LABOREM EXERCENS
Giovanni Paolo II
I. INTRODUZIONE
1. Il lavoro umano a novant'anni dalla Rerum Novarum.
a) L'enciclica è dedicata al lavoro umano e più ancora all'uomo che lavora.
Poiché si sono compiuti il 15 maggio dell'anno corrente, novant'anni dalla
pubblicazione - ad opera del grande Pontefice della questione sociale, Leone
XIII - di quell'enciclica di importanza decisiva, che inizia con le parole Rerum
Novarum, desidero dedicare il presente documento proprio al lavoro umano, e
ancora di più desidero dedicarlo all'uomo nel vasto contesto di questa realtà
che è il lavoro. Se, infatti, come mi sono espresso nell'enciclica Redemptor
hominis, pubblicata all'inizio del mio servizio nella Sede romana di San Pietro,
l'uomo è la prima e fondamentale via della Chiesa, e ciò proprio in base all'inscrutabile
mistero della Redenzione in Cristo, allora occorre ritornare incessantemente su
questa via e proseguirla sempre di nuovo secondo i vari aspetti, nei quali essa
ci svela tutta la ricchezza e al tempo stesso tutta la fatica dell'esistenza
umana sulla terra.
b) Oggi si pongono nuovi interrogativi e problemi.
Il lavoro è uno di questi aspetti, perenne e fondamentale, sempre attuale e tale
da esigere costantemente una rinnovata attenzione e una decisa testimonianza.
Perché sorgono sempre nuovi interrogativi e problemi, nascono sempre nuove
speranze, ma anche timori e minacce connesse con questa fondamentale dimensione
dell'umano esistere, con la quale la vita dell'uomo è costruita ogni giorno,
dalla quale essa attinge la propria specifica dignità, ma nella quale è
contemporaneamente contenuta la costante misura dell'umana fatica, della
sofferenza e anche del danno e dell'ingiustizia che penetrano profondamente la
vita sociale, all'interno delle singole Nazioni e sul piano internazionale. Se è
vero che l'uomo si nutre col pane del lavoro delle sue mani, e cioè non solo di
quel pane quotidiano col quale si mantiene vivo il suo corpo, ma anche del pane
della scienza e del progresso, della civiltà e della cultura, allora è pure una
verità perenne che egli si nutre si questo pane col sudore del volto, cioè non
solo con lo sforzo e la fatica personali, ma anche in mezzo a tante tensioni,
conflitti e crisi che, in rapporto con la realtà del lavoro, sconvolgono la vita
delle singole società ed anche di tutta l'umanità.
c) Alla vigilia di nuovi sviluppi tecnologici, economici e politici nel mondo
del lavoro.
Celebriamo il 90° anniversario dell'enciclica Rerum Novarum alla vigilia di
nuovi sviluppi nelle condizioni tecnologiche, economiche e politiche che,
secondo molti esperti, influiranno sul mondo del lavoro e della produzione non
meno di quanto fece la rivoluzione industriale del secolo scorso. Molteplici
sono i fattori di portata generale: l'introduzione generalizzata
dell'automazione in molti campi della produzione; l'aumento del prezzo
dell'energia e delle materie di base; la crescente presa di coscienza della
limitatezza del patrimonio naturale e del suo insopportabile inquinamento;
l'emergere sulla scena politica dei popoli che, dopo secoli di soggezione,
richiedono il loro legittimo posto tra le nazioni e nelle decisioni
internazionali. Queste nuove condizioni ed esigenze richiederanno un
riordinamento e un ridimensionamento delle strutture dell'economia odierna,
nonché della distribuzione del lavoro. Tali cambiamenti potranno forse
significare, purtroppo, per milioni di lavoratori qualificati, la
disoccupazione, almeno temporanea, o la necessità di un riaddestramento;
comporteranno con molta probabilità una diminuzione o una crescita meno rapida
del benessere materiale per i Paesi più sviluppati; ma potranno anche dare
sollievo e speranza ai milioni di uomini che oggi vivono in condizioni di
vergognosa e indegna miseria. Non spetta alla Chiesa analizzare scientificamente
le possibili conseguenze di tali cambiamenti sulla convivenza umana. La Chiesa
però ritiene suo compito di richiamare sempre la dignità e i diritti degli
uomini del lavoro e di stigmatizzare le situazioni, in cui essi vengono violati,
e di contribuire ad orientare questi cambiamenti perché si avveri un autentico
progresso dell'uomo e della società.
2. Il lavoro nello sviluppo organico dell'azione e dell'insegnamento sociale
della Chiesa.
a) Dalla Rerum Novarum in poi la Chiesa si è sempre occupata dei problemi
sociali.
Certamente il lavoro, come problema dell'uomo, si trova al centro stesso di
quella questione sociale, alla quale durante i quasi cento anni trascorsi dalla
menzionata enciclica si svolgono in modo speciale l'insegnamento della Chiesa e
le molteplici iniziative connesse con la sua missione apostolica. Se su di esso
desidero concentrare le presenti riflessioni, ciò voglio fare non in modo
difforme, ma piuttosto in collegamento organico con tutta la tradizione di
questo insegnamento e di queste iniziative. Al tempo stesso, però, faccio
questo, secondo l'orientamento del Vangelo, per estrarre dal patrimonio del
Vangelo cose antiche e cose nuove. Certamente, il lavoro è una cosa antica -
tanto antica quanto l'uomo e la sua vita sulla terra. La situazione generale
dell'uomo nel mondo contemporaneo, diagnosticata ed analizzata nei vari aspetti
geografici, di cultura e di civiltà, esige, tuttavia, che si scoprano i nuovi
significati del lavoro umano, e che si formulino, altresì, i nuovi compiti che
in questo settore sono posti di fronte ad ogni uomo, alla famiglia, alle singole
Nazioni, a tutto il genere umano e, infine, alla Chiesa stessa. Nello spazio
degli anni che sono passati dalla pubblicazione dell'enciclica Rerum Novarum, la
questione sociale non ha cessato di occupare l'attenzione della Chiesa. Ne danno
testimonianza i numerosi documenti del Magistero, emanati sia dai Pontefici sia
anche dal Concilio Vaticano II; ne danno testimonianza le enunciazioni dei
singoli Episcopati; ne dà testimonianza l'attività dei vari centri di pensiero e
di concrete iniziative apostoliche, sia a livello internazionale che a livello
delle Chiese locali. É difficile enumerare qui in forma particolareggiata tutte
le manifestazioni del vivo impegno della Chiesa e dei cristiani nella questione
sociale, perché esse sono molto numerose. Come risultato del Concilio, il
principale centro di coordinamento in questo campo è diventata la Pontificia
Commissione Iustitia et Pax, la quale trova i suoi Organismi corrispondenti
nell'ambito delle singole Conferenze Episcopali. Il nome di questa istituzione è
molto significativo: esso indica che la questione sociale deve essere trattata
nella sua dimensione integrale e complessa. L'impegno in favore della giustizia
deve essere intimamente unito a quello per la pace nel mondo contemporaneo.
Certamente, si è pronunciata in favore di questo duplice impegno la dolorosa
esperienza delle due grandi guerre mondiali, che durante gli ultimi 90 anni
hanno scosso molti Paesi sia del Continente europeo sia, almeno parzialmente,
degli altri Continenti. In suo favore si pronunciano, specialmente dopo la fine
della seconda guerra mondiale, la permanente minaccia di una guerra nucleare e
la prospettiva della terribile autodistruzione, che ne emerge.
b) Il centro della questione sociale è il problema del lavoro in dimensione
mondiale.
Se seguiamo la linea principale di sviluppo dei documenti del supremo Magistero
della Chiesa, troviamo in essi l'esplicita conferma proprio di tale impostazione
del problema. La posizione chiave, per quanto riguarda la questione della pace
nel mondo, è quella dell'Enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII. Se si
considera, invece, l'evoluzione della questione della giustizia sociale, si deve
notare che, mentre nel periodo che va dalla Rerum Novarum alla Quadragesimo anno
di Pio XI, l'insegnamento della Chiesa si concentra soprattutto intorno alla
giusta soluzione della cosiddetta questione operaia nell'ambito delle singole
Nazioni, nella fase successiva esso allarga l'orizzonte alle dimensioni di tutto
il globo. La distribuzione sproporzionata di ricchezza e di miseria, l'esistenza
di Paesi e di Continenti sviluppati e non esigono una perequazione e la ricerca
delle vie per un giusto sviluppo di tutti. In questa direzione procede
l'insegnamento contenuto nell'enciclica Mater et Magistra di Giovanni XXIII,
nella Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II e
nell'enciclica Populorum progressio di Paolo VI. Questa direzione di sviluppo
dell'insegnamento e dell'impegno della Chiesa nella questione sociale
corrisponde esattamente al riconoscimento oggettivo dello stato delle cose. Se
nel passato al centro di tale questione si metteva soprattutto in luce il
problema della classe, in epoca più recente si pone in primo piano il problema
del mondo. Si considera, perciò, non solo l'ambito della classe, ma quello
mondiale delle disuguaglianze e delle ingiustizie e, di conseguenza, non solo la
dimensione di classe, ma quella mondiale dei compiti sulla via che porta alla
realizzazione della giustizia nel mondo contemporaneo. L'analisi completa della
situazione del mondo di oggi ha manifestato in modo ancora più profondo e più
pieno il significato dell'anteriore analisi delle ingiustizie sociali ed è il
significato che oggi si deve dare agli sforzi che tendono a costruire la
giustizia sulla terra, non nascondendo con ciò le strutture ingiuste, ma
postulando il loro esame e la loro trasformazione in una dimensione più
universale.
3. Il problema del lavoro chiave della questione sociale.
La dottrina sociale della Chiesa deriva direttamente dalla Sacra Scrittura.
In mezzo a tutti questi processi sia della diagnosi dell'oggettiva realtà
sociale, sia anche dell'insegnamento della Chiesa nell'ambito della complessa e
molteplice questione sociale - il problema del lavoro umano compare naturalmente
molte volte. Esso è, in qualche modo, una componente fissa come della vita
sociale, così dell'insegnamento della Chiesa. In questo insegnamento, peraltro,
l'attenzione al problema risale ben al di là degli ultimi novant'anni. La
dottrina sociale della Chiesa, infatti, trova la sua sorgente nella Sacra
Scrittura, a cominciare dal Libro della Genesi e, in particolare, nel Vangelo e
negli scritti apostolici. Essa appartenne fin dall'inizio all'insegnamento della
Chiesa stessa, alla sua concezione dell'uomo e della vita sociale e,
specialmente, alla morale sociale elaborata secondo le necessità delle varie
epoche. Questo patrimonio tradizionale è poi stato ereditato e sviluppato
dall'insegnamento dei Pontefici sulla moderna questione sociale, a partire
dall'Enciclica Rerum Novarum. Nel contesto di tale questione, gli
approfondimenti del problema del lavoro hanno avuto un continuo aggiornamento,
conservando sempre quella base cristiana di verità, che possiamo chiamare
perenne. Se nel presente documento ritorniamo di nuovo su questo problema -
senza peraltro avere l'intenzione di toccare tutti gli argomenti che lo
concernono -, non è tanto per raccogliere e ripetere ciò che è già contenuto
nell'insegnamento della Chiesa, ma piuttosto per mettere in risalto - forse più
di quanto sia stato compiuto finora - il fatto che il lavoro umano è una chiave,
e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale, se
cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell'uomo. E se la
soluzione o, piuttosto, la graduale soluzione della questione sociale, che
continuamente si ripresenta e si fa sempre più complessa, deve essere cercata
nella direzione di rendere la vita umana più umana, allora appunto la chiave,
che è il lavoro umano, acquista un'importanza fondamentale e decisiva.
II. IL LAVORO E L'UOMO
4. Il lavoro nel Libro della Genesi.
a) Il lavoro costituisce una dimensione fondamentale dell'uomo sulla terra.
La Chiesa è convinta che il lavoro costituisce una dimensione fondamentale
dell'esistenza dell'uomo sulla terra. Essa si conferma in questa convinzione
anche considerando tutto il patrimonio delle molteplici scienze, dedicate
all'uomo: la antropologia, la paleontologia, la storia, la sociologia, la
psicologia, ecc.: tutte sembrano testimoniare in modo irrefutabile questa
realtà. La Chiesa, tuttavia, attinge questa sua convinzione soprattutto alla
fonte della Parola di Dio rivelata e, perciò, quella che è una convinzione
dell'intelletto acquista in pari tempo il carattere di una convinzione di fede.
La ragione è che la Chiesa - vale la pena di osservarlo fin d'ora - crede
nell'uomo: essa pensa all'uomo e si rivolge a lui non solo alla luce
dell'esperienza storica, non solo con l'aiuto dei molteplici metodi della
conoscenza scientifica, ma in primo luogo alla luce della parola rivelata del
Dio vivente. Riferendosi all'uomo, essa cerca di esprimere quei disegni eterni e
quei destini trascendenti, che il Dio vivente, creatore e redentore, ha legato
all'uomo. La Chiesa trova già nelle prime pagine del Libro della Genesi la fonte
della sua convinzione che il lavoro costituisce una fondamentale dimensione
dell'esistenza umana sulla terra. L'analisi di tali testi ci rende consapevoli
del fatto che in essi - a volte con un modo arcaico di manifestare il pensiero -
sono state espresse le verità fondamentali intorno all'uomo, già nel contesto
del mistero della Creazione. Sono queste le verità che decidono dell'uomo sin
dall'inizio e che, al tempo stesso tracciano le grandi linee della sua esistenza
sulla terra, sia nello stato della giustizia originaria, sia anche dopo la
rottura, determinata dal peccato, dell'originaria alleanza del Creatore con il
creato, nell'uomo. Quando questi, fatto a immagine di Dio... maschio e femmina,
sente le parole: Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra,
soggiogatela, anche se queste parole non si riferiscono direttamente ed
esplicitamente al lavoro, indirettamente già glielo indicano al di là di ogni
dubbio come un'attività da svolgere nel mondo. Anzi, esse ne dimostrano la
stessa essenza più profonda. L'uomo è immagine di Dio tra l'altro, per il
mandato ricevuto dal suo Creatore di soggiogare, di dominare la terra.
Nell'adempimento di tale mandato, l'uomo, ogni essere umano, riflette l'azione
stessa del Creatore dell'universo.
b) Come risulta dalla Bibbia il concetto di lavoro suppone un dominio dell'uomo
sulla terra.
Il lavoro inteso come un'attività transitiva, cioè tale che, prendendo l'inizio
nel soggetto umano, è indirizzata verso un oggetto esterno, suppone uno
specifico dominio dell'uomo sulla terra ed a sua volta conferma e sviluppa
questo dominio. É chiaro che col termine terra, di cui parla il testo biblico,
si deve intendere prima di tutto quel frammento dell'universo visibile, del
quale l'uomo è abitante; per estensione, però, si può intendere tutto il mondo
visibile, in quanto esso si trova nel raggio d'influsso dell'uomo e della sua
ricerca di soddisfare alle proprie necessità. Le parole soggiogate la terra
hanno un'immensa portata. Esse indicano tutte le risorse che la terra (e
indirettamente il mondo visibile) nasconde in sé, e che, mediante l'attività
cosciente dell'uomo, possono essere scoperte e da lui opportunamente usate. Così
quelle parole, poste all'inizio della Bibbia, non cessano mai di essere attuali.
Esse abbracciano ugualmente tutte le epoche passate della civiltà e
dell'economia, come tutta la realtà contemporanea e le fasi future dello
sviluppo, le quali, in qualche misura, forse si stanno già delineando, ma in
gran parte rimangono ancora per l'uomo quasi sconosciute e nascoste.
c) Questo concetto di dominio vale anche oggi.
