato subentrasse a
goderne i frutti? Come l’effetto appartiene alla sua causa, così il frutto del
lavoro deve appartenere a chi lavora. A ragione pertanto il genere umano, senza
affatto curarsi dei pochi contraddittori e con l’occhio fisso alla legge di
natura, trova in questa legge medesima il fondamento della divisione dei beni; e
riconoscendo che la proprietà privata è sommamente consona alla natura dell’uomo
e alla pacifica convivenza sociale, l’ha solennemente sancita mediante la
pratica di tutti i secoli. E le leggi civili che, quando sono giuste, derivano
la propria autorità ed efficacia dalla stessa legge naturale confermano tale
diritto e lo assicurano con la pubblica forza. Né manca il suggello della legge
divina, la quale vieta strettissimamente perfino il desiderio della roba altrui:
"Non desiderare la moglie del prossimo tuo: non la casa, non il podere, non la
serva, non il bue, non l’asino, non alcuna cosa di tutte quelle che a lui
appartengono" (Dt 5,21).
La libertà dell’uomo
9. Questo diritto individuale cresce di valore se lo consideriamo nei riguardi
del consorzio domestico.
Libera all’uomo è l’elezione del proprio stato: egli può a suo piacere seguire
il consiglio evangelico della verginità o legarsi in matrimonio. Naturale e
primitivo è il diritto al coniugio e nessuna legge umana può abolirlo, né può
limitarne, comunque sia, lo scopo a cui Iddio l’ha ordinato quando disse:
"Crescete e moltiplicatevi" (Gen 1,28). Ecco pertanto la famiglia, ossia la
società domestica, società piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società;
perciò con diritti e obbligazioni indipendenti dallo Stato. Ora, quello che
dicemmo in ordine al diritto di proprietà inerente all’individuo va applicato
all’uomo come capo di famiglia: anzi tale diritto in lui è tanto più forte
quanto più estesa e completa è nel consorzio domestico la sua personalità.
Famiglia e Stato
10. Per legge inviolabile di natura incombe al padre il mantenimento della
prole: e per impulso della natura medesima, che gli fa scorgere nei figli una
immagine di sé e quasi una espansione e continuazione della sua persona, egli è
spinto a provvedere loro in modo che nel difficile corso della vita possano
onestamente far fronte ai propri bisogni: cosa impossibile a ottenersi se non
mediante l’acquisto dei beni fruttiferi, ch’egli poi trasmette loro in eredità.
Come la convivenza civile, così la famiglia, secondo quello che abbiamo detto, è
una società retta da potere proprio, che è quello paterno. Entro i limiti
determinati dal fine suo, la famiglia ha dunque, per la scelta e l’uso dei mezzi
necessari alla sua conservazione e alla sua legittima indipendenza, diritti
almeno eguali a quelli della società civile. Diciamo almeno eguali, perché
essendo il consorzio domestico logicamente e storicamente anteriore al civile,
anteriori altresì e più naturali ne debbono essere i diritti e i doveri. Che se
l’uomo, se la famiglia, entrando a far parte della società civile, trovassero
nello Stato non un aiuto, ma offesa, non tutela, ma diminuzione dei propri
diritti la civile convivenza sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare.
Lo Stato e il suo intervento nella famiglia
11. È dunque un errore grande e dannoso volere che lo Stato possa intervenire a
suo talento nel santuario della famiglia. Certo, se qualche famiglia si trova
per avventura in sì gravi strettezze che da se stessa non le è affatto possibile
uscirne, è giusto in tali frangenti l’intervento dei pubblici poteri, giacché
ciascuna famiglia è parte del corpo sociale. Similmente in caso di gravi
discordie nelle relazioni scambievoli tra i membri di una famiglia intervenga lo
Stato e renda a ciascuno il suo, poiché questo non è usurpare i diritti dei
cittadini, ma assicurarli e tutelarli secondo la retta giustizia. Qui però deve
arrestarsi lo Stato; la natura non gli consente di andare oltre. La patria
potestà non può lo Stato né annientarla né assorbirla, poiché nasce dalla
sorgente stessa della vita umana. I figli sono qualche cosa del padre, una
espansione, per così dire, della sua personalità e, a parlare propriamente, essi
entrano a far parte del civile consorzio non da sé medesimi, bensì mediante la
famiglia in cui sono nati. È appunto per questa ragione che, "essendo i figli
naturalmente qualcosa del padre... prima dell’uso della ragione stanno sotto la
cura dei genitori" . Ora, i socialisti, sostituendo alla provvidenza dei
genitori quella dello Stato, vanno contro la giustizia naturale e disciolgono la
compagine delle famiglie.
La soluzione socialista è nociva alla stessa società
12. Ed oltre l’ingiustizia, troppo chiaro appare quale confusione e scompiglio
ne seguirebbe in tutti gli ordini della cittadinanza, e quale dura e odiosa
schiavitù nei cittadini. Si aprirebbe la via agli astii, alle recriminazioni,
alle discordie: le fonti stesse della ricchezza inaridirebbero, tolto ogni
stimolo all’ingegno e all’industria individuale: e la sognata uguaglianza non
sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria.
Tutte queste ragioni danno diritto a concludere che la comunanza dei beni
proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi a
cui si deve recar soccorso, offende i diritti naturali di ciascuno, altera gli
uffici dello Stato e turba la pace comune. Resti fermo adunque, che nell’opera
di migliorare le sorti delle classi operaie, deve porsi come fondamento
inconcusso il diritto di proprietà privata. Presupposto ciò, esporremo donde si
abbia a trarre il rimedio.
II - IL VERO RIMEDIO: L’UNIONE DELLE ASSOCIAZIONI
A) L’opera della Chiesa
13. Entriamo fiduciosi in questo argomento, e di nostro pieno diritto; giacché
si tratta di questione di cui non è possibile trovare una risoluzione che valga
senza ricorrere alla religione e alla Chiesa. E poiché la cura della religione e
la dispensazione dei mezzi che sono in potere della Chiesa è affidata
principalmente a noi, ci parrebbe di mancare al nostro ufficio, tacendo.
Certamente la soluzione di sì arduo problema richiede il concorso e l’efficace
cooperazione anche degli altri: vogliamo dire dei governanti, dei padroni e dei
ricchi, come pure degli stessi proletari che vi sono direttamente interessati:
ma senza esitazione alcuna affermiamo che, se si prescinde dall’azione della
Chiesa, tutti gli sforzi riusciranno vani. Difatti la Chiesa è quella che trae
dal Vangelo dottrine atte a comporre, o certamente a rendere assai meno aspro il
conflitto: essa procura con gli insegnamenti suoi, non solo d’illuminare la
mente, ma d’informare la vita e i costumi di ognuno: con un gran numero di
benefiche istituzioni migliora le condizioni medesime del proletario; vuole e
brama che i consigli e le forze di tutte le classi sociali si colleghino e
vengano convogliate insieme al fine di provvedere meglio che sia possibile agli
interessi degli operai; e crede che, entro i debiti termini, debbano volgersi a
questo scopo le stesse leggi e l’autorità dello Stato.
1. Impossibilità di eliminare le ineguaglianze sociali e la fatica del lavoro
14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare
la condizione propria dell’umanità: togliere dal mondo le disparità sociali è
cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la
natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura
tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non
la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce
di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia
dei privati che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di
attitudini varie e di uffici diversi, e l’impulso principale, che muove gli
uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello stato.
Quanto al lavoro, l’uomo nello stato medesimo d’innocenza non sarebbe rimasto
inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a
ricreazione dell’animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza
fatica e molestia, la necessità, secondo quell’oracolo divino: "Sia maledetta la
terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita"
(Gen 3,17). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre,
dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato le quali si
voglia o no accompagnano l’uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il
retaggio dell’uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v’è forza né arte
che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di
poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene,
tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce
a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane
quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai
mali.
2. Necessità della concordia
15. Nella presente questione, lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe
sociale nemica naturalmente dell’altra; quasi che la natura abbia fatto i ricchi
e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile; cosa tanto
contraria alla ragione e alla verità. Invece è verissimo che, come nel corpo
umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento
che si chiama simmetria, così la natura volle che nel civile consorzio
armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio. L’una
ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il
lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose,
mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie. Ora, a
comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il cristianesimo ha una
ricchezza di forza meravigliosa.
3. Relazioni tra le classi sociali
a) Giustizia
16. Innanzi tutto, l’insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la
Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i
proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da
quello imposto dalla giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al proletario e
all’operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera che
liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa
alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da
atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento; non mescolarsi con uomini
malvagi, promettitori di cose grandi, senza altro frutto che quello di inutili
pentimenti e di perdite rovinose.
E questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai
schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana, nobilitata dal
carattere cristiano. Agli occhi della ragione e della fede il lavoro non degrada
l’uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di vivere onestamente con
l’opera propria. Quello che veramente è indegno dell’uomo è di abusarne come di
cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi e
le sue forze. Viene similmente comandato che nei proletari si deve aver riguardo
alla religione e ai beni dell’anima. È obbligo perciò dei padroni lasciare
all’operaio comodità e tempo che bastino a compiere i doveri religiosi; non
esporlo a seduzioni corrompitrici e a pericoli di scandalo; non alienarlo dallo
spirito di famiglia e dall’amore del risparmio; non imporgli lavori
sproporzionati alle forze, o mal confacenti con l’età e con il sesso.
17. Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede.
Il determinarla secondo giustizia dipende da molte considerazioni: ma in
generale si ricordino i capitalisti e i padroni che le umane leggi non
permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e di
trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa
così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio. "Ecco, la mercede degli
operai... che fu defraudata da voi, grida; e questo grido ha ferito le orecchie
del Signore degli eserciti" (Gc 5,4). Da ultimo è dovere dei ricchi non
danneggiare i piccoli risparmi dell’operaio né con violenza né con frodi né con
usure manifeste o nascoste; questo dovere è tanto più rigoroso, quanto più
debole e mal difeso è l’operaio e più sacrosanta la sua piccola sostanza.
L’osservanza di questi precetti non basterà essa sola a mitigare l’asprezza e a
far cessare le cagioni del dissidio?
b) Carità
18. Ma la Chiesa, guidata dagli insegnamenti e dall’esempio di Cristo, mira più
in alto, cioè a riavvicinare il più possibile le due classi, e a renderle
amiche. Le cose del tempo non è possibile intenderle e valutarle a dovere, se
l’animo non si eleva ad un’altra vita, ossia a quella eterna, senza la quale la
vera nozione del bene morale necessariamente si dilegua, anzi l’intera creazione
diventa un mistero inspiegabile. Quello pertanto che la natura stessa ci detta,
nel cristianesimo è un dogma su cui come principale fondamento poggia tutto
l’edificio della religione: cioè che la vera vita dell’uomo è quella del mondo
avvenire. Poiché Iddio non ci ha creati per questi beni fragili e caduchi, ma
per quelli celesti ed eterni; e la terra ci fu data da Lui come luogo di esilio,
non come patria. Che tu abbia in abbondanza ricchezze ed altri beni terreni o
che ne sia privo, ciò all’eterna felicità non importa nulla; ma il buono o
cattivo uso di quei beni, questo è ciò che sommamente importa. Le varie
tribolazioni di cui è intessuta la vita di quaggiù, Gesù Cristo, che pur ci ha
redenti con redenzione copiosa, non le ha tolte; le ha convertite in stimolo di
virtù e in maniera di merito, tanto che nessun figlio di Adamo può giungere al
cielo se non segue le orme sanguinose di Lui. "Se persevereremo, regneremo
insieme" (2Tm 2,12). Accettando volontariamente sopra di sé travagli e dolori,
egli ne ha mitigato l’acerbità in modo meraviglioso, e non solo con l’esempio ma
con la sua grazia e con la speranza del premio proposto, ci ha reso più facile
il patire. "Poiché quella che attualmente è una momentanea e leggera
tribolazione nostra, opera in noi un eterno e sopra ogni misura smisurato peso
di gloria" (2Cor 4,17).
I fortunati del secolo sono dunque avvertiti che le ricchezze non li liberano
dal dolore e che esse per la felicità avvenire, non che giovare, nuocciono (cf.
Mt 19,23-24); che i ricchi debbono tremare, pensando alle minacce
straordinariamente severe di Gesù Cristo (cf. Lc 6,24-25); che dell’uso dei loro
beni avranno un giorno da rendere rigorosissimo conto al Dio giudice.
c) La vera utilità delle ricchezze
19. In ordine all’uso delle ricchezze, eccellente e importantissima è la
dottrina che, se pure fu intravveduta dalla filosofia, venne però insegnata a
perfezione dalla Chiesa; la quale inoltre procura che non rimanga pura
speculazione, ma discenda nella pratica e informi la vita. Il fondamento di tale
dottrina sta in ciò: che nella ricchezza si suole distinguere il possesso
legittimo dal legittimo uso. Naturale diritto dell’uomo è, come vedemmo, la
privata proprietà dei beni e l’esercitare questo diritto è, specialmente nella
vita socievole, non pur lecito, ma assolutamente necessario. È lecito dice san
Tommaso, "anzi necessario all’umana vita che l’uomo abbia la proprietà dei beni"
. Ma se inoltre si domandi quale debba essere l’uso di tali beni, la Chiesa per
bocca del santo Dottore non esita a rispondere che, "per questo rispetto, l’uomo
non deve possedere i beni esterni come propri, bensì come comuni, in modo che
facilmente li comunichi all’altrui necessità. Onde l’Apostolo dice: Comanda ai
ricchi di questo secolo di dare e comunicare facilmente il proprio" (Ivi).
Nessuno, certo, è tenuto a soccorrere gli altri con le cose necessarie a sé e ai
suoi, anzi neppure con ciò che è necessario alla convivenza e al decoro del
proprio stato, "perché nessuno deve vivere in modo non conveniente" . Ma,
soddisfatte le necessità e la convenienza, è dovere soccorrere col superfluo i
bisognosi: "Quello che sopravanza date in elemosina" (cf. Lc 11,41). Eccetto il
caso di estrema necessità, questi, è vero, non sono obblighi di giustizia, ma di
carità cristiana il cui adempimento non si può certamente esigere per via
giuridica, ma sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge e il giudizio
di Cristo, il quale inculca in molti modi la pratica del dono generoso e
insegna: "È più bello dare che ricevere" (cf. At 20,35), e terrà per fatta o
negata a sé la carità fatta o negata ai bisognosi: "Quanto faceste ad uno dei
minimi di questi miei fratelli, a me lo faceste" (cf. Mt 25,40). In conclusione,
chiunque ha ricevuto dalla munificenza di Dio copia maggiore di beni, sia
esteriori e corporali sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti, di
servirsene al perfezionamento proprio, e nel medesimo tempo come ministro della
divina provvidenza a vantaggio altrui: "Chi ha dunque ingegno, badi di non
tacere; chi ha abbondanza di roba, si guardi dall’essere troppo duro di mano
nell’esercizio della misericordia; chi ha un’arte per vivere, ne partecipi al
prossimo l’uso e l’utilità" .