Se a volte si parla di periodi di accelerazione nella vita economica e nella
civilizzazione dell'umanità o delle singole Nazioni, unendo queste accelerazioni
al progresso della scienza e della tecnica e, specialmente, alle scoperte
decisive per la vita socio-economica, si può dire al tempo stesso che nessuna di
queste accelerazioni supera l'essenziale contenuto di ciò che è stato detto in
quell'antichissimo testo biblico. Diventando - mediante il suo lavoro - sempre
di più padrone della terra, e confermando - ancora mediante il lavoro - il suo
dominio sul mondo visibile, l'uomo, in ogni caso ed in ogni fase di questo
processo, rimane sulla linea di quell'originaria disposizione del Creatore, la
quale resta necessariamente e indissolubilmente legata al fatto che l'uomo è
stato creato, come maschio e femmina, a immagine di Dio. Questo processo è, al
tempo stesso, universale: abbraccia tutti gli uomini, ogni generazione, ogni
fase dello sviluppo economico e culturale, ed insieme è un processo che si attua
in ogni uomo, in ogni consapevole soggetto umano. Tutti e ciascuno sono
contemporaneamente da esso abbracciati. Tutti e ciascuno, in misura adeguata e
in un numero incalcolabile di modi, prendono parte a questo gigantesco processo,
mediante il quale l'uomo soggioga la terra col suo lavoro.
5. Il lavoro in senso oggettivo: la tecnica.
a) L'uomo soggioga la terra mediante il lavoro sfruttando le risorse naturali.
Questa universalità e, al tempo stesso, questa molteplicità del processo del
soggiogare la terra gettano luce sul lavoro umano, poiché il dominio dell'uomo
sulla terra si compie nel lavoro e mediante il lavoro. Emerge così il
significato del lavoro in senso oggettivo, il quale trova la sua espressione
nelle varie epoche della cultura e della civiltà. L'uomo domina la terra già per
il fatto che addomestica gli animali, allevandoli e ricavandone per sé il cibo e
gli indumenti necessari, e per il fatto che può estrarre dalla terra e dal mare
diverse risorse naturali. Molto di più, però, l'uomo soggioga la terra, quando
comincia a coltivarla e successivamente rielabora i suoi prodotti, adattandoli
alle proprie necessità. L'agricoltura costituisce cosi un campo primario
dell'attività economica e un indispensabile fattore, mediante il lavoro umano,
della produzione. L'industria, a sua volta, consisterà sempre nel coniugare le
ricchezze della terra - sia le risorse vive della natura, sia i prodotti
dell'agricoltura, sia le risorse minerarie o chimiche - ed il lavoro dell'uomo,
il lavoro fisico come quello intellettuale. Ciò vale, in un certo senso, anche
nel campo della cosiddetta industria dei servizi, e in quello della ricerca,
pura o applicata. Oggi nell'industria e nell'agricoltura l'attività dell'uomo ha
cessato in molti casi di essere un lavoro prevalentemente manuale poiché la
fatica delle mani e dei muscoli è aiutata dall'opera di macchine e di meccanismi
sempre più perfezionati. Non soltanto nell'industria, ma anche nell'agricoltura,
siamo testimoni delle trasformazioni rese possibili dal graduale e continuo
sviluppo della scienza e della tecnica. E questo, nel suo insieme, è diventato
storicamente una causa di grandi svolte della civiltà, dall'origine dell' era
industriale alle successive fasi di sviluppo per il tramite di nuove tecniche,
come quelle dell'elettronica o dei microprocessori negli ultimi anni.
b) Lo sviluppo della tecnica ripropone in modo nuovo il problema del lavoro
umano.
Se può sembrare che nel processo industriale lavori la macchina mentre l'uomo
solamente attende ad essa, rendendo possibile e sostenendo in diversi modi il
suo funzionamento, è anche vero che proprio per questo lo sviluppo industriale
pone la base per riproporre in modo nuovo il problema del lavoro umano. Sia la
prima industrializzazione che ha creato la cosiddetta questione operaia, sia i
successivi cambiamenti industriali, dimostrano eloquentemente che, anche
nell'epoca del lavoro sempre più meccanizzato, il soggetto proprio del lavoro
rimane l'uomo. Lo sviluppo dell'industria e dei diversi settori con essa
connessi, fino alle più moderne tecnologie dell'elettronica specialmente nel
campo della miniaturizzazione, dell'informatica, della telematica ed altri,
indica quale immenso ruolo assume, nell'interazione tra il soggetto e l'oggetto
del lavoro (nel più ampio senso di questa parola), proprio quell'alleata del
lavoro, generata dal pensiero umano, che è la tecnica. Intesa in questo caso non
come una capacità o una attitudine al lavoro, ma come un insieme di strumenti
dei quali l'uomo si serve nel proprio lavoro, la tecnica è indubbiamente
un'alleata dell'uomo. Essa gli facilita il lavoro, lo perfeziona, lo accelera e
lo moltiplica. Essa favorisce l'aumento dei prodotti del lavoro, e di molti
perfeziona anche la qualità. É un fatto, peraltro, che in alcuni casi la tecnica
da alleata può anche trasformarsi quasi in avversaria dell'uomo, come quando la
meccanizzazione del lavoro soppianta l'uomo, togliendogli ogni soddisfazione
personale e lo stimolo alla creatività e alla responsabilità; quando sottrae
l'occupazione a molti lavoratori prima impiegati, o quando, mediante
l'esaltazione della macchina, riduce l'uomo ad esserne il servo. Se le parole
bibliche soggiogate la terra, rivolte all'uomo fin dall'inizio, vengono intese
nel contesto dell'intera epoca moderna, industriale e post-industriale, allora
indubbiamente esse racchiudono in sé anche un rapporto con la tecnica, con quel
mondo di meccanismi e di macchine che è il frutto del lavoro dell'intelletto
umano e la conferma storica del dominio dell'uomo sulla natura. La recente epoca
della storia dell'umanità, e specialmente di alcune società porta con sé una
giusta affermazione della tecnica come un coefficiente fondamentale di progresso
economico; al tempo stesso, però, con questa affermazione sono sorti e
continuamente sorgono gli interrogativi essenziali riguardanti il lavoro umano
in rapporto al suo soggetto, che è appunto l'uomo. Questi interrogativi
racchiudono in sé una carica particolare di contenuti e di tensioni di carattere
etico ed etico-sociale. E perciò essi costituiscono una sfida continua per
molteplici istituzioni, per gli Stati e per i governi, per i sistemi e le
organizzazioni internazionali; essi costituiscono anche una sfida per la Chiesa.
6. Il lavoro in senso soggettivo: l'uomo-soggetto del lavoro.
a) L'uomo, come immagine di Dio e soggetto del lavoro, deve dominare la terra e
tutto ciò che è prodotto dal lavoro.
Per continuare la nostra analisi del lavoro legata alla parola della Bibbia, in
forza della quale l'uomo deve soggiogare la terra, bisogna che concentriamo la
nostra attenzione sul lavoro in senso soggettivo, molto più di quanto abbiamo
fatto in riferimento al significato oggettivo del lavoro, toccando appena quella
vasta problematica, che è perfettamente e dettagliatamente nota agli studiosi
nei vari campi ed anche agli stessi uomini del lavoro secondo le loro
specializzazioni. Se le parole del Libro della Genesi, alle quali ci riferiamo
in questa nostra analisi, parlano in modo indiretto del lavoro nel senso
oggettivo, così, nello stesso modo, parlano anche del soggetto del lavoro; ma
ciò che esse dicono è molto eloquente e carico di un grande significato. L'uomo
deve soggiogare la terra, la deve dominare, perché come immagine di Dio è una
persona, cioè un essere soggettivo capace di agire in modo programmato e
razionale, capace di decidere di sé e tendente a realizzare se stesso. Come
persona, l'uomo è quindi soggetto del lavoro. Come persona egli lavora, compie
varie azioni appartenenti al processo del lavoro; esse, indipendentemente dal
loro contenuto oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua
umanità, al compimento della vocazione ad essere persona, che gli è propria a
motivo della stessa umanità. Le principali verità su questo tema sono state
ultimamente ricordate dal Concilio Vaticano II nella costituzione Gaudium et
spes particolarmente nel capitolo I dedicato alla vocazione dell'uomo. E così
quel dominio, del quale parla il testo biblico qui meditato, si riferisce non
solamente alla dimensione oggettiva del lavoro, ma ci introduce
contemporaneamente alla comprensione della sua dimensione soggettiva. Il lavoro
inteso come processo, mediante il quale l'uomo e il genere umano soggiogano la
terra, corrisponde a questo fondamentale concetto della Bibbia solo quando
contemporaneamente in tutto questo processo l'uomo manifesta e conferma se
stesso come colui che domina. Quel dominio, in un certo senso, si riferisce alla
dimensione soggettiva ancor più che a quella oggettiva: questa dimensione
condiziona la stessa sostanza etica del lavoro. Non c'è, infatti, alcun dubbio
che il lavoro umano abbia un suo valore etico, il quale senza mezzi termini e
direttamente rimane legato al fatto che colui che lo compie è una persona, un
soggetto consapevole e libero, cioè un soggetto che decide di se stesso. Questa
verità che costituisce in un certo senso lo stesso fondamentale e perenne
midollo della dottrina cristiana sul lavoro umano, ha avuto ed ha un significato
primario per la formulazione degli importanti problemi sociali a misura di
intere epoche.
b) Nobiltà del lavoro manuale, anche perché vissuto da Gesù sulla terra.
L'età antica introdusse tra gli uomini una propria tipica differenziazione in
ceti a seconda del tipo di lavoro che seguivano. Il lavoro che richiedeva da
parte del lavoratore l'impiego delle forze fisiche, il lavoro dei muscoli e
delle mani, era considerato indegno degli uomini liberi, e alla sua esecuzione
venivano, perciò, destinati gli schiavi. Il cristianesimo, ampliando alcuni
aspetti propri già dell'Antico Testamento, ha operato qui una fondamentale
trasformazione di concetti, partendo dall'intero contenuto del messaggio
evangelico e soprattutto dal fatto che Colui, il quale essendo Dio è divenuto
simile a noi in tutto, dedicò la maggior parte degli anni della sua vita sulla
terra al lavoro manuale, presso un banco di carpentiere. Questa circostanza
costituisce da sola il più eloquente Vangelo del lavoro, che manifesta come il
fondamento per determinare il valore del lavoro umano non sia prima di tutto il
genere di lavoro che si compie, ma il fatto che colui che lo esegue è una
persona. Le fonti della dignità del lavoro si devono cercare soprattutto non
nella sua dimensione oggettiva, ma nella sua dimensione soggettiva.
c) Il lavoro è per l'uomo e non l'uomo per il lavoro.
In una tale concezione sparisce quasi il fondamento stesso dell'antica
differenziazione degli uomini in ceti, a seconda del genere di lavoro da essi
eseguito. Ciò non vuol dire che il lavoro umano, dal punto di vista oggettivo,
non possa e non debba essere in alcun modo valorizzato e qualificato. Ciò vuol
dire solamente che il primo fondamento del valore del lavoro è l'uomo stesso, il
suo soggetto. A ciò si collega subito una conclusione molto importante di natura
etica: per quanto sia una verità che l'uomo è destinato ed è chiamato al lavoro,
però prima di tutto il lavoro è per l'uomo, e non l'uomo per il lavoro. Con
questa conclusione si arriva giustamente a riconoscere la preminenza del
significato soggettivo del lavoro su quello oggettivo. Dato questo modo di
intendere, e supponendo che vari lavori compiuti dagli uomini possano avere un
maggiore o minore valore oggettivo, cerchiamo tuttavia di porre in evidenza che
ognuno di essi si misura soprattutto con il metro della dignità del soggetto
stesso del lavoro, cioè della persona, dell'uomo che lo compie. A sua volta:
indipendentemente dal lavoro che ogni uomo compie, e supponendo che esso
costituisca uno scopo - alle volte molto impegnativo - del suo operare, questo
scopo non possiede un significato definitivo per se stesso. Difatti, in ultima
analisi, lo scopo del lavoro, di qualunque lavoro eseguito dall'uomo - fosse
pure il lavoro più di servizio, più monotono, nella scala del comune modo di
valutazione, addirittura più emarginante - rimane sempre l'uomo stesso.
7. Una minaccia al giusto ordine dei valori.
a) Anche oggi il lavoro umano viene trattato come merce, in conseguenza di una
concezione materialistica ed economicistica.
Proprio queste affermazioni basilari sul lavoro sono sempre emerse dalle
ricchezze della verità cristiana, specialmente dal messaggio stesso del Vangelo
del lavoro, creando il fondamento del nuovo modo di pensare, di valutare e di
agire degli uomini. Nell'epoca moderna, fin dall'inizio dell'era industriale, la
verità cristiana sul lavoro doveva contrapporsi alle varie correnti del pensiero
materialistico ed economicistico. Per alcuni fautori di tali idee, il lavoro era
inteso e trattato come una specie di merce, che il lavoratore - e specialmente
l'operaio dell'industria -vende al datore di lavoro, che e al tempo stesso
possessore del capitale, cioè dell'insieme degli strumenti di lavoro e dei mezzi
che rendono possibile la produzione. Questo modo di concepire il lavoro era
diffuso, in particolare, nella prima metà del secolo XIX. In seguito le
esplicite formulazioni di questo tipo sono pressoché sparite, cedendo ad un modo
più umano di pensare e di valutare il lavoro. L'interazione fra l'uomo del
lavoro e l'insieme degli strumenti e dei mezzi di produzione ha dato luogo
all'evolversi di diverse forme di capitalismo - parallelamente a diverse forme
di collettivismo - dove si sono inseriti altri elementi socioeconomici a seguito
di nuove circostanze concrete, dell'opera delle associazioni dei lavoratori e
dei poteri pubblici, dell'apparire di grandi imprese transnazionali.
Ciononostante, il pericolo di trattare il lavoro come una merce sui generis, o
come una anonima forza necessaria alla produzione (si parla addirittura di
forza-lavoro ), esiste sempre, e specialmente qualora tutta la visuale della
problematica economica sia caratterizzata dalle premesse dell'economismo
materialistico.
b) L'uomo trattato come uno strumento di produzione nella concezione errata del
capitalismo.
Un'occasione sistematica e, in certo qual senso, perfino uno stimolo per questo
modo di pensare e di valutare è costituito dall'accelerato processo di sviluppo
della civiltà unilateralmente materialistica, nella quale si dà prima di tutto
importanza alla dimensione oggettiva del lavoro, mentre la dimensione soggettiva
- tutto ciò che è in rapporto indiretto o diretto con lo stesso soggetto del
lavoro - rimane su di un piano secondario. In tutti i casi di questo genere, in
ogni situazione sociale di questo tipo avviene una confusione o, addirittura,
un'inversione dell'ordine stabilito all'inizio con le parole del Libro della
Genesi: l'uomo viene trattato come uno strumento di produzione, mentre egli -
egli solo, indipendentemente dal lavoro che compie - dovrebbe essere trattato
come suo soggetto efficiente e suo vero artefice e creatore. Proprio tale
inversione d'ordine, a prescindere dal programma e dalla denominazione secondo
cui essa si compie, meriterebbe - nel senso indicato qui sotto più ampiamente -
il nome di capitalismo. Si sa che il capitalismo ha il suo preciso significato
storico in quanto sistema, e sistema economico-sociale, in contrapposizione al
socialismo o comunismo. Ma, alla luce dell'analisi della realtà fondamentale
dell'intero processo economico e, prima di tutto, della struttura di produzione
- quale appunto è il lavoro - conviene riconoscere che l'errore del primitivo
capitalismo può ripetersi dovunque l'uomo venga trattato, in un certo qual modo,
al pari di tutto il complesso dei mezzi materiali di produzione, come uno
strumento e non invece secondo la vera dignità del suo lavoro - cioè come
soggetto e autore, e per ciò stesso come vero scopo di tutto il processo
produttivo.
c) Il concetto dell'uomo soggetto del lavoro deve trovare un posto centrale
nella sfera sociale ed economica del mondo intero.