d) Vantaggi della povertà
20. Ai poveri poi, la Chiesa insegna che innanzi a Dio non è cosa che rechi
vergogna né la povertà né il dover vivere di lavoro. Gesù Cristo confermò questa
verità con l’esempio suo, mentre, a salute degli uomini, "essendo ricco, si fece
povero" (2Cor 8,9) ed essendo Figlio di Dio, e Dio egli stesso, volle comparire
ed essere creduto figlio di un falegname, anzi non ricusò di passare lavorando
la maggior parte della sua vita: "Non è costui il fabbro, il figlio di Maria?" (Mc
6,3). Mirando la divinità di questo esempio, si comprende più facilmente che la
vera dignità e grandezza dell’uomo è tutta morale, ossia riposta nella virtù;
che la virtù è patrimonio comune, conseguibile ugualmente dai grandi e dai
piccoli, dai ricchi e dai proletari; che solo alle opere virtuose, in chiunque
si trovino, è serbato il premio dell’eterna beatitudine. Diciamo di più: per gli
infelici pare che Iddio abbia una particolare predilezione, poiché Gesù Cristo
chiama beati i poveri (cf. Mt 5,3); invita amorosamente a venire da lui per
conforto quanti sono stretti dal peso degli affanni (Mt 11,28). i deboli e i
perseguitati abbraccia con atto di carità specialissima. Queste verità sono
molto efficaci ad abbassar l’orgoglio dei fortunati e togliere all’avvilimento i
miseri, ad ispirare indulgenza negli uni e modestia negli altri. Così le
distanze, tanto care all’orgoglio, si accorciano; né riesce difficile ottenere
che le due classi, stringendosi la mano, scendano ad amichevole accordo.
e) Fraternità cristiana
21. Ma esse, obbedendo alla legge evangelica, non saranno paghe di una semplice
amicizia, ma vorranno darsi l’amplesso dell’amore fraterno. Poiché conosceranno
e sentiranno che tutti gli uomini hanno origine da Dio, Padre comune; che tutti
tendono a Dio, fine supremo, che solo può rendere perfettamente felici gli
uomini e gli angeli; che tutti sono stati ugualmente redenti da Gesù Cristo e
chiamati alla dignità della figliolanza divina, in modo che non solo tra loro,
ma con Cristo Signore, primogenito fra molti fratelli, sono congiunti col
vincolo di una santa fraternità. Conosceranno e sentiranno che i beni di natura
e di grazia sono patrimonio comune del genere umano e che nessuno, senza proprio
merito, verrà diseredato dal retaggio dei beni celesti: perché "se tutti figli,
dunque tutti eredi; eredi di Dio, e coeredi di Gesù Cristo" (Rm 8,17).
Ecco l’ideale dei diritti e dei doveri contenuto nel Vangelo. Se esso prevalesse
nel mondo, non cesserebbe subito ogni dissidio e non tornerebbe forse la pace?
4. Mezzi positivi
a) La diffusione della dottrina cristiana
22. Se non che la Chiesa, non contenta di additare il rimedio, l’applica ella
stessa con la materna sua mano. Poiché ella è tutta intenta a educare e formare
gli uomini a queste massime, procurando che le acque salutari della sua dottrina
scorrano largamente e vadano per mezzo dei Vescovi e del Clero ad irrigare tutta
quanta la terra. Nel tempo stesso si studia di penetrare negli animi e di
piegare le volontà, perché si lascino governare dai divini precetti. E in quest’arte,
che è di capitale importanza, poiché ne dipende ogni vantaggio, la Chiesa sola
ha vera efficacia. Infatti, gli strumenti che adopera a muovere gli animi le
furono dati a questo fine da Gesù Cristo, ed hanno in sé virtù divina; sì che
essi soli possono penetrare nelle intime fibre dei cuori, e far sì che gli
uomini obbediscano alla voce del dovere, tengano a freno le passioni, amino con
supremo e singolare amore Iddio e il prossimo, e abbattano coraggiosamente tutti
gli ostacoli che attraversano il cammino della virtù.
b) Il rinnovamento della società
Basta su ciò accennar di passaggio agli esempi antichi. Ricordiamo fatti e cose
poste fuori di ogni dubbio: cioè che per opera del cristianesimo fu trasformata
da capo a fondo la società; che questa trasformazione fu un vero progresso del
genere umano, anzi una risurrezione dalla morte alla vita morale, e un
perfezionamento non mai visto per l’innanzi né sperabile maggiore per
l’avvenire; e finalmente che Gesù Cristo è il principio e il termine di questi
benefizi, i quali, scaturiti da lui, a lui vanno riferiti. Avendo il mondo
mediante la luce evangelica appreso il gran mistero dell’incarnazione del Verbo
e dell’umana redenzione, la vita di Gesù Cristo Dio e uomo si trasfuse nella
civile società che ne fu permeata con la fede, i precetti, le leggi di lui.
Perciò, se ai mali del mondo v’è un rimedio, questi non può essere altro che il
ritorno alla vita e ai costumi cristiani. È un solenne principio questo, che per
riformare una società in decadenza, è necessario riportarla ai principi che le
hanno dato l’essere. La perfezione di ogni società è riposta nello sforzo di
arrivare al suo scopo: in modo che il principio generatore dei moti e delle
azioni sociali sia il medesimo che ha generato l’associazione. Quindi deviare
dallo scopo primitivo è corruzione; tornare ad esso è salvezza. E questo è vero,
come di tutto il consorzio civile, così della classe lavoratrice, che ne è la
parte più numerosa.
c) La beneficenza della Chiesa
23. Né si creda che le premure della Chiesa siano così interamente e unicamente
rivolte alla salvezza delle anime da trascurare ciò che appartiene alla vita
morale e terrena. Ella vuole e procura che soprattutto i proletari emergano dal
loro infelice stato, e migliorino la condizione di vita. E questo essa fa
innanzi tutto indirettamente, chiamando e insegnando a tutti gli uomini la
virtù. I costumi cristiani, quando siano tali davvero, contribuiscono anch’essi
di per sé alla prosperità terrena, perché attirano le benedizioni di Dio,
principio e fonte di ogni bene; infrenano la cupidigia della roba e la sete dei
piaceri (cf. 1Tm 6,10), veri flagelli che rendono misero l’uomo nella abbondanza
stessa di ogni cosa; contenti di una vita frugale, suppliscono alla scarsezza
del censo col risparmio, lontani dai vizi, che non solo consumano le piccole, ma
anche le grandi sostanze, e mandano in rovina i più lauti patrimoni.
24. Ma vi è di più: la Chiesa concorre direttamente al bene dei proletari col
creare e promuovere quanto può conferire al loro sollievo, e in questo tanto si
è segnalata, da riscuoter l’ammirazione e gli encomi degli stessi nemici. Nel
cuore dei primi cristiani la carità fraterna era così potente che i più
facoltosi si privavano spessissimo del proprio per soccorrere gli altri; tanto
che "non vi era tra loro nessun bisognoso" (At 4,34). Ai diaconi, ordine
istituito appositamente per questo, era affidato dagli apostoli l’ufficio di
esercitare la quotidiana beneficenza e l’apostolo Paolo, benché gravato dalla
cura di tutte le Chiese, non dubitava di intraprendere faticosi viaggi, per
recare di sua mano ai cristiani poveri le elemosine da lui raccolte. Tertulliano
chiama depositi della pietà le offerte che si facevano spontaneamente dai fedeli
di ciascuna adunanza, perché "destinate a soccorrere e dar sepoltura agli
indigenti, sovvenire i poveri orfani d’ambo i sessi, i vecchi e i naufraghi" .
Da lì poco a poco si formò il patrimonio, che la Chiesa guardò sempre con
religiosa cura come patrimonio della povera gente. La quale anzi, con nuovi e
determinati soccorsi, venne perfino liberata dalla vergogna di chiedere.
Giacché, madre comune dei poveri e dei ricchi, ispirando e suscitando
dappertutto l’eroismo della carità, la Chiesa creò sodalizi religiosi ed altri
benefici istituti, che non lasciarono quasi alcuna specie di miserie senza aiuto
e conforto. Molti oggi, come già fecero i gentili, biasimano la Chiesa perfino
di questa carità squisita, e si è creduto bene di sostituire a questa la
beneficenza legale. Ma non è umana industria che possa supplire la carità
cristiana, tutta consacrata al bene altrui. Ed essa non può essere se non virtù
della Chiesa, perché è virtù che sgorga solamente dal cuore santissimo di Gesù
Cristo: e si allontana da Gesù Cristo chi si allontana dalla Chiesa.
B) L’opera dello Stato
25. A risolvere peraltro la questione operaia, non vi è dubbio che si richiedano
altresì i mezzi umani. Tutti quelli che vi sono interessati debbono concorrervi
ciascuno per la sua parte: e ciò ad esempio di quell’ordine provvidenziale che
governa il mondo; poiché d’ordinario si vede che ogni buon effetto è prodotto
dall’armoniosa cooperazione di tutte le cause da cui esso dipende.
Vediamo dunque quale debba essere il concorso dello Stato. Noi parliamo dello
Stato non come è costituito o come funziona in questa o in quella nazione, ma
dello Stato nel suo vero concetto, quale si desume dai principi della retta
ragione, in perfetta armonia con le dottrine cattoliche, come noi medesimi
esponemmo nella enciclica sulla Costituzione cristiana degli Stati (enciclica
Immortale Dei) .
1. Il diritto d’intervento dello Stato
26. I governanti dunque debbono in primo luogo concorrervi in maniera generale
con tutto il complesso delle leggi e delle istituzioni politiche, ordinando e
amministrando lo Stato in modo che ne risulti naturalmente la pubblica e privata
prosperità. Questo infatti è l’ufficio della civile prudenza e il dovere dei
reggitori dei popoli. Ora, la prosperità delle nazioni deriva specialmente dai
buoni costumi, dal buon assetto della famiglia, dall’osservanza della religione
e della giustizia, dall’imposizione moderata e dall’equa distribuzione dei
pubblici oneri, dal progresso delle industrie e del commercio, dal fiorire
dell’agricoltura e da altre simili cose, le quali, quanto maggiormente promosse,
tanto più felici rendono i popoli. Anche solo per questa via può dunque lo Stato
grandemente concorrere, come al benessere delle altre classi, così a quello dei
proletari; e ciò di suo pieno diritto e senza dar sospetto d’indebite ingerenze;
giacché provvedere al bene comune è ufficio e competenza dello Stato. E quanto
maggiore sarà la somma dei vantaggi procurati per questa generale provvidenza,
tanto minore bisogno vi sarà di tentare altre vie a salvezza degli operai.
a) Per il bene comune
27. Ma bisogna inoltre considerare una cosa che tocca più da vicino la
questione: che cioè lo Stato è una armoniosa unità che abbraccia del pari le
infime e le alte classi. I proletari né di più né di meno dei ricchi sono
cittadini per diritto naturale, membri veri e viventi onde si compone, mediante
le famiglie, il corpo sociale: per non dire che ne sono il maggior numero. Ora,
essendo assurdo provvedere ad una parte di cittadini e trascurare l’altra, è
stretto dovere dello Stato prendersi la dovuta cura del benessere degli operai;
non facendolo, si offende la giustizia che vuole si renda a ciascuno il suo.
Onde saggiamente avverte san Tommaso: "Siccome la parte e il tutto fanno in
certo modo una sola cosa, così ciò che è del tutto è in qualche maniera della
parte" . Perciò tra i molti e gravi doveri dei governanti solleciti del bene
pubblico, primeggia quello di provvedere ugualmente ad ogni ordine di cittadini,
osservando con inviolabile imparzialità la giustizia cosiddetta distributiva.
b) per il bene degli operai
Sebbene tutti i cittadini, senza eccezione alcuna, debbano cooperare al
benessere comune che poi, naturalmente, ridonda a beneficio dei singoli,
tuttavia la cooperazione non può essere in tutti né uguale né la stessa. Per
quanto si mutino e rimutino le forme di governo, vi sarà sempre quella varietà e
disparità di condizione senza la quale non può darsi e neanche concepirsi il
consorzio umano. Vi saranno sempre pubblici ministri, legislatori, giudici,
insomma uomini tali che governano la nazione in pace, e la difendono in guerra;
ed è facile capire che, essendo costoro la causa più prossima ed efficace del
bene comune, formano la parte principale della nazione. Non possono allo stesso
modo e con gli stessi uffici cooperare al bene comune gli artigiani; tuttavia vi
concorrono anch’essi potentemente con i loro servizi, benché in modo indiretto.
Certo, il bene sociale, dovendo essere nel suo conseguimento un bene
perfezionativo dei cittadini in quanto sono uomini, va principalmente riposto
nella virtù. Nondimeno, in ogni società ben ordinata deve trovarsi una
sufficiente abbondanza dei beni corporali, "l’uso dei quali è necessario
all’esercizio della virtù" . Ora, a darci questi beni è di necessità ed
efficacia somma l’opera e l’arte dei proletari, o si applichi all’agricoltura, o
si eserciti nelle officine. Somma, diciamo, poiché si può affermare con verità
che il lavoro degli operai è quello che forma la ricchezza nazionale. È quindi
giusto che il governo s’interessi dell’operaio, facendo sì che egli partecipi in
qualche misura di quella ricchezza che esso medesimo produce, cosicché abbia
vitto, vestito e un genere di vita meno disagiato. Si favorisca dunque al
massimo ciò che può in qualche modo migliorare la condizione di lui, sicuri che
questa provvidenza, anziché nuocere a qualcuno, gioverà a tutti, essendo
interesse universale che non rimangano nella miseria coloro da cui provengono
vantaggi di tanto rilievo.
2. Norme e limiti del diritto d’intervento
28. Non è giusto, come abbiamo detto, che il cittadino e la famiglia siano
assorbiti dallo Stato: è giusto invece che si lasci all’uno e all’altra tanta
indipendenza di operare quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altrui
diritti. Tuttavia, i governanti debbono tutelare la società e le sue parti. La
società, perché la tutela di questa fu da natura commessa al sommo potere, tanto
che la salute pubblica non è solo legge suprema, ma unica e totale ragione della
pubblica autorità; le parti, poi, perché filosofia e Vangelo si accordano a
insegnare che il governo è istituito da natura non a beneficio dei governanti,
bensì dei governati. E perché il potere politico viene da Dio ed è una certa
quale partecipazione della divina sovranità, deve amministrarsi sull’esempio di
questa, che con paterna cura provvede non meno alle particolari creature che a
tutto l’universo. Se dunque alla società o a qualche sua parte è stato recato o
sovrasta un danno che non si possa in altro modo riparare o impedire, si rende
necessario l’intervento dello Stato.