Da questo si comprende come l'analisi del lavoro umano fatto alla luce di quelle
parole, che riguardano il dominio dell'uomo sopra la terra, penetri al centro
stesso della problematica etico-sociale. Questa concezione dovrebbe pure trovare
un posto centrale in tutta la sfera della politica sociale ed economica, sia
nell'ambito dei singoli Paesi, sia in quello più vasto dei rapporti
internazionali ed intercontinentali, con particolare riferimento alle tensioni,
che si delineano nel mondo non solo sull'asse Oriente-Occidente, ma anche
sull'asse Nord-Sud. Hanno rivolto una decisa attenzione a queste dimensioni
della problematica etico-sociale contemporanea sia Giovanni XXIII nell'enciclica
Mater et Magistra, sia Paolo VI nell'enciclica Populorum progressio.
8. Solidarietà degli uomini del lavoro.
a) Nel secolo scorso è nata la cosiddetta questione operaia e il movimento
operaio come reazione allo sfruttamento del lavoro umano.
Se si tratta del lavoro umano, nella fondamentale dimensione del suo soggetto,
cioè dell'uomo persona che esegue un dato lavoro, si deve da questo punto di
vista fare almeno una sommaria valutazione degli sviluppi, che nei novant'anni
trascorsi dalla Rerum Novarum sono avvenuti in rapporto all'aspetto soggettivo
del lavoro. Difatti, per quanto il soggetto del lavoro sia sempre lo stesso,
cioè l'uomo, tuttavia nell'aspetto oggettivo si verificano notevoli variazioni.
Benché si possa dire che il lavoro, a motivo del suo soggetto è uno (uno e ogni
volta irripetibile), tuttavia, considerando le sue oggettive direzioni, bisogna
constatare che esistono tanti lavori: tanti diversi lavori. Lo sviluppo della
civiltà umana porta in questo campo un arricchimento continuo. Al tempo stesso,
però, non si può non notare come nel processo di questo sviluppo non solo
compaiono nuove forme di lavoro, ma pure che altre spariscono. Pur concedendo
che in linea di massima questo sia un fenomeno normale, bisogna, tuttavia,
vedere se non si infiltrino in esso, e in quale misura, certe irregolarità, che
per motivi etico-sociali possono essere pericolose.
Proprio a motivo di una tale anomalia di grande portata è nata nel secolo scorso
la cosiddetta "questione operaia", definita a volte come questione proletaria.
Tale questione - con i problemi ad essa connessi - ha dato origine ad una giusta
reazione sociale, ha fatto sorgere e quasi irrompere un grande slancio di
solidarietà tra gli uomini del lavoro e, prima di tutto, tra i lavoratori
dell'industria. L'appello alla solidarietà e all'azione comune, lanciato agli
uomini del lavoro - soprattutto a quelli del lavoro settoriale, monotono,
spersonalizzante nei complessi industriali, quando la macchina tende a dominare
sull'uomo - aveva un suo importante valore e una sua eloquenza dal punto di
vista dell'etica sociale. Era la reazione contro la degradazione dell'uomo come
soggetto del lavoro, e contro l'inaudito, concomitante sfruttamento nel campo
dei guadagni, delle condizioni di lavoro e di previdenza per la persona del
lavoratore. Tale reazione ha riunito il mondo operaio in una comunità
caratterizzata da una grande solidarietà.
b) La naturale reazione contro le ingiustizie, deriva anche da una maggiore
presa di coscienza.
Sulle orme dell'enciclica Rerum Novarum e di molti documenti successivi del
Magistero della Chiesa bisogna francamente riconoscere che fu giustificata, dal
punto di vista della morale sociale, la reazione contro il sistema di
ingiustizia e di danno, che gridava vendetta al cospetto del Cielo, e che pesava
sull'uomo del lavoro in quel periodo di rapida industrializzazione. Questo stato
di cose era favorito dal sistema socio-politico liberale che, secondo le sue
premesse di economicismo, rafforzava e assicurava l'iniziativa economica dei
soli possessori del capitale, ma non si preoccupava abbastanza dei diritti
dell'uomo del lavoro, affermando che il lavoro umano è soltanto uno strumento di
produzione e che il capitale è il fondamento, il coefficiente e lo scopo della
produzione. Da allora, la solidarietà degli uomini del lavoro, insieme con una
presa di coscienza più netta e più impegnativa circa i diritti dei lavoratori da
parte degli altri, ha prodotto in molti casi cambiamenti profondi. Si sono
escogitati diversi nuovi sistemi. Si sono sviluppate diverse forme di
neocapitalismo e di collettivismo. Non di rado gli uomini del lavoro possono
partecipare, ed effettivamente partecipano, alla gestione ed al controllo della
produttività delle imprese. Per il tramite di appropriate associazioni, essi
influiscono sulle condizioni di lavoro e di rimunerazione, come anche sulla
legislazione sociale. Ma nello stesso tempo vari sistemi ideologici o di potere,
come anche nuove relazioni, sorte ai diversi livelli della convivenza umana,
hanno lasciato persistere ingiustizie flagranti o ne hanno creato di nuove. A
livello mondiale, lo sviluppo della civiltà e delle comunicazioni ha reso
possibile una più completa diagnosi delle condizioni di vita e di lavoro
dell'uomo in tutta la terra, ma ha anche messo in luce altre modalità di
ingiustizia, ben più vaste di quelle che, nel secolo scorso, stimolarono
l'unione degli uomini del lavoro per una particolare solidarietà nel mondo
operaio. Così nei Paesi che hanno già compiuto un certo processo di rivoluzione
industriale; così anche nei Paesi nei quali il cantiere primario del lavoro non
cessa di essere la coltivazione della terra, o altre occupazioni ad essa
consimili. Movimenti di solidarietà nel campo del lavoro - di una solidarietà
che non deve mai essere chiusura al dialogo e alla collaborazione con gli altri
- possono essere necessari anche in riferimento alle condizioni di ceti sociali
che prima non erano in essi compresi, ma che subiscono, nei sistemi sociali e
nelle condizioni di vita che cambiano, un'effettiva proletarizzazione, o
addirittura si trovano in realtà già in una condizione di proletariato, la
quale, anche se non ancora conosciuta con questo nome, di fatto è tale da
meritarlo. In questa condizione possono trovarsi alcune categorie o gruppi dell'
intellighenzia lavorativa, specialmente quando insieme con l'accesso sempre più
largo all'istruzione, col numero sempre crescente delle persone, che hanno
conseguito diplomi per la loro preparazione culturale diminuisce il fabbisogno
del loro lavoro. Tale disoccupazione degli intellettuali avviene o aumenta,
quando l'istruzione accessibile non è orientata verso i tipi di impiego o di
servizi richiesti dai veri bisogni della società, o quando il lavoro, per il
quale si esige l'istruzione, almeno professionale, è meno ricercato o meno
pagato di un lavoro manuale. É ovvio che l'istruzione di per se stessa
costituisce sempre un valore ed un importante arricchimento della persona umana;
ma ciononostante, taluni processi di proletarizzazione restano possibili
indipendentemente da questo fatto.
c) Necessità di nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e con gli
uomini del lavoro.
Perciò, bisogna continuare a interrogarsi circa il soggetto del lavoro e le
condizioni in cui egli vive. Per realizzare la giustizia sociale nelle varie
parti del mondo, nei vari Paesi e nei rapporti tra di loro, sono necessari
sempre nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà
con gli uomini del lavoro. Tale solidarietà deve essere sempre presente là dove
lo richiedono la degradazione sociale del soggetto del lavoro, lo sfruttamento
dei lavoratori e le crescenti fasce di miseria e addirittura di fame. La Chiesa
e vivamente impegnata in questa causa, perché la considera come sua missione,
suo servizio, come verifica della sua fedeltà a Cristo, onde essere veramente la
Chiesa dei poveri. E i poveri compaiono sotto diverse specie; compaiono in
diversi posti e in diversi momenti; compaiono in molti casi come risultato della
violazione della dignità del lavoro umano: sia perché vengono limitate le
possibilità del lavoro - cioè per la piaga della disoccupazione -, sia perché
vengono svalutati il lavoro ed i diritti che da esso scaturiscono, specialmente
il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e
della sua famiglia.
9. Lavoro: dignità della persona.
a) Alcuni problemi che definiscono meglio la dignità del lavoro umano.
Rimanendo ancora nella prospettiva dell'uomo come soggetto del lavoro, ci
conviene toccare, almeno sinteticamente, alcuni problemi che definiscono più da
vicino la dignità del lavoro umano, poiché permettono di caratterizzare più
pienamente il suo specifico valore morale. Occorre far questo tenendo sempre
davanti agli occhi quella vocazione biblica a soggiogare la terra, nella quale
si è espressa la volontà del Creatore, perché il lavoro rendesse possibile
all'uomo di raggiungere quel dominio che gli è proprio nel mondo visibile. La
fondamentale e primordiale intenzione di Dio nei riguardi dell'uomo, che Egli
creò... a sua somiglianza, a sua immagine, non è stata ritrattata né cancellata
neppure quando l'uomo, dopo aver infranto l'originaria alleanza con Dio, udì le
parole: Col sudore del tuo volto mangerai il pane. Queste parole si riferiscono
alla fatica a volte pesante, che da allora accompagna il lavoro umano; però, non
cambiano il fatto che esso è la via sulla quale l'uomo realizza il dominio, che
gli è proprio, sul mondo visibile soggiogando la terra. Questa fatica è un fatto
universalmente conosciuto, perché universalmente sperimentato. Lo sanno gli
uomini del lavoro manuale, svolto talora in condizioni eccezionalmente gravose.
Lo sanno non solo gli agricoltori, che consumano lunghe giornate nel coltivare
la terra, la quale a volte produce pruni e spine, ma anche i minatori nelle
miniere o nelle cave di pietra, i siderurgici accanto ai loro altiforni, gli
uomini che lavorano nei cantieri edili e nel settore delle costruzioni in
frequente pericolo di vita o di invalidità. Lo sanno, al tempo stesso, gli
uomini legati al banco del lavoro intellettuale, lo sanno gli scienziati, lo
sanno gli uomini sui quali grava la grande responsabilità di decisioni destinate
ad avere vasta rilevanza sociale. Lo sanno i medici e gli infermieri, che
vigilano giorno e notte accanto ai malati. Lo sanno le donne, che, talora senza
adeguato riconoscimento da parte della società e degli stessi familiari, portano
ogni giorno la fatica e la responsabilità della casa e dell'educazione dei
figli. Lo sanno tutti gli uomini del lavoro e, poiché è vero che il lavoro è una
vocazione universale, lo sanno tutti gli uomini. Eppure, con tutta questa fatica
- e forse, in un certo senso, a causa di essa - il lavoro è un bene dell'uomo.
Se questo bene comporta il segno di un bonum arduum secondo la terminologia di
San Tommaso, ciò non toglie che, come tale, esso sia un bene dell'uomo. Ed è non
solo un bene utile o da fruire, ma un bene degno, cioè corrispondente alla
dignità dell'uomo, un bene che esprime questa dignità e la accresce. Volendo
meglio precisare il significato etico del lavoro, si deve avere davanti agli
occhi prima di tutto questa verità. Il lavoro è un bene dell'uomo - e un bene
della sua umanità - perché mediante il lavoro l'uomo non solo trasforma la
natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo
ed anzi, in un certo senso, diventa più uomo.
b) Per non usare il lavoro contro l'uomo bisogna unire la virtù della
laboriosità con l'ordine sociale del lavoro.
Senza questa considerazione non si può comprendere il significato della virtù
della laboriosità, più particolarmente non si può comprendere perché la
laboriosità dovrebbe essere una virtù: infatti, la virtù come attitudine morale,
è ciò per cui l'uomo diventa buono in quanto uomo. Questo fatto non cambia per
nulla la nostra giusta preoccupazione, affinché nel lavoro, mediante il quale la
materia viene nobilitata, l'uomo stesso non subisca una diminuzione della
propria dignità. É noto, ancora, che è possibile usare variamente il lavoro
contro l'uomo, che si può punire l'uomo col sistema del lavoro forzato nei
lager, che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell'uomo, che infine
si può in vari modi sfruttare il lavoro umano, cioè l'uomo del lavoro. Tutto ciò
depone in favore dell'obbligo morale di unire la laboriosità come virtù con
l'origine sociale del lavoro, che permetterà all'uomo di diventare più uomo nel
lavoro, e non già di degradarsi a causa del lavoro, logorando non solo le forze
fisiche (il che, almeno fino a un certo grado, è inevitabile), ma soprattutto
intaccando la dignità e soggettività, che gli sono proprie.
10. Lavoro e società: famiglia, nazione.
a) Il lavoro è il fondamento su cui si forma la vita familiare e l'educazione
nella famiglia.
Confermata in questo modo la dimensione personale del lavoro umano, si deve poi
arrivare al secondo cerchio di valori, che è ad esso necessariamente unito. Il
lavoro è il fondamento su cui si forma la vita familiare, la quale è un diritto
naturale ed una vocazione dell'uomo. Questi due cerchi di valori - uno congiunto
al lavoro, l'altro conseguente al carattere familiare della vita umana - devono
unirsi tra sé correttamente, e correttamente permearsi. Il lavoro è, in un certo
modo, la condizione per rendere possibile la fondazione di una famiglia, poiché
questa esige i mezzi di sussistenza, che in via normale l'uomo acquista mediante
il lavoro. Lavoro e laboriosità condizionano anche tutto il processo di
educazione nella famiglia, proprio per la ragione che ognuno diventa uomo, fra
l'altro, mediante il lavoro, e quel diventare uomo esprime appunto lo scopo
principale di tutto il processo educativo. Evidentemente qui entrano in gioco,
in un certo senso, due aspetti del lavoro: quello che consente la vita ed il
mantenimento della famiglia, e quello mediante il quale si realizzano gli scopi
della famiglia stessa, soprattutto l'educazione. Ciononostante, questi due
aspetti del lavoro sono uniti tra di loro e si completano in vari punti.
Nell'insieme si deve ricordare ed affermare che la famiglia costituisce uno dei
più importanti termini di riferimento, secondo i quali deve essere formato
l'ordine socio-etico del lavoro umano. La dottrina della Chiesa ha sempre
dedicato una speciale attenzione a questo problema, e nel presente documento
occorrerà che ritorniamo ancora su di esso. Infatti, la famiglia è, al tempo
stesso, una comunità resa possibile dal lavoro e la prima interna scuola di
lavoro per ogni uomo.
b) Funzione sociale dei tre cerchi di valori: lavoro e persona, famiglia,
nazione.