29. Ora, interessa il privato come il pubblico bene che sia mantenuto l’ordine e
la tranquillità pubblica; che la famiglia sia ordinata conforme alla legge di
Dio e ai principi di natura; che sia rispettata e praticata la religione; che
fioriscano i costumi pubblici e privati; che sia inviolabilmente osservata la
giustizia; che una classe di cittadini non opprima l’altra; che crescano sani e
robusti i cittadini, atti a onorare e a difendere, se occorre, la patria.
Perciò, se a causa di ammutinamenti o di scioperi si temono disordini pubblici;
se tra i proletari sono sostanzialmente turbate le naturali relazioni della
famiglia; se la religione non è rispettata nell’operaio, negandogli agio e tempo
sufficiente a compierne i doveri; se per la promiscuità del sesso ed altri
incentivi al male l’integrità dei costumi corre pericolo nelle officine; se la
classe lavoratrice viene oppressa con ingiusti pesi dai padroni o avvilita da
fatti contrari alla personalità e dignità umana; se con il lavoro eccessivo o
non conveniente al sesso e all’età, si reca danno alla sanità dei lavoratori; in
questi casi si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l’autorità
delle leggi. I quali fini sono determinati dalla causa medesima che esige
l’intervento dello Stato; e ciò significa che le leggi non devono andare al di
là di ciò che richiede il riparo dei mali o la rimozione del pericolo.
I diritti vanno debitamente protetti in chiunque li possieda e il pubblico
potere deve assicurare a ciascuno il suo, con impedirne o punirne le violazioni.
Se non che, nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo
speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per se stesso,
abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno
proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. Perciò
agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di
preferenza rivolgere le cure e le provvidenze sue.
3. Casi particolari d’intervento
a) Difesa della proprietà privata
30. Ma giova discendere espressamente ad alcuni particolari di maggiore
importanza. Principalissimo è questo: i governi devono per mezzo di sagge leggi
assicurare la proprietà privata. Oggi specialmente, in tanto ardore di sfrenate
cupidigie, bisogna che le popolazioni siano tenute a freno; perché, se la
giustizia consente a loro di adoperarsi a migliorare le loro sorti, né la
giustizia né il pubblico bene consentono che si rechi danno ad altri nella roba,
e sotto colore di non so quale eguaglianza si invada l’altrui. Certo, la massima
parte degli operai vorrebbe migliorare la propria condizione onestamente, senza
far torto ad alcuno; tuttavia non sono pochi coloro i quali, imbevuti di massime
false e smaniosi di novità, cercano ad ogni costo di eccitare tumulti e
sospingere gli altri alla violenza. Intervenga dunque l’autorità dello Stato e,
posto freno ai sobillatori, preservi i buoni operai dal pericolo della seduzione
e i legittimi padroni da quello dello spogliamento.
b) Difesa del lavoro
1) Contro lo sciopero
31. Il troppo lungo e gravoso lavoro e la mercede giudicata scarsa porgono non
di rado agli operai motivo di sciopero. A questo disordine grave e frequente
occorre che ripari lo Stato, perché tali scioperi non recano danno solamente ai
padroni e agli operai medesimi, ma al commercio e ai comuni interessi e, per le
violenze e i tumulti a cui d’ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio
la pubblica tranquillità. Il rimedio, poi, in questa parte, più efficace e
salutare, si è prevenire il male con l’autorità delle leggi e impedire lo
scoppio, rimovendo a tempo le cause da cui si prevede che possa nascere il
conflitto tra operai e padroni.
2) Condizioni di lavoro
32. Molte cose parimenti lo Stato deve proteggere nell’operaio, e prima di tutto
i beni dell’anima. La vita di quaggiù, benché buona e desiderabile, non è il
fine per cui noi siamo stati creati, ma via e mezzo a perfezionare la vita dello
spirito con la cognizione del vero e con la pratica del bene. Lo spirito è
quello che porta scolpita in sé l’immagine e la somiglianza divina, ed in cui
risiede quella superiorità in virtù della quale fu imposto all’uomo di
signoreggiare le creature inferiori, e di far servire all’utilità sua le terre
tutte ed i mari: "Riempite la terra e rendetela a voi soggetta: signoreggiate i
pesci del mare e gli uccelli dell’aria e tutti gli animali che si muovono sopra
la terra" (Gen 1,28). In questo tutti gli uomini sono uguali, né esistono
differenze tra ricchi e poveri, padroni e servi, monarchi e sudditi, perché lo
stesso è il "Signore di tutti" (Rm 10,12). A nessuno è lecito violare
impunemente la dignità dell’uomo, di cui Dio stesso dispone con grande
riverenza, né attraversargli la via a quel perfezionamento che è ordinato
all’acquisto della vita eterna. Che anzi, neanche di sua libera elezione
potrebbe l’uomo rinunziare ad esser trattato secondo la sua natura, ed accettare
la schiavitù dello spirito, perché non si tratta di diritti dei quali sia libero
l’esercizio, bensì di doveri verso Dio assolutamente inviolabili.
Di qui segue la necessità del riposo festivo. Sotto questo nome non s’intenda
uno stare in ozio più a lungo, e molto meno una totale inazione quale si
desidera da molti, fomite di vizi e occasione di spreco, ma un riposo consacrato
dalla religione. Unito alla religione, il riposo toglie l’uomo ai lavori e alle
faccende della vita ordinaria per richiamarlo al pensiero dei beni celesti e al
culto dovuto alla Maestà divina. Questa è principalmente la natura, questo il
fine del riposo festivo, che Iddio con legge speciale prescrisse all’uomo nel
Vecchio Testamento dicendogli: "Ricordati di santificare il giorno di Sabato" Es
20,8). e che egli stesso insegnò di fatto, quando nel settimo giorno, creato
l’uomo, si riposò dalle opere della creazione: "Riposò nel giorno settimo da
tutte le opere che aveva fatte" (Gen 2,2).
33. Quanto alla tutela dei beni temporali ed esteriori prima di tutto è dovere
sottrarre il povero operaio all’inumanità di avidi speculatori, che per guadagno
abusano senza alcuna discrezione delle persone come fossero cose. Non è giusto
né umano esigere dall’uomo tanto lavoro da farne inebetire la mente per troppa
fatica e da fiaccarne il corpo. Come la sua natura, così l’attività dell’uomo è
limitata e circoscritta entro confini ben stabiliti, oltre i quali non può
andare. L’esercizio e l’uso l’affina, a condizione però che di quando in quando
venga sospeso, per dar luogo al riposo. Non deve dunque il lavoro prolungarsi
più di quanto lo comportino le forze. Il determinare la quantità del riposo
dipende dalla qualità del lavoro, dalle circostanze di tempo e di luogo, dalla
stessa complessione e sanità degli operai. Ad esempio, il lavoro dei minatori
che estraggono dalla terra pietra, ferro, rame e altre materie nascoste nel
sottosuolo, essendo più grave e nocivo alla salute, va compensato con una durata
più breve. Si deve avere ancor riguardo alle stagioni, perché non di rado un
lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in un’altra o del tutto
insopportabile o tale che si sopporta con difficoltà. Infine, un lavoro
proporzionato all’uomo alto e robusto, non è ragionevole che si imponga a una
donna o a un fanciullo. Anzi, quanto ai fanciulli, si badi a non ammetterli
nelle officine prima che l’età ne abbia sufficientemente sviluppate le forze
fisiche, intellettuali e morali. Le forze, che nella puerizia sbocciano simili
all’erba in fiore, un movimento precoce le sciupa, e allora si rende impossibile
la stessa educazione dei fanciulli. Così, certe specie di lavoro non si addicono
alle donne, fatte da natura per i lavori domestici, i quali grandemente
proteggono l’onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con
l’educazione dei figli e il benessere della casa. In generale si tenga questa
regola, che la quantità del riposo necessario all’operaio deve essere
proporzionata alla quantità delle forze consumate nel lavoro, perché le forze
consumate con l’uso debbono venire riparate col riposo. In ogni convenzione
stipulata tra padroni e operai vi è sempre la condizione o espressa o sottintesa
dell’uno e dell’altro riposo; un patto contrario sarebbe immorale, non essendo
lecito a nessuno chiedere o permettere la violazione dei doveri che lo stringono
a Dio e a se stesso.