Il terzo cerchio di valori che emerge nella presente prospettiva - nella
prospettiva del soggetto del lavoro - riguarda quella grande società, alla quale
l'uomo appartiene in base a particolari legami culturali e storici. Tale società
- anche quando non ha ancora assunto la forma matura di una nazione - è non
soltanto la grande educatrice di ogni uomo, benché indiretta (perché ognuno
assume nella famiglia i contenuti e valori che compongono, nel suo insieme, la
cultura di una data nazione), ma è anche una grande incarnazione storica e
sociale del lavoro di tutte le generazioni. Tutto questo fa sì che l'uomo unisca
la sua più profonda identità umana con l'appartenenza alla nazione, ed intenda
il suo lavoro anche come incremento del bene comune elaborato insieme con i suoi
compatrioti rendendosi così conto che per questa via il lavoro serve a
moltiplicare il patrimonio di tutta la famiglia umana di tutti gli uomini
viventi nel mondo. Questi tre cerchi conservano permanentemente la loro
importanza per il lavoro umano nella sua dimensione soggettiva. E tale
dimensione, cioè la concreta realtà dell'uomo del lavoro, ha la precedenza sulla
dimensione oggettiva. Nella dimensione soggettiva si realizza, prima di tutto,
quel dominio sul mondo della natura, al quale l'uomo è chiamato sin dall'inizio
secondo le parole del Libro della Genesi. Se il processo stesso di soggiogare la
terra, cioè il lavoro sotto l'aspetto della tecnica, è segnato nel corso della
storia e, specialmente, negli ultimi secoli, da uno sviluppo immenso dei mezzi
produttivi, allora questo è un fenomeno vantaggioso e positivo, a condizione che
la dimensione oggettiva del lavoro non prenda il sopravvento sulla dimensione
soggettiva, togliendo all'uomo o diminuendo la sua dignità e i suoi inalienabili
diritti.
III. IL CONFLITTO TRA LAVORO E CAPITALE NELLA PRESENTE FASE STORICA
11. Dimensione di tale conflitto.
a) L'insegnamento della Chiesa sui problemi fondamentali del lavoro è rimasto
sempre valido.
L'abbozzo della fondamentale problematica del lavoro qual è stato delineato
sopra, come si riferisce ai primi testi biblici, così costituisce, in un certo
senso, la stessa struttura portante dell'insegnamento della Chiesa, che si
mantiene immutato attraverso i secoli, nel contesto delle varie esperienze della
storia. Tuttavia, sullo sfondo delle esperienze che hanno preceduto la
pubblicazione dell'enciclica Rerum Novarum e che la hanno seguita, esso acquista
una particolare espressività ed un'eloquenza di viva attualità. Il lavoro appare
in questa analisi come una grande realtà, che esercita un fondamentale influsso
sulla formazione in senso umano del mondo affidato all'uomo dal Creatore, ed e
una realtà strettamente legata all'uomo, come al proprio soggetto, ed al suo
razionale operare. Questa realtà, nel corso normale delle cose, riempie la vita
umana e incide fortemente sul suo valore e sul suo senso. Anche se unito con la
fatica e con lo sforzo, il lavoro non cessa di essere un bene sicché l'uomo si
sviluppa mediante l'amore per il lavoro. Questo carattere del lavoro umano, del
tutto positivo e creativo, educativo e meritorio, deve costituire il fondamento
delle valutazioni e delle decisioni, che oggi si prendono nei suoi riguardi,
anche in riferimento ai diritti soggettivi dell'uomo, come attestano le
Dichiarazioni internazionali ed anche i molteplici Codici del lavoro, elaborati
sia dalle competenti istituzioni legislative dei singoli Paesi, sia dalle
Organizzazioni che dedicano la loro attività sociale o anche scientifico-sociale
alla problematica del lavoro. Un organismo che promuove a livello internazionale
tali iniziative è l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, la più antica
Istituzione specializzata dell'O.N.U. Nella parte successiva delle presenti
considerazioni ho intenzione di ritornare in modo più dettagliato su questi
importanti problemi ricordando almeno gli elementi fondamentali della dottrina
della Chiesa intorno a questo tema. Prima però conviene toccare un cerchio molto
importante di problemi, tra i quali si è venuto formando questo insegnamento
nell'ultima fase, cioè nel periodo, la cui data, in un certo senso simbolica, è
l'anno della pubblicazione dell'enciclica Rerum Novarum.
b) Il conflitto tra il mondo del capitale e il mondo del lavoro nasce dal
conflitto ideologico tra il liberalismo ed il marxismo.
É noto che in tutto questo periodo, il quale non è affatto ancora terminato, il
problema del lavoro è stato posto in base al grande conflitto che nell'epoca
dello sviluppo industriale ed insieme con esso si è manifestato tra il mondo del
capitale e il mondo del lavoro, cioè tra il gruppo ristretto, ma molto
influente, degli imprenditori, proprietari o detentori dei mezzi di produzione,
e la più vasta moltitudine di gente che era priva di questi mezzi, e che
partecipava, invece, al processo produttivo esclusivamente mediante il lavoro.
Tale conflitto è stato originato dal fatto che i lavoratori mettevano le loro
forze a disposizione del gruppo degli imprenditori, e che questo, guidato dal
principio del massimo profitto della produzione, cercava di stabilire il salario
più basso possibile per il lavoro eseguito dagli operai. A ciò bisogna
aggiungere anche altri elementi di sfruttamento, collegati con la mancanza di
sicurezza del lavoro ed anche di garanzie circa le condizioni di salute e di
vita degli operai e delle loro famiglie. Questo conflitto, interpretato da
certuni come un conflitto socio-economico a carattere di classe, ha trovato la
sua espressione nel conflitto ideologico tra il liberalismo, inteso come
ideologia del capitalismo, ed il marxismo, inteso come ideologia del socialismo
scientifico e del comunismo, che pretende di intervenire in veste di portavoce
della classe operaia, di tutto il proletariato mondiale. In questo modo il reale
conflitto, che esisteva tra il mondo del lavoro ed il mondo del capitale, si è
trasformato nella lotta programmata di classe, condotta con metodi non solo
ideologici, ma addirittura, e prima di tutto, politici. É nota la storia di
questo conflitto, come note sono anche le richieste dell'una e dell'altra parte.
Il programma marxista, basato sulla filosofia di Marx e di Engels, vede nella
lotta di classe l'unica via per l'eliminazione delle ingiustizie di classe,
esistenti nella società, e delle classi stesse. L'attuazione di questo programma
permette la collettivizzazione dei mezzi di produzione, affinché, mediante il
trasferimento di questi mezzi dai privati alla collettività, il lavoro umano
venga preservato dallo sfruttamento.
c) Secondo il principio della dittatura del proletariato, il marxismo tende al
monopolio del potere nelle singole società.
A questo tende la lotta condotta con metodi non solo ideologici, ma anche
politici. I raggruppamenti, ispirati dall'ideologia marxista come partiti
politici, tendono, in funzione del principio della dittatura del proletariato ed
esercitando influssi di vario tipo, compresa la pressione rivoluzionaria, al
monopolio del potere nelle singole società, per introdurre in esse, mediante
l'eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione, il sistema
collettivistico. Secondo i principali ideologi e capi di questo ampio movimento
internazionale, lo scopo di un tale programma di azione è quello di compiere la
rivoluzione sociale e di introdurre in tutto il mondo il socialismo e, in
definitiva, il sistema comunista. Toccando questo cerchio estremamente
importante di problemi, che costituiscono non solo una teoria, ma proprio un
tessuto di vita socio-economica, politica e internazionale della nostra epoca,
non si può e non è nemmeno necessario entrare in particolari, poiché questi sono
conosciuti sia grazie ad una vasta letteratura, sia in base alle esperienze
pratiche. Si deve, invece, risalire dal loro contesto al problema fondamentale
del lavoro umano, al quale sono dedicate soprattutto le considerazioni contenute
nel presente documento. Al tempo stesso, infatti, è evidente che questo problema
capitale, sempre dal punto di vista dell'uomo - problema che costituisce una
delle fondamentali dimensioni della sua esistenza terrena e della sua vocazione
-, non può essere altrimenti spiegato se non tenendo conto del pieno contesto
della realtà contemporanea.
12. Priorità del lavoro.
a) Il lavoro ha la priorità nei confronti del capitale.
Di fronte all'odierna realtà, nella cui struttura si trovano così profondamente
in scritti tanti conflitti causati dall'uomo, e nella quale i mezzi tecnici -
frutto del lavoro umano - giocano un ruolo primario (si pensi qui anche alla
prospettiva di un cataclisma mondiale nell'eventualità di una guerra nucleare
dalle possibilità distruttive quasi inimmaginabili), si deve prima di tutto
ricordare un principio sempre insegnato dalla Chiesa. Questo è il principio
della priorità del lavoro nei confronti del capitale. Questo principio riguarda
direttamente il processo stesso di produzione, in rapporto al quale il lavoro è
sempre una causa efficiente primaria, mentre il capitale, essendo l'insieme dei
mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale. Questo
principio è verità evidente che risulta da tutta l'esperienza storica dell'uomo.
Quando nel primo capitolo della Bibbia sentiamo che l'uomo deve soggiogare la
terra, noi sappiamo che queste parole si riferiscono a tutte le risorse, che il
mondo visibile racchiude in sé, messe a disposizione dell'uomo. Tuttavia, tali
risorse non possono servire all'uomo se non mediante il lavoro. Col lavoro
rimane pure legato sin dall'inizio il problema della proprietà: infatti, per far
servire a sé e agli altri le risorse nascoste nella natura, l'uomo ha come unico
mezzo il suo lavoro. É per poter far fruttificare queste risorse per il tramite
del suo lavoro, l'uomo si appropria di piccole parti delle diverse ricchezze
della natura: del sottosuolo, del mare, della terra, dello spazio. Di tutto
questo egli si appropria facendone il suo banco di lavoro. Se ne appropria
mediante il lavoro e per un ulteriore lavoro. Lo stesso principio si applica
alle fasi successive di questo processo, nel quale la prima fase rimane sempre
la relazione dell'uomo con le risorse e con le ricchezze della natura. Tutto lo
sforzo conoscitivo, tendente a scoprire queste ricchezze, a individuare le varie
possibilità della loro utilizzazione da parte dell'uomo e per l'uomo, ci rende
consapevoli che tutto ciò che nell'intera opera di produzione economica proviene
dall'uomo, sia il lavoro come pure l'insieme dei mezzi di produzione e la
tecnica collegata con essi (cioè la capacità di adoperare questi mezzi nel
lavoro), suppone queste ricchezze e risorse del mondo visibile, che l'uomo
trova, ma non crea. Egli le trova, in un certo senso, già pronte, preparate per
la scoperta conoscitiva e per la corretta utilizzazione nel processo produttivo.
In ogni fase dello sviluppo del suo lavoro, l'uomo si trova di fronte al fatto
della principale donazione da parte della natura, e cioè in definitiva da parte
del Creatore. All'inizio del lavoro umano sta il mistero della creazione. Questa
affermazione, già indicata come punto di partenza, costituisce il filo
conduttore di questo documento, e verrà sviluppata ulteriormente nell'ultima
parte delle presenti riflessioni.
b) I mezzi di produzione sono il frutto del patrimonio storico del lavoro umano.
La successiva considerazione dello stesso problema deve confermarci nella
convinzione circa la priorità del lavoro umano in rapporto a ciò che, col passar
del tempo, si è abituati a chiamare capitale. Se infatti nell'ambito di quest'ultimo
concetto rientrano, oltre che le risorse della natura messe a disposizione
dell'uomo, anche quell'insieme di mezzi, mediante i quali l'uomo se ne
appropria, trasformandole a misura delle sue necessità (e in questo modo, in
qualche senso, umanizzandole ), allora già qui si deve constatare che quell'insieme
di mezzi è frutto del patrimonio storico del lavoro umano. Tutti i mezzi di
produzione, dai più primitivi fino a quelli ultramoderni, è l'uomo che li ha
gradualmente elaborati: l'esperienza e l'intelletto dell'uomo. In questo modo
sono sorti non solo gli strumenti più semplici che servono alla coltivazione
della terra, ma anche - con un adeguato progresso della scienza e della tecnica
- quelli più moderni e complessi: le macchine le fabbriche, i laboratori e i
computers. Così, tutto ciò che serve al lavoro, tutto ciò che costituisce - allo
stato odierno della tecnica - il suo strumento sempre più perfezionato, è frutto
del lavoro. Questo gigantesco e potente strumento - l'insieme dei mezzi di
produzione, che sono considerati, in un certo senso, come sinonimo di capitale
-, è nato dal lavoro e porta su di sé i segni del lavoro umano. Al presente
grado di avanzamento della tecnica, l'uomo, che è il soggetto del lavoro,
volendo servirsi di quest'insieme di moderni strumenti, ossia dei mezzi di
produzione, deve prima assimilare sul piano della conoscenza il frutto del
lavoro degli uomini che hanno scoperto quegli strumenti, che li hanno
programmati, costruiti e perfezionati, e che continuano a farlo. La capacità di
lavoro - cioè di partecipazione efficiente al moderno processo di produzione -
esige una preparazione sempre maggiore e, prima di tutto, una adeguata
istruzione. Resta chiaro ovviamente che ogni uomo, che partecipa al processo di
produzione, anche nel caso che esegua solo quel tipo di lavoro, per il quale non
sono necessari una particolare istruzione e speciali qualificazioni, e tuttavia
in questo processo di produzione il vero soggetto efficiente, mentre l'insieme
degli strumenti, anche il più perfetto in se stesso è solo ed esclusivamente
strumento subordinato al lavoro dell'uomo. Questa verità, che appartiene al
patrimonio stabile della dottrina della Chiesa, deve esser sempre sottolineata
in relazione al problema del sistema di lavoro, ed anche di tutto il sistema
socio-economico. Bisogna sottolineare e mettere in risalto il primato dell'uomo
nel processo di produzione, il primato dell'uomo di fronte alle cose. Tutti ciò
che e contenuto nel concetto di capitale - in senso ristretto - è solamente un
insieme di cose. L'uomo come soggetto del lavoro, ed indipendentemente dal
lavoro che compie, l'uomo, egli solo, è una persona. Questa verità contiene in
sé conseguenze importanti e decisive.
13. Economismo e materialismo.
a) Occorre superare l'antinomia tra capitale e lavoro.
Prima di tutto, alla luce di questa verità, si vede chiaramente che non si può
separare il capitale dal lavoro, e che in nessun modo si può contrapporre il
lavoro al capitale né il capitale al lavoro, né ancora meno - come si spiegherà
più avanti - gli uomini concreti, che sono dietro a questi concetti, gli uni
agli altri. Retto, cioè conforme all'essenza stessa del problema; retto, cioè
intrinsecamente vero e al tempo stesso moralmente legittimo, può essere quel
sistema di lavoro che alle sue stesse basi supera l'antinomia tra lavoro e
capitale, cercando di strutturarsi secondo il principio sopra esposto della
sostanziale ed effettiva priorità del lavoro, della soggettività del lavoro
umano e della sua efficiente partecipazione a tutto il processo di produzione, e
ciò indipendentemente dalla natura delle prestazioni che sono eseguite dal
lavoratore. L'antinomia tra lavoro e capitale non ha la sua sorgente nella
struttura dello stesso processo di produzione, e neppure in quella del processo
economico. In generale questo processo dimostra, infatti, la reciproca
compenetrazione tra il lavoro e ciò che siamo abituati a chiamare il capitale;
dimostra il loro legame indissolubile. L'uomo, lavorando a qualsiasi banco di
lavoro, sia esso relativamente primitivo oppure ultra-moderno, può rendersi
conto facilmente che col suo lavoro entra in un duplice patrimonio, cioè nel
patrimonio di ciò che è dato a tutti gli uomini nelle risorse della natura, e di
ciò che gli altri hanno già in precedenza elaborato sulla base di queste
risorse, prima di tutto sviluppando la tecnica, cioè formando un insieme di
strumenti di lavoro sempre più perfetti: l'uomo, lavorando, al tempo stesso
subentra nel lavoro degli altri. Accettiamo senza difficoltà una tale immagine
del campo e del processo del lavoro umano, guidati sia dall'intelligenza sia
dalla fede che attinge la luce dalla Parola di Dio. É questa un'immagine
coerente, teologica ed insieme umanistica. L'uomo è in essa il padrone delle
creature, che sono messe a sua disposizione nel mondo visibile. Se nel processo
del lavoro si scopre qualche dipendenza, questa è la dipendenza dal Datore di
tutte le risorse della creazione, ed è a sua volta la dipendenza da altri
uomini, da coloro al cui lavoro ed alle cui iniziative dobbiamo le già
perfezionate e ampliate possibilità del nostro lavoro. Di tutto ciò che nel
processo di produzione costituisce un insieme di cose, degli strumenti, del
capitale, possiamo solo affermare che esso condiziona il lavoro dell'uomo; non
possiamo, invece, affermare che esso costituisca quasi il soggetto anonimo che
rende dipendente l'uomo e il suo lavoro.
b) L'errore dell'economismo è stato quello di contrapporre il capitale al lavoro
e viceversa.
La rottura di questa coerente immagine, nella quale è strettamente salvaguardato
il principio del primato della persona sulle cose, si è compiuta nel pensiero
umano, talvolta dopo un lungo periodo di incubazione nella vita pratica. E si è
compiuta in modo tale che il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto
al capitale, e il capitale contrapposto al lavoro, quasi come due forze anonime,
due fattori di produzione messi insieme nella stessa prospettiva economistica.
In tale impostazione del problema vi era l'errore fondamentale, che si può
chiamare l'errore dell'economismo, se si considera il lavoro umano
esclusivamente secondo la sua finalità economica. Si può anche e si deve
chiamare questo errore fondamentale del pensiero un errore del materialismo, in
quanto l'economismo include, direttamente o indirettamente, la convinzione del
primato e della superiorità di ciò che è materiale, mentre invece esso colloca
ciò che è spirituale e personale (l'operare dell'uomo, i valori morali e
simili), direttamente o indirettamente, in una posizione subordinata alla realtà
materiale. Questo non è ancora il materialismo teorico nel pieno senso della
parola; però, è già certamente materialismo pratico, il quale, non tanto in
virtù delle premesse derivanti dalla teoria materialistica, quanto in virtù di
un determinato modo di valutare, quindi di una certa gerarchia dei beni, basata
sulla immediata e maggiore attrattiva di ciò che è materiale, è giudicato capace
di appagare i bisogni dell'uomo.
c) L'economismo è una causa dell'impostazione non umanistica del problema del
lavoro.
L'errore di pensare secondo le categorie dell'economismo è andato di pari passo
col sorgere della filosofia materialistica, con lo sviluppo di questa filosofia
dalla fase più elementare e comune (chiamata anche materialismo volgare, perché
pretende di ridurre la realtà spirituale ad un fenomeno superfluo) alla fase del
cosiddetto materialismo dialettico. Sembra tuttavia che - nel quadro delle
presenti riflessioni -, per il fondamentale problema del lavoro umano e, in
particolare, per quella separazione e contrapposizione tra lavoro e capitale,
come tra due fattori della produzione considerati in quella stessa prospettiva
economistica, di cui sopra, l'economismo abbia avuto un'importanza decisiva ed
abbia influito, proprio su tale impostazione non-umanistica di questo problema,
prima del sistema filosofico materialistico. Nondimeno, è cosa evidente che il
materialismo, anche nella sua forma dialettica, non è in grado di fornire alla
riflessione sul lavoro umano basi sufficienti e definitive perché il primato
dell'uomo sullo strumento-capitale, il primato della persona sulle cose, possa
trovare in esso un'adeguata ed irrefutabile verifica e appoggio. Anche nel
materialismo dialettico l'uomo non è, prima di tutto, soggetto del lavoro e
causa efficiente del processo di produzione, ma rimane
inteso e trattato in
dipendenza da ciò che è materiale come una specie di risultante dei rapporti
economici e di produzione, predominanti in una data epoca.
d) L'antinomia tra lavoro e capitale è sorta soprattutto dal desiderio smodato
di arricchimento.
Evidentemente l'antinomia tra lavoro e capitale qui considerata - l'antinomia
nel cui quadro il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto ad esso,
in un certo senso anticamente, come se fosse un elemento qualsiasi del processo
economico - ha inizio non solamente nella filosofia e nelle teorie economiche
del secolo XVIII, ma molto più ancora in tutta la prassi economico-sociale di
quel tempo, che era quello dell'industrializzazione che nasceva e si sviluppava
precipitosamente, nella quale si scopriva in primo luogo la possibilità di
moltiplicare grandemente le ricchezze materiali, cioè i mezzi, ma si perdeva di
vista il fine, cioè l'uomo, al quale questi mezzi devono servire. Proprio questo
errore di ordine pratico ha colpito prima di tutto il lavoro umano, l'uomo del
lavoro, e ha causato la reazione sociale, eticamente giusta, della quale si è
già parlato. Lo stesso errore, che ormai ha il suo determinato aspetto storico,
legato col periodo del primitivo capitalismo e liberalismo, può però ripetersi
in altre circostanze di tempo e di luogo, se si parte, nel ragionamento, dalle
stesse premesse sia teoriche che pratiche. Non si vede altra possibilità di un
superamento radicale di questo errore, se non intervengono adeguati cambiamenti
sia nel campo della teoria, come in quello della pratica, cambiamenti che
procedano su una linea di decisa convinzione del primato della persona sulle
cose, del lavoro dell'uomo sul capitale come insieme dei mezzi di produzione.
14. Lavoro e proprietà.
a) Il pensiero della Chiesa su lavoro e proprietà differisce sia dal marxismo
che dal capitalismo.
Il processo storico - qui brevemente presentato - che è certo uscito dalla sua
fase iniziale ma che continua ad essere in vigore, anzi ad estendersi nei
rapporti tra le nazioni e i continenti, esige una precisazione anche da un altro
punto di vista. É evidente che, quando si parla dell'antinomia tra lavoro e
capitale non si tratta solo di concetti astratti o di forze anonime operanti
nella produzione economica. Dietro l'uno e l'altro concetto ci sono gli uomini,
gli uomini vivi, concreti. da una parte coloro che eseguono il lavoro senza
essere proprietari dei mezzi di produzione, e dall'altra coloro che fungono da
imprenditori e sono proprietari di questi mezzi, oppure rappresentano i
proprietari. Così, quindi nell'insieme di questo difficile processo storico sin
dall'inizio si inserisce il problema della proprietà. L'enciclica Rerum Novarum,
che ha come tema la questione sociale, pone l'accento anche su questo problema,
ricordando e confermando la dottrina della Chiesa sulla proprietà, sul diritto
di proprietà privata, anche quando si tratta dei mezzi di produzione. Lo stesso
ha fatto l'enciclica Mater et Magistra. Il suddetto principio, così come fu
allora ricordato e come è tuttora insegnato dalla Chiesa, diverge radicalmente
dal programma del collettivismo, proclamato dal marxismo e realizzato in vari
Paesi del mondo nei decenni seguiti all'epoca dell'enciclica di Leone XIII.
Esso, al tempo stesso, differisce dal programma del capitalismo praticato dal
liberalismo e dai sistemi politici, che ad esso si richiamano. In questo secondo
caso, la differenza consiste nel modo di intendere lo stesso diritto di
proprietà. La tradizione cristiana non ha mai sostenuto questo diritto come un
qualcosa di assoluto ed intoccabile. Al contrario, essa l'ha sempre inteso nel
più vasto contesto del comune diritto di tutti ad usare i beni dell'intera
creazione: il diritto della proprietà privata come subordinato al diritto
dell'uso comune, alla destinazione universale dei beni.
b) La proprietà si acquista prima di tutto mediante il lavoro perché essa serva
al lavoro.
Inoltre, la proprietà secondo l'insegnamento della Chiesa non è stata mai intesa
in modo da poter costituire un motivo di contrasto sociale nel lavoro. Come è
già stato ricordato precedentemente in questo testo, la proprietà si acquista
prima di tutto mediante il lavoro perché essa serva al lavoro. Ciò riguarda in
modo particolare la proprietà dei mezzi di produzione. Il considerarli
isolatamente come un insieme di proprietà a parte al fine di contrapporlo nella
forma del capitale al lavoro e ancor più di esercitare lo sfruttamento del
lavoro, è contrario alla natura stessa di questi mezzi e del loro possesso. Essi
non possono essere posseduti contro il lavoro, non possono essere neppure
posseduti per possedere, perché l'unico titolo legittimo al loro possesso - e
ciò sia nella forma della proprietà privata, sia in quella della proprietà
pubblica o collettiva - è che essi servano al lavoro; e che conseguentemente,
servendo al lavoro, rendano possibile la realizzazione del primo principio di
quell'ordine, che è la destinazione universale dei beni e il diritto al loro uso
comune. Da questo punto di vista, quindi, in considerazione del lavoro umano e
dell'accesso comune ai beni destinati all'uomo, è anche da non escludere la
socializzazione, alle opportune condizioni, di certi mezzi di produzione. Nello
spazio dei decenni che ci separano dalla pubblicazione dell'enciclica Rerum
Novarum, l'insegnamento della Chiesa ha sempre ricordato tutti questi principi,
risalendo agli argomenti formulati nella tradizione molto più antica, per
esempio ai noti argomenti della Summa Theologiae di San Tommaso d'Aquino.
c) Il concetto di proprietà privata dei mezzi di produzione deve essere
riveduto.
Nel presente documento, che ha come tema principale il lavoro umano, conviene
confermare tutto lo sforzo con cui l'insegnamento della Chiesa sulla proprietà
ha cercato e cerca sempre di assicurare il primato del lavoro e, per ciò stesso,
la soggettività dell'uomo nella vita sociale e, specialmente, nella struttura
dinamica di tutto il processo economico. Da questo punto di vista, continua a
rimanere inaccettabile la posizione del rigido capitalismo, il quale difende
l'esclusivo diritto della proprietà privata dei mezzi di produzione come un
dogma intoccabile nella vita economica. Il principio del rispetto del lavoro
esige che questo diritto sia sottoposto ad una revisione costruttiva, sia in
teoria che in pratica. Se infatti è una verità che il capitale, come l'insieme
dei mezzi di produzione, è al tempo stesso il prodotto del lavoro di
generazioni, allora è parimente vero che esso si crea incessantemente grazie al
lavoro effettuato con l'aiuto di quest'insieme dei mezzi di produzione, che
appaiono come un grande banco di lavoro, al quale s'impegna, giorno per giorno,
la presente generazione dei lavoratori. Si tratta qui, ovviamente, delle varie
specie di lavoro, non solo del cosiddetto lavoro manuale, ma anche del
molteplice lavoro intellettuale, da quello di concetto a quello direttivo.
d) Numerose le proposte della dottrina sociale della Chiesa circa la
comproprietà dei mezzi di lavoro e la gestione delle imprese.
In questa luce acquistano un significato di particolare rilievo le numerose
proposte avanzate dagli esperti della dottrina sociale cattolica ed anche dal
supremo Magistero della Chiesa. Sono, queste, le proposte riguardanti la
comproprietà dei mezzi di lavoro, la partecipazione dei lavoratori alla gestione
e/o ai profitti delle imprese, il cosiddetto azionariato del lavoro, e simili.
Indipendentemente dall'applicabilità concreta di queste diverse proposte, rimane
evidente che il riconoscimento della giusta posizione del lavoro e dell'uomo del
lavoro nel processo produttivo esige vari adattamenti nell'ambito dello stesso
diritto della proprietà dei mezzi di produzione; e ciò prendendo in
considerazione non solo le situazioni più antiche, ma prima di tutto la realtà e
la problematica, che si è creata nella seconda metà del secolo in corso, per
quanto riguarda il cosiddetto Terzo Mondo ed i vari nuovi Paesi indipendenti che
son sorti, specialmente ma non soltanto in Africa, al posto dei territori
coloniali di una volta.
e) La proprietà privata dei mezzi di produzione non può essere eliminata
aprioristicamente.
Se dunque la posizione del rigido capitalismo deve essere continuamente
sottoposta a revisione in vista di una riforma sotto l'aspetto dei diritti
dell'uomo, intesi nel modo più vasto e connessi con il suo lavoro, allora dallo
stesso punto di vista si deve affermare che queste molteplici e tanto desiderate
riforme non possono essere realizzate mediante l'eliminazione aprioristica della
proprietà privata dei mezzi di produzione. Occorre, infatti, osservare che la
semplice sottrazione di quei mezzi di produzione (il capitale) dalle mani dei
loro proprietari privati non è sufficiente per socializzarli in modo
soddisfacente. Essi cessano di essere proprietà di un certo gruppo sociale, cioè
dei proprietari privati, per diventare proprietà della società organizzata,
venendo sottoposti all'amministrazione ed al controllo diretto di un altro
gruppo di persone, di queste cioè che, pur non avendone la proprietà, ma
esercitando il potere nella società, dispongono di essi al livello dell'intera
economia nazionale oppure dell'economia locale.
f) Uno Stato attua una vera socializzazione solo se ogni lavoratore si sente
comproprietario degli strumenti del proprio lavoro.
Questo gruppo dirigente e responsabile può assolvere i suoi compiti in modo
soddisfacente dal punto di vista del primato del lavoro - ma può anche
adempierli male, rivendicando al tempo stesso per sé il monopolio
dell'amministrazione e della disposizione dei mezzi di produzione e non
arrestandosi neppure davanti all'offesa dei fondamentali diritti dell'uomo.
Così, quindi, il solo passaggio dei mezzi di produzione in proprietà dello
Stato, nel sistema collettivistico, non è certo equivalente alla socializzazione
di questa proprietà. Si può parlare di socializzazione solo quando sia
assicurata la soggettività della società, cioè quando ognuno, in base al proprio
lavoro, abbia il pieno titolo di considerarsi al tempo stesso il
com-proprietario del grande banco di lavoro, al quale s'impegna insieme con
tutti. E una via verso tale traguardo potrebbe essere quella di associare, per
quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale e di dar vita a una
ricca gamma di corpi intermedi a finalità economiche, sociali, culturali: corpi
che godano di una effettiva autonomia nei confronti dei pubblici poteri, che
perseguano i loro specifici obiettivi in rapporti di leale collaborazione
vicendevole, subordinatamente alle esigenze del bene comune, e che presentino
forma e sostanza di una viva comunità, cioè che in essi i rispettivi membri
siano considerati e trattati come persone e stimolati a prendere parte attiva
alla loro vita.
15. Argomento personalistico.
a) La priorità del lavoro nei confronti del capitale discende dalla morale
sociale.
Così, quindi, il principio della priorità del lavoro nei confronti del capitale
è un postulato appartenente all'ordine della morale sociale. Tale postulato ha
la sua importanza-chiave tanto nel sistema costruito sul principio della
proprietà privata dei mezzi di produzione, quanto nel sistema in cui la
proprietà privata di questi mezzi è stata limitata anche radicalmente. Il lavoro
è, in un certo senso, inseparabile dal capitale e non accetta sotto nessuna
forma quell'antinomia, cioè la separazione e la contrapposizione in rapporto ai
mezzi di produzione, che ha gravato sopra la vita umana negli ultimi secoli,
come risultato di premesse unicamente economiche. Quando l'uomo lavora
servendosi dell'insieme dei mezzi di produzione, egli al tempo stesso desidera
che i frutti di questo lavoro servano a lui e agli altri e che, nel processo
stesso del lavoro, possa apparire come corresponsabile e co-artefice al banco di
lavoro, presso il quale si applica.
b) Secondo l'insegnamento della Chiesa il lavoro umano riguarda sia l'economia
che le persone.