3) La questione del salario
34. Tocchiamo ora un punto di grande importanza, e che va inteso bene per non
cadere in uno dei due estremi opposti. La quantità del salario, si dice, la
determina il libero consenso delle parti: sicché il padrone, pagata la mercede,
ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro. Si commette ingiustizia
solo quando o il padrone non paga l’intera mercede o l’operaio non presta tutta
l’opera pattuita; e solo a tutela di questi diritti, e non per altre ragioni, è
lecito l’intervento dello Stato.
A questo ragionamento un giusto estimatore delle cose non può consentire né
facilmente né in tutto; perché esso non guarda la cosa sotto ogni aspetto; vi
mancano alcune considerazioni di grande importanza. Il lavoro è l’attività umana
ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione:
"Tu mangerai pane nel sudore della tua fronte" (Gen 3,19). Ha dunque il lavoro
dell’uomo come due caratteri impressigli da natura, cioè di essere personale,
perché la forza attiva è inerente alla persona, e del tutto proprio di chi la
esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il frutto
del lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita, mantenimento
che è un dovere imprescindibile imposto dalla natura.
Ora, se si guarda solo l’aspetto della personalità, non v’è dubbio che può
l’operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, poiché siccome egli offre
volontariamente l’opera, così può, volendo, contentarsi di un tenue salario o
rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la personalità si considera
la necessità: due cose logicamente distinte, ma realmente inseparabili. Infatti
conservarsi in vita è dovere, a cui nessuno può mancare senza colpa. Di qui
nasce, come necessaria conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di
sostentamento che nella povera gente si riducono al salario del proprio lavoro.
L’operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e
nominatamente la quantità delle mercedi; vi entra però sempre un elemento di
giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed
è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento
dell’operaio, frugale si intende, e di retti costumi. Se costui, costretto dalla
necessità o per timore di peggio, accetta patti più duri i quali, perché imposti
dal proprietario o dall’imprenditore, volenti o nolenti debbono essere
accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia
protesta. Del resto, in queste ed altre simili cose, quali sono l’orario di
lavoro, le cautele da prendere per garantire nelle officine la vita
dell’operaio, affinché l’autorità non s’ingerisca indebitamente, specie in tanta
varietà di cose, di tempi e di luoghi, sarà più opportuno riservare la decisione
ai collegi di cui parleremo più avanti, o usare altri mezzi che salvino, secondo
giustizia, le ragioni degli operai, limitandosi lo Stato ad aggiungervi, quando
il caso lo richiede, tutela ed appoggio.
c) Educazione al risparmio
35. Quando l’operaio riceve un salario sufficiente a mantenere se stesso e la
sua famiglia in una certa quale agiatezza, se egli è saggio, penserà
naturalmente a risparmiare e, assecondando l’impulso della stessa natura, farà
in modo che sopravanzi alle spese una parte da impiegare nell’acquisto di
qualche piccola proprietà, poiché abbiamo dimostrato che l’inviolabilità del
diritto di proprietà è indispensabile per la soluzione pratica ed efficace della
questione operaia. Pertanto le leggi devono favorire questo diritto, e fare in
modo che cresca il più possibile il numero dei proprietari. Da qui
risulterebbero grandi vantaggi, e in primo luogo una più equa ripartizione della
ricchezza nazionale. La rivoluzione ha prodotto la divisione della società come
in due caste, tra le quali ha scavato un abisso. Da una parte una fazione
strapotente perché straricca, la quale, avendo in mano ogni sorta di produzione
e commercio, sfrutta per sé tutte le sorgenti della ricchezza, ed esercita pure
nell’andamento dello Stato una grande influenza. Dall’altra una moltitudine
misera e debole, dall’animo esacerbato e pronto sempre a tumulti. Ora, se in
questa moltitudine s’incoraggia l’industria con la speranza di poter acquistare
stabili proprietà, una classe verrà avvicinandosi poco a poco all’altra,
togliendo l’immensa distanza tra la somma povertà e la somma ricchezza. Oltre a
ciò, dalla terra si ricaverà abbondanza di prodotti molto maggiore. Quando gli
uomini sanno di lavorare in proprio, faticano con più alacrità e ardore, anzi si
affezionano al campo coltivato di propria mano, da cui attendono, per sé e per
la famiglia, non solo gli alimenti ma una certa agiatezza. Ed è facile capire
come questa alacrità giovi moltissimo ad accrescere la produzione del suolo e la
ricchezza della nazione. Ne seguirà un terzo vantaggio, cioè l’attaccamento al
luogo natio; infatti non si cambierebbe la patria con un paese straniero, se
quella desse di che vivere agiatamente ai suoi figli.
Si avverta peraltro che tali vantaggi dipendono da questa condizione, che la
privata proprietà non venga oppressa da imposte eccessive. Siccome il diritto
della proprietà privata deriva non da una legge umana ma da quella naturale, lo
Stato non può annientarlo, ma solamente temperarne l’uso e armonizzarlo col bene
comune. È ingiustizia ed inumanità esigere dai privati più del dovere sotto
pretesto di imposte.
C) L’opera delle associazioni
1. Necessità della collaborazione di tutti
36. Finalmente, a dirimere la questione operaia possono contribuire molto i
capitalisti e gli operai medesimi con istituzioni ordinate a porgere opportuni
soccorsi ai bisognosi e ad avvicinare e unire le due classi tra loro. Tali sono
le società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni private destinate a
prendersi cura dell’operaio, della vedova, dei figli orfani, nei casi
d’improvvisi infortuni, d’infermità, o di altro umano accidente; i patronati per
i fanciulli d’ambo i sessi, per la gioventù e per gli adulti.
Tengono però il primo posto le corporazioni di arti e mestieri che nel loro
complesso contengono quasi tutte le altre istituzioni. Evidentissimi furono
presso i nostri antenati i vantaggi di tali corporazioni, e non solo a pro degli
artieri, ma, come attestano documenti in gran numero, ad onore e perfezionamento
delle arti medesime. I progressi della cultura, le nuove abitudini e i cresciuti
bisogni della vita esigono che queste corporazioni si adattino alle condizioni
attuali. Vediamo con piacere formarsi ovunque associazioni di questo genere, sia
di soli operai sia miste di operai e padroni, ed è desiderabile che crescano di
numero e di operosità. Sebbene ne abbiamo parlato più volte, ci piace ritornarvi
sopra per mostrarne l’opportunità, la legittimità, la forma del loro ordinamento
e la loro azione.