Da ciò nascono alcuni specifici diritti dei lavoratori, che corrispondono
all'obbligo del lavoro. Se ne parlerà in seguito. Ma già qui bisogna
sottolineare, in generale, che l'uomo che lavora desidera non solo la debita
remunerazione per il suo lavoro, ma anche che sia presa in considerazione nel
processo stesso di produzione la possibilità che egli lavorando, anche in una
proprietà comune, al tempo stesso sappia di lavorare in proprio. Questa
consapevolezza viene spenta in lui nel sistema di un'eccessiva centralizzazione
burocratica, nella quale il lavoratore si sente un ingranaggio di un grande
meccanismo mosso dall'alto e - a più di un titolo - un semplice strumento di
produzione piuttosto che un vero soggetto di lavoro, dotato di propria
iniziativa. L'insegnamento della Chiesa ha sempre espresso la ferma e profonda
convinzione che il lavoro umano non riguarda soltanto l'economia, ma coinvolge
anche, e soprattutto, i valori personali. Il sistema economico stesso e il
processo di produzione traggono vantaggio proprio quando questi valori personali
sono pienamente rispettati. Secondo il pensiero di San Tommaso d'Aquino, è
soprattutto questa ragione che depone in favore della proprietà privata dei
mezzi stessi di produzione. Se accettiamo che per certi, fondati motivi,
eccezioni possono essere fatte al principio della proprietà privata - e nella
nostra epoca siamo addirittura testimoni che è stato introdotto il sistema della
proprietà socializzata - tuttavia l'argomento personalistico non perde la sua
forza né a livello di principi, né a livello pratico. Per essere razionale e
fruttuosa, ogni socializzazione dei mezzi di produzione deve prendere in
considerazione questo argomento. Si deve fare di tutto perché l'uomo, anche in
un tale sistema, possa conservare la consapevolezza di lavorare in proprio. In
caso contrario, in tutto il processo economico sorgono necessariamente danni
incalcolabili, e danni non solo economici, ma prima di tutto danni nell'uomo.
IV. DIRITTI DEGLI UOMINI DEL LAVORO
16. Nel vasto contesto dei diritti dell'uomo.
a) Il rispetto dei diritti umani è la condizione fondamentale per la pace nel
mondo contemporaneo.
Se il lavoro - nel molteplice senso di questa parola - è un obbligo, cioè un
dovere, al tempo stesso esso è anche una sorgente di diritti da parte del
lavoratore. Questi diritti devono essere esaminati nel vasto contesto
dell'insieme dei diritti dell'uomo, che gli sono connaturali, molti dei quali
sono proclamati da varie istanze internazionali e sempre maggiormente garantiti
dai singoli Stati per i propri cittadini. Il rispetto di questo vasto insieme di
diritti dell'uomo costituisce la condizione fondamentale per la pace nel mondo
contemporaneo: per la pace sia all'interno dei singoli Paesi e società, sia
nell'ambito dei rapporti internazionali, come è già stato notato molte volte dal
Magistero della Chiesa, specialmente dal tempo dell'enciclica Pacem in terris. I
diritti umani che scaturiscono dal lavoro rientrano precisamente nel più vasto
contesto di quei fondamentali diritti della persona.
b) Obbligo morale del lavoro per ogni uomo.
Tuttavia, nell'ambito di questo contesto, essi hanno un carattere specifico,
rispondente alla specifica natura del lavoro umano delineata precedentemente, e
proprio secondo questo carattere occorre guardarli. Il lavoro è - come è stato
detto - un obbligo, cioè un dovere dell'uomo, e ciò nel molteplice senso di
questa parola. L'uomo deve lavorare sia per il fatto che il Creatore gliel'ha
ordinato, sia per il fatto della sua stessa umanità, il cui mantenimento e
sviluppo esigono il lavoro. L'uomo deve lavorare per riguardo al prossimo,
specialmente per riguardo alla propria famiglia, ma anche alla società, alla
quale appartiene, alla nazione, della quale è figlio o figlia, all'intera
famiglia umana, di cui è membro, essendo erede del lavoro di generazioni e
insieme co-artefice del futuro di coloro che verranno dopo di lui nel succedersi
della storia. Tutto ciò costituisce l'obbligo morale del lavoro, inteso nella
sua ampia accezione. Quando occorrerà considerare i diritti morali di ogni uomo
per riguardo al lavoro, corrispondenti a questo obbligo, si dovrà avere sempre
davanti agli occhi l'intero vasto raggio di riferimenti, nei quali si manifesta
il lavoro di ogni soggetto lavorante. Infatti, parlando dell'obbligo del lavoro
e dei diritti del lavoratore corrispondenti a questo obbligo, noi abbiamo in
mente, prima di tutto, il rapporto tra il datore di lavoro - diretto o indiretto
- e il lavoratore stesso. La distinzione tra datore di lavoro diretto ed
indiretto pare molto importante in considerazione sia della reale organizzazione
del lavoro, sia della possibilità del formarsi di giusti od ingiusti rapporti
nel settore del lavoro. Se il datore di lavoro diretto è quella persona o
istituzione, con la quale il lavoratore stipula direttamente il contratto di
lavoro secondo determinate condizioni, allora come datore di lavoro indiretto si
devono intendere molti fattori differenziati, oltre il datore di lavoro diretto,
che esercitano un determinato influsso sul modo in cui si formano sia il
contratto di lavoro, sia, in conseguenza, i rapporti più o meno giusti nel
settore del lavoro umano.
17. Datore di lavoro: indiretto e diretto.
a) Le responsabilità morali verso i lavoratori valgono anche per il datore di
lavoro indiretto.
Nel concetto di datore di lavoro indiretto entrano sia le persone sia le
istituzioni di vario tipo, come anche i contratti collettivi di lavoro e i
principi di comportamento, stabiliti da queste persone ed istituzioni, i quali
determinano tutto il sistema socio-economico o da esso risultano. Il concetto di
datore di lavoro indiretto si riferisce così a molti e vari elementi. La
responsabilità del datore di lavoro indiretto è diversa da quella del datore di
lavoro diretto - come indica la stessa parola: la responsabilità è meno diretta
-,ma essa rimane una vera responsabilità: il datore di lavoro indiretto
determina sostanzialmente l'uno o l'altro aspetto del rapporto di lavoro, e
condiziona in tal modo il comportamento del datore di lavoro diretto, quando
quest'ultimo determina concretamente il contratto ed i rapporti di lavoro. Una
constatazione del genere non ha come scopo quello di esimere quest'ultimo dalla
responsabilità che gli è propria, ma solamente di richiamare l'attenzione su
tutto l'intreccio di condizionamenti che influiscono sul suo comportamento.
Quando si tratta di stabilire una politica del lavoro corretta dal punto di
vista etico, bisogna tenere davanti agli occhi tutti questi condizionamenti. Ed
essa è corretta, allorché sono pienamente rispettati gli oggettivi diritti
dell'uomo del lavoro.
b) Lo Stato come primo datore di lavoro indiretto deve condurre una giusta
politica del lavoro.
Il concetto di datore di lavoro indiretto si può applicare ad ogni singola
società e, prima di tutto, allo Stato. É, infatti, lo Stato che deve condurre
una giusta politica del lavoro. É noto, però, che nel presente sistema dei
rapporti economici nel mondo, si verificano tra i singoli Stati molteplici
collegamenti, che si esprimono per esempio nel processo d'importazione e
d'esportazione, cioè nel reciproco scambio dei beni economici, siano essi le
materie prime, o i semilavorati, o, infine, i prodotti industriali finiti.
Questi rapporti creano anche reciproche dipendenze e, di conseguenza, sarebbe
difficile parlare di piena autosufficienza, cioè di autarchia, in riferimento a
qualunque Stato, fosse pure il più potente in senso economico. Un tale sistema
di reciproca dipendenza è normale in se stesso: tuttavia, può facilmente
diventare occasione di varie forme di sfruttamento o di ingiustizia, e, di
conseguenza, influire sulla politica di lavoro dei singoli Stati ed, in ultima
analisi, sul singolo lavoratore, che è il soggetto proprio del lavoro. Ad
esempio i Paesi altamente industrializzati e, più ancora, le imprese che
dirigono su grande scala i mezzi di produzione industriale (le cosiddette
società multinazionali o transnazionali), dettano i prezzi più alti possibili
per i loro prodotti, cercando contemporaneamente di stabilire i prezzi più bassi
possibili per le materie prime o per i semilavorati, il che, fra altre cause,
crea come risultato una sproporzione sempre crescente tra i redditi nazionali
dei rispettivi Paesi. La distanza tra la maggior parte dei Paesi ricchi e i
Paesi più poveri non diminuisce e non si livella, ma aumenta sempre di più,
ovviamente a scapito di questi ultimi. É evidente che ciò non può rimanere senza
effetto sulla politica locale del lavoro e sulla situazione dell'uomo del lavoro
nelle società economicamente svantaggiate. Il datore diretto di lavoro,
trovandosi in un simile sistema di condizionamenti, fissa le condizioni del
lavoro al di sotto delle oggettive esigenze dei lavoratori, specialmente se egli
stesso vuole trarre i profitti più alti possibili dall'impresa da lui condotta
(oppure dalle imprese da lui condotte, se si tratta di una situazione di
proprietà socializzata dei mezzi di produzione).
c) Appello agli Organismi internazionali perché contribuiscano alla salvaguardia
dei diritti oggettivi dell'uomo del lavoro.
Questo quadro delle dipendenze, relative al concetto di datore indiretto di
lavoro, è - come è facile dedurre - enormemente esteso e complicato. Per
determinarlo si deve prendere in considerazione, in un certo senso, l'insieme
degli elementi decisivi per la vita economica nel profilo di una data società e
Stato; però si deve, al tempo stesso, tener conto di collegamenti e di
dipendenze molto più vaste. La realizzazione dei diritti dell'uomo del lavoro
non può, tuttavia, essere condannata a costituire solamente un derivato dei
sistemi economici, i quali su scala più larga o più ristretta siano guidati
soprattutto dal criterio del massimo profitto. Al contrario, e precisamente il
riguardo per i diritti oggettivi dell'uomo del lavoro - di ogni tipo di
lavoratore: manuale, intellettuale, industriale, agricolo, ecc. - che deve
costituire l'adeguato e fondamentale criterio della formazione di tutta
l'economia nella dimensione sia di ogni società e di ogni Stato, sia
nell'insieme della politica economica mondiale e dei sistemi e rapporti
internazionali, che ne derivano. In questa direzione dovrebbero esercitare il
loro influsso tutte le Organizzazioni Internazionali a ciò chiamate, cominciando
dall'Organizzazione delle Nazioni Unite. Pare che l'Organizzazione Mondiale del
Lavoro (OIT), nonché l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e
l'Agricoltura (FAO) ed altre ancora, abbiano da offrire nuovi contributi
particolarmente su questo punto. Nell'ambito dei singoli Stati esistono
ministeri o dicasteri del potere pubblico ed anche vari Organismi sociali
istituiti a questo scopo. Tutto ciò indica efficacemente quale grande importanza
abbia - come è stato detto sopra - il datore di lavoro indiretto nella
realizzazione del pieno rispetto dei diritti dell'uomo del lavoro, perché i
diritti della persona umana costituiscono l'elemento chiave di tutto l'ordine
morale e sociale.
18. Il problema dell'occupazione.
a) Lo Stato ha il compito fondamentale di provvedere un'occupazione adatta per
tutti mediante una pianificazione globale.
Considerando i diritti degli uomini del lavoro proprio in relazione a questo
datore di lavoro indiretto, cioè all'insieme delle istanze a livello nazionale
ed internazionale che sono responsabili di tutto l'orientamento della politica
del lavoro, si deve prima di tutto rivolgere l'attenzione ad un problema
fondamentale. Si tratta del problema di avere un lavoro, cioè in altre parole,
del problema di un'occupazione adatta per tutti i soggetti che ne sono capaci.
L'opposto di una giusta e corretta situazione in questo settore è la
disoccupazione, cioè la mancanza di posti di lavoro per i soggetti che di esso
sono capaci. Può trattarsi di mancanza di occupazione in genere, oppure in
determinati settori di lavoro. Il compito di queste istanze, che qui si
comprendono sotto il nome di datore di lavoro indiretto, è di agire contro la
disoccupazione, la quale è in ogni caso un male e, quando assume certe
dimensioni, può diventare una vera calamità sociale. Essa diventa un problema
particolarmente doloroso, quando vengono colpiti soprattutto i giovani, i quali,
dopo essersi preparati mediante un'appropriata formazione culturale, tecnica e
professionale, non riescono a trovare un posto di lavoro e vedono penosamente
frustrate la loro sincera volontà di lavorare e la loro disponibilità ad
assumersi la propria responsabilità per lo sviluppo economico e sociale della
comunità. L'obbligo delle prestazioni in favore dei disoccupati, il dovere cioè
di corrispondere le convenienti sovvenzioni indispensabili per la sussistenza
dei lavoratori disoccupati e delle loro famiglie, è un dovere che scaturisce dal
principio fondamentale dell'ordine morale in questo campo, cioè dal principio
dell'uso comune dei beni o, parlando in un altro modo ancora più semplice, dal
diritto alla vita ed alla sussistenza. Per contrapporsi al pericolo della
disoccupazione, per assicurare a tutti un'occupazione, le istanze che sono state
qui definite come datore di lavoro indiretto devono provvedere ad una
pianificazione globale in riferimento a quel banco di lavoro differenziato,
presso il quale si forma la vita non solo economica, ma anche culturale di una
data società; esse devono fare attenzione, inoltre, alla corretta e razionale
organizzazione del lavoro a tale banco. Questa sollecitudine globale in
definitiva grava sulle spalle dello Stato, ma non può significare una
centralizzazione unilateralmente operata dai pubblici poteri. Si tratta invece
di una giusta e razionale coordinazione, nel quadro della quale deve essere
garantita l'iniziativa delle singole persone, dei gruppi liberi, dei centri e
complessi di lavoro locali, tenendo conto di ciò che e già stato detto sopra
circa il carattere soggettivo del lavoro umano.
b) Oggi è necessaria una collaborazione internazionale per la migliore
organizzazione del lavoro.
Il fatto della reciproca dipendenza delle singole società e Stati e la necessità
di collaborazione in vari settori richiedono che, mantenendo i diritti sovrani
di ciascuno di essi nel campo della pianificazione e dell'organizzazione del
lavoro nella propria società, si agisca al tempo stesso, in questo settore
importante, nella dimensione della collaborazione internazionale mediante i
necessari trattati e accordi. Anche qui è necessario che il criterio di questi
patti e di questi accordi diventi sempre più il lavoro umano, inteso come un
fondamentale diritto di tutti gli uomini, il lavoro che dà a tutti coloro che
lavorano analoghi diritti, così che il livello della vita degli uomini del
lavoro nelle singole società presenti sempre meno quelle urtanti differenze, che
sono ingiuste e atte a provocare anche violente reazioni. Le Organizzazioni
Internazionali hanno in questo settore compiti enormi da svolgere. Bisogna che
esse si lascino guidare da un'esatta diagnosi delle complesse situazioni e dei
condizionamenti naturali, storici, civili, ecc.; bisogna anche che esse, in
relazione ai piani di azione stabiliti in comune, abbiano una maggiore
operatività, cioè efficacia nella realizzazione. Su tale via si può attuare il
piano di un universale e proporzionato progresso di tutti, secondo il filo
conduttore dell'enciclica di Paolo VI Populorum progressio. Bisogna sottolineare
che l'elemento costitutivo e, al tempo stesso, la più adeguata verifica di
questo progresso nello spirito di giustizia e di pace, che la Chiesa proclama e
per il quale non cessa di pregare il Padre di tutti gli uomini e di tutti i
popoli, è proprio la continua rivalutazione del lavoro umano, sia sotto
l'aspetto della sua finalità oggettiva, sia sotto l'aspetto della dignità del
soggetto d'ogni lavoro, che è l'uomo. Il progresso, del quale si tratta, deve
compiersi mediante l'uomo e per l'uomo e deve produrre frutti nell'uomo. Una
verifica del progresso sarà il sempre più maturo riconoscimento della finalità
del lavoro e il sempre più universale rispetto dei diritti ad esso inerenti,
conformemente alla dignità dell'uomo, soggetto del lavoro.
c) Un adatto sistema di istruzione e di educazione per tutti deve unirsi ad una
utilizzazione razionale delle risorse terrestri.
Una ragionevole pianificazione ed una adeguata organizzazione del lavoro umano,
a misura delle singole società e dei singoli Stati, dovrebbero facilitare anche
la scoperta delle giuste proporzioni tra le diverse specie di occupazione: il
lavoro della terra, dell'industria, nei molteplici servizi, il lavoro di
concetto ed anche quello scientifico o artistico, secondo le capacità dei
singoli uomini e per il bene comune di ogni società e di tutta l'umanità.
All'organizzazione della vita umana secondo le molteplici possibilità del lavoro
dovrebbe corrispondere un adatto sistema di istruzione e di educazione, che
prima di tutto abbia come scopo lo sviluppo di una matura umanità, ma anche una
specifica preparazione ad occupare con profitto un giusto posto nel grande e
socialmente differenziato banco di lavoro. Gettando lo sguardo sull'intera
famiglia umana, sparsa su tutta la terra, non si può non rimanere colpiti da un
fatto sconcertante di proporzioni immense; e cioè che, mentre da una parte
cospicue risorse della natura rimangono inutilizzate, dall'altra esistono
schiere di disoccupati o di sotto-occupati e sterminate moltitudini di affamati:
un fatto che, senza dubbio, sta ad attestare che sia all'interno delle singole
comunità politiche, sia nei rapporti tra esse su piano continentale e mondiale
-per quanto concerne l'organizzazione del lavoro e dell'occupazione vi è
qualcosa che non funziona, e proprio nei punti più critici e di maggiore
rilevanza sociale.
19. Salario e altre prestazioni sociali.
a) Una giusta remunerazione del lavoro è il problema chiave dell'etica sociale.
Dopo aver delineato il ruolo importante, che ha l'impegno di dare un'occupazione
a tutti i lavoratori - al fine di garantire il rispetto degli inalienabili
diritti dell'uomo in considerazione del suo lavoro - conviene toccare più da
vicino questi diritti, i quali, in definitiva, si formano nel rapporto tra il
lavoratore e il datore di lavoro diretto. Tutto ciò che è stato detto finora sul
tema del datore di lavoro indiretto ha come scopo di precisare più da vicino
proprio questi rapporti mediante la dimostrazione di quei molteplici
condizionamenti, nei quali essi indirettamente si formano. Questa
considerazione, però, non ha un significato puramente descrittivo; essa non è un
breve trattato di economia o di politica. Si tratta di mettere in evidenza
l'aspetto deontologico e morale. Il problema-chiave dell'etica sociale, in
questo caso, è quello della giusta remunerazione per il lavoro che viene
eseguito. Non c'è nel contesto attuale un altro modo più importante per
realizzare la giustizia nei rapporti lavoratore-datore di lavoro, di quello
costituito appunto dalla remunerazione del lavoro. Indipendentemente dal fatto
che questo lavoro si effettui nel sistema della proprietà privata dei mezzi di
produzione oppure in un sistema, nel quale questa proprietà ha subìto una specie
di socializzazione, il rapporto tra il datore di lavoro (prima di tutto diretto)
e il lavoratore si risolve in base al salario, cioè mediante la giusta
remunerazione del lavoro che è stato eseguito.
b) Il giusto salario rimane la via concreta per accedere all'uso comune dei
beni.
Occorre anche rilevare come la giustizia di un sistema socio-economico e, in
ogni caso, il suo giusto funzionamento meritino, in definitiva, di essere
valutati secondo il modo in cui il lavoro umano è in quel sistema equamente
remunerato. A questo punto arriviamo di nuovo al primo principio di tutto
l'ordinamento etico-sociale, e cioè al principio dell'uso comune dei beni. In
ogni sistema, senza riguardo ai fondamentali rapporti esistenti tra il capitale
e il lavoro, il salario, cioè la remunerazione del lavoro, rimane una via
concreta, attraverso la quale la stragrande maggioranza degli uomini può
accedere a quei beni che sono destinati all'uso comune: sia beni della natura,
sia quelli che sono frutto della produzione. Gli uni e gli altri diventano
accessibili all'uomo del lavoro grazie al salario, che egli riceve come
remunerazione per il suo lavoro. Di qui, proprio il giusto salario diventa in
ogni caso concreta verifica della giustizia di tutto il sistema socio-economico
e, ad ogni modo, del suo giusto funzionamento. Non è questa l'unica verifica, ma
è particolarmente importante ed è, in un certo senso, la verifica-chiave. Questa
verifica riguarda soprattutto la famiglia. Una giusta remunerazione per il
lavoro della persona adulta, che ha responsabilità di famiglia, è quella che
sarà sufficiente per fondare e mantenere degnamente una famiglia e per
assicurarne il futuro. Tale remunerazione può realizzarsi sia per il tramite del
cosiddetto salario familiare - cioè un salario unico dato al capofamiglia per il
suo lavoro, e sufficiente per il bisogno della famiglia, senza la necessità di
far assumere un lavoro retributivo fuori casa alla coniuge -, sia per il tramite
di altri provvedimenti sociali, come assegni familiari o contributi alla madre
che si dedica esclusivamente alla famiglia, contributi che devono corrispondere
alle effettive necessità, cioè al numero delle persone a carico per tutto il
tempo che esse non siano in grado di assumersi degnamente la responsabilità
della propria vita.
c) Per la vera promozione della donna necessita la rivalutazione sociale dei
suoi compiti materni.
L'esperienza conferma che bisogna adoperarsi per la rivalutazione sociale dei
compiti materni, della fatica ad essi unita e del bisogno che i figli hanno di
cura, di amore e di affetto per potersi sviluppare come persone responsabili,
moralmente e religiosamente mature e psicologicamente equilibrate. Tornerà ad
onore della società rendere possibile alla madre - senza ostacolarne la libertà,
senza discriminazione psicologica o pratica, senza penalizzazione nei confronti
delle sue compagne - di dedicarsi alla cura e all'educazione dei figli secondo i
bisogni differenziati della loro età. L'abbandono forzato di tali impegni, per
un guadagno retributivo fuori della casa, è scorretto dal punto di vista del
bene della società e della famiglia, quando contraddica o renda difficili tali
scopi primari della missione materna. In tale contesto si deve sottolineare che,
in via più generale, occorre organizzare e adattare tutto il processo lavorativo
in modo che vengano rispettate le esigenze della persona e le sue forme di vita,
innanzitutto della sua vita domestica, tenendo conto dell'età e del sesso di
ciascuno. É un fatto che in molte società le donne lavorano in quasi tutti i
settori della vita. Conviene, però, che esse possano svolgere pienamente le loro
funzioni secondo l'indole ad esse propria, senza discriminazioni e senza
esclusione da impieghi dei quali sono capaci, ma anche senza venir meno al
rispetto per le loro aspirazioni familiari e per il ruolo specifico che ad esse
compete nel contribuire al bene della società insieme con l'uomo. La vera
promozione della donna esige che il lavoro sia strutturato in tal modo che essa
non debba pagare la sua promozione con l'abbandono della famiglia, nella quale
ha come madre un ruolo insostituibile.
d) Assicurare le altre prestazioni sociali necessarie per la vita e la salute
dei lavoratori e delle loro famiglie.
Accanto al salario, qui entrano in gioco ancora varie prestazioni sociali,
aventi come scopo quello di assicurare la vita e la salute dei lavoratori e
quelle della loro famiglia. Le spese riguardanti le necessità della cura della
salute, specialmente in caso di incidenti sul lavoro esigono che il lavoratore
abbia facile accesso all'assistenza sanitaria, e ciò, in quanto possibile, a
basso costo, o addirittura gratuitamente. Un altro settore, che riguarda le
prestazioni, è quello collegato al diritto al riposo: prima di tutto, si tratta
qui del regolare riposo settimanale, comprendente almeno la Domenica, ed inoltre
un riposo più lungo, cioè le cosiddette ferie una volta all'anno, o
eventualmente più volte durante l'anno per periodi più brevi. Infine si tratta
qui del diritto alla pensione e all'assicurazione per la vecchiaia ed in caso di
incidenti collegati alla prestazione lavorativa. Nell'ambito di questi diritti
principali, si sviluppa tutto un sistema di diritti particolari, che insieme con
la remunerazione per il lavoro decidono della corretta impostazione di rapporti
tra il lavoratore e il datore di lavoro. Tra questi diretti va sempre tenuto
presente quello ad ambienti di lavoro ed a processi produttivi, che non rechino
pregiudizio alla sanità fisica dei lavoratori e non ledano la loro integrità
morale.
20. L'importanza dei sindacati.
a) Il sindacato operaio è sorto nel sec. XIX per la difesa degli interessi di
ogni singola professione.
Sulla base di tutti questi diritti, insieme con la necessità di assicurarli da
parte degli stessi lavoratori, ne sorge ancora un altro: vale a dire, il diritto
di associarsi, cioè di formare associazioni o unioni, che abbiano come scopo la
difesa degli interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni.
Queste unioni hanno il nome di sindacati. Gli interessi vitali degli uomini del
lavoro sono fino ad un certo punto comuni per tutti; nello stesso tempo, però,
ogni tipo di lavoro, ogni professione possiede una propria specificità, che in
queste organizzazioni dovrebbe trovare il suo proprio riflesso particolare. I
sindacati trovano la propria ascendenza, in un certo senso, già nelle
corporazioni artigianali medioevali, in quanto queste organizzazioni univano tra
di loro uomini appartenenti allo stesso mestiere e, quindi, in base al lavoro
che effettuavano. Al tempo stesso, però, i sindacati differiscono dalle
corporazioni in questo punto essenziale: i moderni sindacati sono cresciuti
sulla base della lotta dei lavoratori, del mondo del lavoro e, prima di tutto,
dei lavoratori industriali, per la tutela dei loro giusti diritti nei confronti
degli imprenditori e dei proprietari dei mezzi di produzione. La difesa degli
interessi esistenziali dei lavoratori in tutti i settori, nei quali entrano in
causa i loro diritti, costituisce il loro compito. L'esperienza storica insegna
che le organizzazioni di questo tipo sono un indispensabile elemento della vita
sociale, specialmente nelle moderne società industrializzate. Ciò,
evidentemente, non significa che soltanto i lavoratori dell'industria possano
istituire associazioni di questo tipo. I rappresentanti di ogni professione
possono servirsene per assicurare i loro rispettivi diritti. Esistono, quindi, i
sindacati degli agricoltori e dei lavoratori di concetto; esistono pure le
unioni dei datori di lavoro. Tutti, come già è stato detto, si dividono ancora
in successivi gruppi o sottogruppi, secondo le particolari specializzazioni
professionali.
b) Le organizzazioni sindacali debbono lottare per la giustizia sociale.
La dottrina sociale cattolica non ritiene che i sindacati costituiscano
solamente il riflesso della struttura di classe della società e che siano
l'esponente della lotta di classe, che inevitabilmente governa la vita sociale.
Sì, essi sono un esponente della lotta per la giustizia sociale, per i giusti
diritti degli uomini del lavoro a seconda delle singole professioni. Tuttavia,
questa lotta deve essere vista come un normale adoperarsi per il giusto bene: in
questo caso, per il bene che corrisponde alle necessità e ai meriti degli uomini
del lavoro, associati secondo le professioni; ma questa non è una lotta contro
gli altri. Se nelle questioni controverse essa assume anche un carattere di
opposizione agli altri, ciò avviene in considerazione del bene della giustizia
sociale, e non per la lotta, oppure per eliminare l'avversario. Il lavoro ha
come sua caratteristica che, prima di tutto, esso unisce gli uomini, ed in ciò
consiste la sua forza sociale: la forza di costruire una comunità. In
definitiva, in questa comunità devono in qualche modo unirsi tanto coloro che
lavorano, quanto coloro che dispongono dei mezzi di produzione, o che ne sono i
proprietari. Alla luce di questa fondamentale struttura di ogni lavoro - alla
luce del fatto che, in definitiva, in ogni sistema sociale il lavoro e il
capitale sono le indispensabili componenti del processo di produzione - l'unione
degli uomini per assicurarsi i diritti che loro spettano, nata dalle necessità
del lavoro, rimane un fattore costruttivo di ordine sociale e di solidarietà, da
cui non è possibile prescindere. I giusti sforzi per assicurarsi i diritti dei
lavoratori che sono uniti dalla stessa professione, devono sempre tener conto
delle limitazioni che impone la situazione economica generale del paese. Le
richieste sindacali non possono trasformarsi in una specie di egoismo di gruppo
o di classe, benché esse possano e debbano tendere pure a correggere - per
riguardo al bene comune di tutta la società - anche tutto ciò che è difettoso
nel sistema di proprietà dei mezzi di produzione o nel modo di gestirli e di
disporne. La vita sociale ed economico-sociale è certamente come un sistema di
vasi comunicanti, ed a questo sistema deve pure adattarsi ogni attività sociale,
che ha come scopo quello di salvaguardare i diritti dei gruppi particolari.
c) Compito dei sindacati non è quello di fare politica di partito.
In questo senso l'attività dei sindacati entra indubbiamente nel campo della
politica, intesa questa come una prudente sollecitudine per il bene comune. Al
tempo stesso, però, il compito dei sindacati non è di fare politica nel senso
che comunemente si dà oggi a questa espressione. I sindacati non hanno il
carattere di partiti politici che lottano per il potere, e non dovrebbero
neppure essere sottoposti alle decisioni dei partiti politici o avere dei legami
troppo stretti con essi. Infatti, in una tale situazione essi perdono facilmente
il contatto con ciò che è il loro compito specifico, che è quello di assicurare
i giusti diritti degli uomini del lavoro nel quadro del bene comune dell'intera
società, e diventano, invece, uno strumento per altri scopi. Parlando della
tutela dei giusti diritti degli uomini del lavoro a seconda delle singole
professioni, occorre naturalmente aver sempre davanti agli occhi ciò che decide
circa il carattere soggettivo del lavoro in ogni professione, ma al tempo
stesso, o prima di tutto, ciò che condiziona la dignità propria del soggetto del
lavoro. Qui si dischiudono molteplici possibilità nell'operato delle
organizzazioni sindacali, e ciò anche nel loro impegno di carattere istruttivo,
educativo e di promozione dell'autoeducazione. Benemerita è l'opera delle
scuole, delle cosiddette università operaie e popolari, dei programmi e corsi di
formazione, che hanno sviluppato e tuttora sviluppano proprio questo campo di
attività. Si deve sempre auspicare che, grazie all'opera dei suoi sindacati, il
lavoratore possa non soltanto avere di più, ma prima di tutto essere di più:
possa, cioè, realizzare più pienamente la sua umanità sotto ogni aspetto.
d) Lo sciopero deve servire ai sindacati come estremo rimedio per la difesa dei
giusti diritti dei loro membri.