2. Il diritto all’associazione è naturale
37. Il sentimento della propria debolezza spinge l’uomo a voler unire la sua
opera all’altrui. La Scrittura dice: "È meglio essere in due che uno solo;
perché due hanno maggior vantaggio nel loro lavoro. Se uno cade, è sostenuto
dall’altro. Guai a chi è solo; se cade non ha una mano che lo sollevi" (Qo
4,9-10). E altrove: "Il fratello aiutato dal fratello è simile a una città
fortificata" (Pr 18,10). L’istinto di questa naturale inclinazione lo muove,
come alla società civile, così ad altre particolari società, piccole certamente
e non perfette, ma pur società vere. Fra queste e quella corre grandissima
differenza per la diversità dei loro fini prossimi. Il fine della società civile
è universale, perché è quello che riguarda il bene comune, a cui tutti e singoli
i cittadini hanno diritto nella debita proporzione. Perciò è chiamata pubblica:
"Per essa gli uomini si mettono in mutua comunicazione al fine di formare uno
Stato" . Al contrario le altre società che sorgono in seno a quella si dicono e
sono private, perché hanno per scopo l’utile privato dei loro soci. "Società
privata è quella che si forma per concludere affari privati, come quando due o
tre si uniscono a scopo di commercio" .
38. Ora, sebbene queste private associazioni esistano dentro lo Stato e ne siano
come tante parti, tuttavia in generale, e assolutamente parlando, non può lo
Stato proibirne la formazione. Poiché il diritto di unirsi in società l’uomo
l’ha da natura, e i diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli.
Vietando tali associazioni, egli contraddirebbe se stesso, perché l’origine del
consorzio civile, come degli altri consorzi, sta appunto nella naturale società
dell’uomo.
Si danno però casi che rendono legittimo e doveroso il divieto. Quando società
particolari si prefiggono un fine apertamente contrario all’onestà, alla
giustizia, alla sicurezza del consorzio civile, legittimamente vi si oppone lo
Stato, o vietando che si formino o sciogliendole se sono formate; è necessario
però procedere in ciò con somma cautela per non invadere i diritti dei
cittadini, e non fare il male sotto pretesto del pubblico bene. Poiché le leggi
non obbligano se non in quanto sono conformi alla retta ragione, e perciò stesso
alla legge eterna di Dio .
39. E qui il nostro pensiero va ai sodalizi, collegi e ordini religiosi di tante
specie a cui dà vita l’autorità della Chiesa e la pietà dei fedeli; e con quanto
vantaggio del genere umano lo attesta la storia anche ai nostri giorni. Tali
società, considerate al solo lume della ragione, avendo un fine onesto, sono per
diritto di natura evidentemente legittime. In quanto poi riguardano la
religione, non sottostanno che all’autorità della Chiesa. Non può dunque lo
Stato arrogarsi su quelle competenza alcuna, né rivendicarne a sé
l’amministrazione; ha però il dovere di rispettarle, conservarle e, se occorre,
difenderle. Ma quanto diversamente si agisce, soprattutto ai nostri tempi! In
molti luoghi e in molti modi lo Stato ha leso i diritti di tali comunità,
avendole sottoposte alle leggi civili o private di giuridica personalità, o
spogliate dei loro beni. Nei quali beni la Chiesa aveva il diritto suo, come
ognuno dei soci, e similmente quelli che li avevano destinati per un dato fine,
e quelli al cui vantaggio e sollievo erano destinati. Non possiamo dunque
astenerci dal deplorare spogliazioni sì ingiuste e dannose, tanto più che
vediamo proibite società cattoliche, tranquille e utilissime, nel tempo stesso
che si proclama altamente il diritto di associazione; mentre in realtà tale
diritto viene largamente concesso a uomini apertamente congiurati ai danni della
religione e dello Stato.
40. Certe società diversissime, costituite specialmente di operai, vanno oggi
moltiplicandosi sempre più. Di molte, tra queste, non è qui luogo di indagar
l’origine, lo scopo, i procedimenti. È opinione comune però, confermata da molti
indizi, che il più delle volte sono rette da capi occulti, con organizzazione
contraria allo spirito cristiano e al bene pubblico; costoro con il monopolio
delle industrie costringono chi rifiuta di accomunarsi a loro a pagar caro il
rifiuto. In tale stato di cose gli operai cristiani non hanno che due vie: o
iscriversi a società pericolose alla religione o formarne di proprie e unire
così le loro forze per sottrarsi coraggiosamente a sì ingiusta e intollerabile
oppressione. Ora, potrà mai esitare sulla scelta di questo secondo partito, chi
non vuole mettere a repentaglio il massimo bene dell’uomo?
3. Favorire i congressi cattolici
41. Degnissimi d’encomio sono molti tra i cattolici che, conosciute le esigenze
dei tempi, fanno ogni sforzo per migliorare onestamente le condizioni degli
operai. E, presane in mano la causa, si studiano di accrescerne il benessere
individuale e domestico; di regolare, secondo equità, le relazioni tra
lavoratori e padroni; di tener vivo e profondamente radicato negli uni e negli
altri il senso del dovere e l’osservanza dei precetti evangelici; precetti che,
allontanando l’animo da ogni sorta di eccessi, lo inducono alla moderazione e,
tra la più grande diversità di persone e di cose, mantengono l’armonia nella
vita civile. A tal fine vediamo che spesso si radunano dei congressi, ove uomini
saggi si comunicano le idee, uniscono le forze, si consultano intorno agli
espedienti migliori. Altri s’ingegnano di stringere opportunamente in società le
varie classi operaie; le aiutano col consiglio e i mezzi e procurano loro un
lavoro onesto e redditizio. Coraggio e protezione vi aggiungono i vescovi, e
sotto la loro dipendenza molti dell’uno e dell’altro clero attendono con zelo al
bene spirituale degli associati. Non mancano finalmente i cattolici benestanti
che, fatta causa comune coi lavoratori, non risparmiano spese per fondare e
largamente diffondere associazioni che aiutino l’operaio non solo a provvedere
col suo lavoro ai bisogni presenti, ma ad assicurarsi ancora per l’avvenire un
riposo onorato e tranquillo.
I vantaggi che tanti e sì volenterosi sforzi hanno recato al pubblico bene, sono
così noti che non occorre parlarne. Di qui attingiamo motivi a bene sperare
dell’avvenire, purché tali società fioriscano sempre più, e siano saggiamente
ordinate. Lo Stato difenda queste associazioni legittime dei cittadini; non si
intrometta però nell’intimo della loro organizzazione e disciplina, perché il
movimento vitale nasce da un principio intrinseco, e gli impulsi esterni
facilmente lo soffocano.
4. Autonomia e disciplina delle associazioni
42. Questa sapiente organizzazione e disciplina è assolutamente necessaria
perché vi sia unità di azione e d’indirizzo. Se hanno pertanto i cittadini, come
l’hanno di fatto, libero diritto di legarsi in società, debbono avere altresì
uguale diritto di scegliere per i loro consorzi quell’ordinamento che giudicano
più confacente al loro fine. Quale esso debba essere nelle singole sue parti,
non crediamo si possa definire con regole certe e precise, dovendosi determinare
piuttosto dall’indole di ciascun popolo, dall’esperienza e abitudine, dalla
quantità e produttività dei lavori, dallo sviluppo commerciale, nonché da altre
circostanze, delle quali la prudenza deve tener conto. In sostanza, si può
stabilire come regola generale e costante che le associazioni degli operai si
devono ordinare e governare in modo da somministrare i mezzi più adatti ed
efficaci al conseguimento del fine, il quale consiste in questo, che ciascuno
degli associati ne tragga il maggior aumento possibile di benessere fisico,
economico, morale. È evidente, poi, che conviene aver di mira, come scopo
speciale, il perfezionamento religioso e morale, e che a questo perfezionamento
si deve indirizzare tutta la disciplina sociale. Altrimenti tali associazioni
degenerano facilmente in altra natura, né si mantengono superiori a quelle in
cui della religione non si tiene conto alcuno. Del resto, che gioverebbe
all’operaio l’aver trovato nella società di che vivere bene, se l’anima sua, per
mancanza di alimento adatto, corresse pericolo di morire? "Che giova all’uomo
l’acquisto di tutto il mondo con pregiudizio dell’anima sua?" (Mt 16,26).
Questo, secondo l’insegnamento di Gesù Cristo, è il carattere che distingue il
cristiano dal pagano: "I pagani cercano tutte queste cose... voi cercate prima
di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e gli altri beni vi saranno dati
per giunta" (Mt 6,32-33). Prendendo adunque da Dio il principio, si dia una
larga parte all’istruzione religiosa, affinché ciascuno conosca i propri doveri
verso Dio; sappia bene ciò che deve credere, sperare e fare per salvarsi; e sia
ben premunito contro gli errori correnti e le seduzioni corruttrici. L’operaio
venga animato al culto di Dio e all’amore della pietà, e specialmente
all’osservanza dei giorni festivi. Impari a venerare e amare la Chiesa, madre
comune di tutti, come pure a obbedire ai precetti di lei, e a frequentare i
sacramenti, mezzi divini di giustificazione e di santità.
5. Diritti e doveri degli associati
43. Posto il fondamento degli statuti sociali nella religione, è aperta la
strada a regolare le mutue relazioni dei soci per la tranquillità della loro
convivenza e del loro benessere economico.
Gli incarichi si distribuiscano in modo conveniente agli interessi comuni, e con
tale armonia che la diversità non pregiudichi l’unità. È sommamente importante
che codesti incarichi vengano distribuiti con intelligenza e chiaramente
determinati, perché nessuno dei soci rimanga offeso.
I beni comuni della società siano amministrati con integrità, così che i
soccorsi vengano distribuiti a ciascuno secondo i bisogni; e i diritti e i
doveri dei padroni armonizzino con i diritti e i doveri degli operai. Quando poi
gli uni o gli altri si credono lesi, è desiderabile che trovino nella stessa
associazione uomini retti e competenti, al cui giudizio, in forza degli statuti,
si debbano sottomettere.
Si dovrà ancora provvedere che all’operaio non manchi mai il lavoro, e vi siano
fondi disponibili per venire in aiuto di ciascuno, non solamente nelle
improvvise e inattese crisi dell’industria, ma altresì nei casi di infermità, di
vecchiaia, di infortunio.
Quando tali statuti sono volontariamente abbracciati, si è già sufficientemente
provveduto al benessere materiale e morale delle classi inferiori; e le società
cattoliche potranno esercitare non piccola influenza sulla prosperità della
stessa società civile.
Dal passato possiamo prudentemente prevedere l’avvenire. Le umane generazioni si
succedono, ma le pagine della loro storia si rassomigliano grandemente, perché
gli avvenimenti sono governati da quella Provvidenza superna la quale volge e
indirizza tutte le umane vicende a quel fine che ella si prefisse nella
creazione della umana famiglia.
Agli inizi della Chiesa i pagani stimavano disonore il vivere di elemosine o di
lavoro, come facevano la maggior parte dei cristiani. Se non che, poveri e
deboli, riuscirono a conciliarsi le simpatie dei ricchi e il patrocinio dei
potenti. Era bello vederli attivi, laboriosi, pacifici, giusti, portati come
esempio, e singolarmente pieni di carità.
A tale spettacolo di vita e di condotta si dileguò ogni pregiudizio, ammutolì la
maldicenza dei malevoli, e le menzogne di una inveterata superstizione cedettero
il posto alla verità cristiana.
6. Le questioni operaie risolte dalle loro associazioni
44. Si agita ai nostri giorni la questione operaia, la cui buona o cattiva
soluzione interessa sommamente lo Stato. Gli operai cristiani la sceglieranno
bene, se uniti in associazione, e saggiamente diretti, seguiranno quella
medesima strada che con tanto vantaggio di loro stessi e della società, tennero
i loro antenati. Poiché, sebbene così prepotente sia negli uomini la forza dei
pregiudizi e delle passioni, nondimeno, se la pravità del volere non ha spento
in essi il senso dell’onesto, non potranno non provare un sentimento benevolo
verso gli operai quando li scorgono laboriosi, moderati, pronti a mettere
l’onestà al di sopra del lucro e la coscienza del dovere innanzi a ogni altra
cosa.
Ne seguirà poi un altro vantaggio, quello cioè di infondere speranza e facilità
di ravvedimento a quegli operai ai quali manca o la fede o la buona condotta
secondo la fede. Il più delle volte questi poveretti capiscono bene di essere
stati ingannati da false speranze e da vane illusioni. Sentono che da cupidi
padroni vengono trattati in modo molto inumano e quasi non sono valutati più di
quello che producono lavorando; nella società, in cui si trovano irretiti,
invece di carità e di affetto fraterno, regnano le discordie intestine, compagne
indivisibili della povertà orgogliosa e incredula. Affranti nel corpo e nello
spirito, molti di loro vorrebbero scuotere il giogo di sì abietta servitù; ma
non osano per rispetto umano o per timore della miseria. Ora a tutti costoro
potrebbero recare grande giovamento le associazioni cattoliche, se agevolando ad
essi il cammino, li inviteranno, esitanti, al loro seno, e rinsaviti, porgeranno
loro patrocinio e soccorso.
CONCLUSIONE
La carità, regina delle virtù sociali
45. Ecco, venerabili fratelli, da chi e in che modo si debba concorrere alla
soluzione di sì arduo problema. Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non
indugi, perché il ritardo potrebbe rendere più difficile la cura di un male già
tanto grave. I governi vi si adoperino con buone leggi e saggi provvedimenti; i
capitalisti e padroni abbiano sempre presenti i loro doveri; i proletari, che vi
sono direttamente interessati, facciano, nei limiti del giusto, quanto possono;
e poiché, come abbiamo detto da principio, il vero e radicale rimedio non può
venire che dalla religione, si persuadano tutti quanti della necessità di
tornare alla vita cristiana, senza la quale gli stessi argomenti stimati più
efficaci si dimostreranno scarsi al bisogno.
Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancare mai e in nessun modo l’opera sua,
la quale tornerà tanto più efficace quanto più sarà libera, e di questo devono
persuadersi specialmente coloro che hanno il dovere di provvedere al bene dei
popoli. Vi pongano tutta la forza dell’animo e la generosità dello zelo i
ministri del santuario; e guidati dall’autorità e dall’esempio vostro,
venerabili fratelli, non si stanchino di inculcare a tutte le classi della
società le massime del Vangelo; impegnino le loro energie a salvezza dei popoli,
e soprattutto alimentino in sé e accendano negli altri, nei grandi e nei
piccoli, la carità, signora e regina di tutte le virtù. La salvezza desiderata
dev’essere principalmente frutto di una effusione di carità; intendiamo dire
quella carità cristiana che compendia in sé tutto il Vangelo e che, pronta
sempre a sacrificarsi per il prossimo, è il più sicuro antidoto contro
l’orgoglio e l’egoismo del secolo. Già san Paolo ne tratteggiò i lineamenti con
quelle parole: "La carità è longanime, è benigna; non cerca il suo tornaconto:
tutto soffre, tutto sostiene" (1Cor 13,4-7).
Auspice dei celesti favori e pegno della nostra benevolenza, a ciascuno di voi,
venerabili fratelli, al vostro clero e al vostro popolo, con grande affetto nel
Signore impartiamo l’apostolica benedizione.
Dato a Roma presso San Pietro, il giorno 15 maggio 1891, anno decimo del nostro
pontificato.