Adoperandosi per i giusti diritti dei loro membri, i sindacati si servono anche
del metodo dello sciopero cioè del blocco del lavoro, come di una specie di
ultimatum indirizzato agli organi competenti e, soprattutto, ai datori di
lavoro. Questo è un metodo riconosciuto dalla dottrina sociale cattolica come
legittimo alle debite condizioni e nei giusti limiti. In relazione a ciò i
lavoratori dovrebbero avere assicurato il diritto allo sciopero, senza subire
personali sanzioni penali per la partecipazione ad esso. Ammettendo che questo è
un mezzo legittimo, si deve contemporaneamente sottolineare che lo sciopero
rimane, in un certo senso, un mezzo estremo. Non se ne può abusare; non se ne
può abusare specialmente per giochi politici. Inoltre, non si può mai
dimenticare che quando trattasi di servizi essenziali alla convivenza civile,
questi vanno, in ogni caso, assicurati mediante, se necessario, apposite misure
legali. L'abuso dello sciopero può condurre alla paralisi di tutta la vita
socio-economica, e ciò è contrario alle esigenze del bene comune della società,
che corrisponde anche alla natura rettamente intesa del lavoro stesso.
21. Dignità del lavoro agricolo.
a) Importanza fondamentale del mondo agricolo per la società intera.
Tutto ciò che è stato detto in precedenza sulla dignità del lavoro, sulla
dimensione oggettiva e soggettiva del lavoro dell'uomo, trova un'applicazione
diretta al problema del lavoro agricolo e alla situazione dell'uomo che coltiva
la terra nel duro lavoro dei campi. Si tratta, infatti, di un settore molto
vasto dell'ambiente di lavoro del nostro pianeta, non circoscritto all'uno o
all'altro continente non limitato alle società che hanno già conquistato un
certo grado di sviluppo e di progresso. Il mondo agricolo, che offre alla
società i beni necessari per il suo quotidiano sostentamento, riveste una
importanza fondamentale. Le condizioni del mondo rurale e del lavoro agricolo
non sono uguali dappertutto e diverse sono le posizioni sociali dei lavoratori
agricoli nei diversi Paesi. E ciò non dipende soltanto dal grado di sviluppo
della tecnica agricola, ma anche, e forse ancora di più, dal riconoscimento dei
giusti diritti dei lavoratori agricoli e infine, dal livello di consapevolezza
riguardante tutta l'etica sociale del lavoro.
b) Gli uomini dell'agricoltura, per le condizioni in cui spesso lavorano si
sentono socialmente emarginati.
Il lavoro dei campi conosce non lievi difficoltà, quali lo sforzo fisico
continuo e talvolta estenuante, lo scarso apprezzamento, con cui è socialmente
considerato, al punto da creare presso gli uomini dell'agricoltura il sentimento
di essere socialmente degli emarginati, e da accelerare in essi il fenomeno
della fuga in massa dalla campagna verso le città e purtroppo verso condizioni
di vita ancor più disumanizzanti. Si aggiungano la mancanza di adeguata
formazione professionale e di attrezzi appropriati, un certo individualismo
serpeggiante ed anche situazioni obiettivamente ingiuste. In taluni Paesi in via
di sviluppo, milioni di uomini sono costretti a coltivare i terreni di altri e
vengono sfruttati dai latifondisti senza la speranza di poter mai accedere al
possesso neanche di un minimo pezzo di terra in proprio. Mancano forme di tutela
legale per la persona del lavoratore agricolo e per la sua famiglia in caso di
vecchiaia, di malattia o di mancanza di lavoro. Lunghe giornate di duro lavoro
fisico vengono miseramente pagate. Terreni coltivabili vengono lasciati
abbandonati dai proprietari. titoli legali al possesso di un piccolo terreno,
coltivato in proprio da anni, vengono trascurati o rimangono senza difesa di
fronte alla fame di terra di individui o di gruppi più potenti. Ma anche nei
Paesi economicamente sviluppati, dove la ricerca scientifica, le conquiste
tecnologiche o la politica dello Stato hanno portato l'agricoltura ad un livello
molto avanzato, il diritto al lavoro può essere leso quando si nega al contadino
la facoltà di partecipare alle scelte decisionali concernenti le sue prestazioni
lavorative, o quando viene negato il diritto alla libera associazione in vista
della giusta promozione sociale, culturale ed economica del lavoratore agricolo.
In molte situazioni sono dunque necessari cambiamenti radicali ed urgenti per
ridare all'agricoltura - ed agli uomini dei campi - il giusto valore come base
di una sana economia, nell'insieme dello sviluppo della comunità sociale. Perciò
occorre proclamare e promuovere la dignità del lavoro, di ogni lavoro, e
specialmente del lavoro agricolo, nel quale l'uomo in modo tanto eloquente
soggioga la terra ricevuta in dono da Dio ed afferma il suo dominio nel mondo
visibile.
22. La persona handicappata e il lavoro.
a) L'handicappato è uno di noi e deve partecipare pienamente alla vita sociale,
svolgendo un lavoro adatto alle sue possibilità
Recentemente le comunità nazionali e le organizzazioni internazionali hanno
rivolto la loro attenzione ad un altro problema connesso col lavoro, e che è
ricco di incidenze: quello delle persone handicappate. Anche esse sono soggetti
pienamente umani, con corrispondenti diritti innati, sacri e inviolabili che pur
con le limitazioni e le sofferenze inscritte nel loro corpo e nelle loro
facoltà, pongono in maggior rilievo la dignità e la grandezza dell'uomo. Poiché
la persona portatrice di handicaps è un soggetto con tutti i suoi diritti essa
deve essere facilitata a partecipare alla vita della società in tutte le
dimensioni e a tutti i livelli, che siano accessibili alle sue possibilità. La
persona handicappata è uno di noi e partecipa pienamente alla nostra stessa
umanità. Sarebbe radicalmente indegno dell'uomo, e negazione della comune
umanità, ammettere alla vita della società, e dunque al lavoro, solo i membri
pienamente funzionali perché, così facendo, si ricadrebbe in una grave forma di
discriminazione, quella dei forti e dei sani contro i deboli ed i malati. Il
lavoro in senso oggettivo deve essere subordinato anche in questa circostanza
alla dignità dell'uomo, a; soggetto del lavoro e non al vantaggio economico.
Spetta quindi alle diverse istanze coinvolte nel mondo del lavoro, al datore
diretto come a quello indiretto di lavoro, promuovere con misure efficaci ed
appropriate il diritto della persona handicappata alla preparazione
professionale e al lavoro, in modo che essa possa essere inserita in una
attività produttrice per la quale sia idonea. Qui si pongono molti problemi
pratici, legali ed anche economici, ma spetta alla comunità, cioè alle autorità
pubbliche, alle associazioni e ai gruppi intermedi, alle imprese ed agli
handicappati stessi di mettere insieme idee e risorse per arrivare a questo
scopo irrinunciabile: che sia offerto un lavoro alle persone handicappate,
secondo le loro possibilità, perché lo richiede la loro dignità di uomini e di
soggetti del lavoro. Ciascuna comunità saprà darsi le strutture adatte per
reperire o per creare posti di lavoro per tali persone sia nelle comuni imprese
pubbliche o private, offrendo un posto ordinario di lavoro o un posto più
adatto, sia nelle imprese e negli ambienti cosiddetti protetti.
b) Una retta concezione del lavoro deve portare ad un retto impiego per gli
handicappati.
Una grande attenzione dovrà essere rivolta, come per tutti gli altri lavoratori,
alle condizioni di lavoro fisiche e psicologiche degli handicappati, alla giusta
remunerazione, alla possibilità di promozioni ed all'eliminazione dei diversi
ostacoli. Senza nascondersi che si tratta di un impegno complesso e non facile,
ci si può augurare che una retta concezione del lavoro in senso soggettivo porti
ad una situazione che renda possibile alla persona handicappata di sentirsi non
ai margini del mondo del lavoro o in dipendenza della società, ma come un
soggetto del lavoro di pieno diritto, utile, rispettato per la sua dignità
umana, e chiamato a contribuire al progresso e al bene della sua famiglia e
della comunità secondo le proprie capacità.
23. Il lavoro e il problema dell'emigrazione.
a) L'emigrazione per lavoro è un fenomeno antico
Occorre, infine, pronunciarsi almeno sommariamente sul tema della cosiddetta
emigrazione per lavoro. Questo è un fenomeno antico, ma che tuttavia si ripete
di continuo ed ha, anche oggi, grandi dimensioni per le complicazioni della vita
contemporanea. L'uomo ha il diritto di lasciare il proprio Paese d'origine per
vari motivi - come anche di ritornarvi - e di cercare migliori condizioni di
vita in un altro Paese. Questo fatto, certamente, non è privo di difficoltà di
varia natura; prima di tutto, esso costituisce, in genere, una perdita per il
Paese dal quale si emigra. Si allontana un uomo e insieme un membro di una
grande comunità, ch'è unita dalla storia, dalla tradizione, dalla cultura, per
iniziare una vita in mezzo ad un'altra società unita da un'altra cultura e molto
spesso anche da un'altra lingua. Viene a mancare in tale caso un soggetto di
lavoro, il quale con lo sforzo del proprio pensiero o delle proprie mani
potrebbe contribuire all'aumento del bene comune nel proprio Paese; ed ecco,
questo sforzo, questo contributo viene dato ad un'altra società, la quale, in un
certo senso, ne ha il diritto minore che non la patria d'origine.
b) Anche se l'emigrazione è un male, in determinate circostanze è un male
necessario.
E tuttavia, anche se l'emigrazione è sotto certi aspetti un male, in determinate
circostanze questo e, come si dice, un male necessario. Si deve far di tutto - e
certamente molto si fa a questo scopo - perché questo male in senso materiale
non comporti maggiori danni in senso morale, anzi perché, in quanto possibile,
esso porti perfino un bene nella vita personale, familiare e sociale
dell'emigrato, per quanto riguarda sia il Paese nel quale arriva, sia la patria
che lascia. In questo settore moltissimo dipende da una giusta legislazione, in
particolare quando si tratta dei diritti dell'uomo del lavoro. E s'intende che
un tale problema entra nel contesto delle presenti considerazioni, soprattutto
da questo punto di vista.
c) L'emigrante non deve essere svantaggiato riguardo ai suoi diritti come
lavoratore.
La cosa più importante è che l'uomo, il quale lavora fuori del suo Paese natio
tanto come emigrato permanente quanto come lavoratore stagionale, non sia
svantaggiato nell'ambito dei diritti riguardanti il lavoro in confronto agli
altri lavoratori di quella determinata società. L'emigrazione per lavoro non può
in nessun modo diventare una occasione di sfruttamento finanziario o sociale.
Per quanto riguarda il rapporto di lavoro col lavoratore immigrato, devono
valere gli stessi criteri che valgono per ogni altro lavoratore in quella
società. Il valore del lavoro deve essere misurato con lo stesso metro, e non
con riguardo alla diversa nazionalità, religione o razza. A maggior ragione non
può essere sfruttata una situazione di costrizione, nella quale si trova
l'emigrato. Tutte queste circostanze devono categoricamente cedere -
naturalmente dopo aver preso in considerazione le speciali qualifiche - di
fronte al fondamentale valore del lavoro, il quale e collegato con la dignità
della persona umana. Ancora una volta va ripetuto il fondamentale principio: la
gerarchia dei valori, il senso profondo del lavoro stesso esigono che sia il
capitale in funzione del lavoro, e non il lavoro in funzione del capitale..
V. ELEMENTI PER UNA SPIRITUALITÀ DEL LAVORO
24. Particolare compito della Chiesa.
Operare per la formazione di una spiritualità del lavoro.
Conviene dedicare l'ultima parte delle presenti riflessioni sul tema del lavoro
umano, collegate col 90° anniversario dell'enciclica Rerum Novarum, alla
spiritualità del lavoro nel senso cristiano dell'espressione. Dato che il lavoro
nella sua dimensione soggettiva è sempre un'azione personale, actus personae, ne
segue che ad esso partecipa l'uomo intero, il corpo e lo spirito,
indipendentemente dal fatto che sia un lavoro manuale o intellettuale. All'uomo
intero è pure indirizzata la Parola del Dio vivo, il messaggio evangelico della
salvezza, nel quale troviamo molti contenuti - come luci particolari - dedicati
al lavoro umano. Ora, è necessaria una adeguata assimilazione di questi
contenuti; occorre lo sforzo interiore dello spirito umano, guidato dalla fede,
dalla speranza e dalla carità, per dare al lavoro dell'uomo concreto, con
l'aiuto di questi contenuti, quel significato che esso ha agli occhi di Dio, e
mediante il quale esso entra nell'opera della salvezza al pari delle sue trame e
componenti ordinarie e, al tempo stesso, particolarmente importanti. Se la
Chiesa considera come suo dovere pronunciarsi a proposito del lavoro dal punto
di vista del suo valore umano e dell'ordine morale, in cui esso rientra, in ciò
ravvisando un suo compito importante nel servizio che rende all'intero messaggio
evangelico, contemporaneamente essa vede un suo dovere particolare nella
formazione di una spiritualità del lavoro, tale da aiutare tutti gli uomini ad
avvicinarsi per il suo tramite a Dio, Creatore e Redentore, a partecipare ai
suoi piani salvifici nei riguardi dell'uomo e del mondo e ad approfondire nella
loro vita l'amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede una viva
partecipazione alla sua triplice missione: di Sacerdote, di Profeta e di Re,
così come insegna con espressioni mirabili il Concilio Vaticano II.
25. Il lavoro come partecipazione all'opera del Creatore.
a) L'uomo, creato ad immagine di Dio, mediante il lavoro partecipa all'opera del
Creatore.
Come dice il Concilio Vaticano II, per i credenti una cosa è certa: l'attività
umana individuale e collettiva, ossia quell'ingente sforzo col quale gli uomini
nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita,
considerato in se stesso, corrisponde al disegno di Dio. L'uomo infatti, creato
a immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a se la terra con
tutto quanto essa contiene per governare il mondo nella giustizia e nella
santità, e così pure di riportare a Dio se stesso e l'universo intero,
riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose, in modo che, nella
subordinazione di tutta la realtà all'uomo, sia glorificato il nome di Dio su
tutta la terra. Nella Parola della divina Rivelazione è iscritta molto
profondamente questa verità fondamentale, che l'uomo, creato a immagine di Dio,
mediante il suo lavoro partecipa all'opera del Creatore, ed a misura delle
proprie possibilità, in un certo senso, continua a svilupparla e la completa,
avanzando sempre più nella scoperta delle risorse e dei valori racchiusi in
tutto quanto il creato. Questa verità noi troviamo già all'inizio stesso della
Sacra Scrittura, nel Libro della Genesi, dove l'opera stessa della creazione è
presentata nella forma di un lavoro compiuto da Dio durante i sei giorni, per
riposare il settimo giorni. D'altronde, ancora l'ultimo libro della Sacra
Scrittura risuona con lo stesso accento di rispetto per l'opera che Dio ha
compiuto mediante il suo lavoro creativo, quando proclama: Grandi e mirabili
sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente, analogamente al Libro della
Genesi, il quale chiude la descrizione di ogni giorno della creazione con la
affermazione: E Dio vide che era una cosa buona.
b) Dio stesso ha presentato la propria opera creatrice sotto le immagini di
lavoro e di riposo.
Questa descrizione della creazione, che troviamo già nel primo capitolo del
Libro della Genesi è al tempo stesso in un certo senso il primo Vangelo del
lavoro. Essa dimostra, infatti, in che cosa consista la sua dignità: insegna che
l'uomo lavorando deve imitare Dio, suo Creatore, perché porta in se - egli solo
- il singolare elemento della somiglianza con lui. L'uomo deve imitare Dio sia
lavorando come pure riposando, dato che Dio stesso ha voluto presentargli la
propria opera creatrice sotto la forma del lavoro e del riposo. Quest'opera di
Dio nel mondo continua sempre, così come attestano le parole di Cristo: Il Padre
mio opera sempre... : opera con la forza creatrice, sostenendo nell'esistenza il
mondo che ha chiamato all'essere dal nulla, e opera con la forza salvifica nei
cuori degli uomini, che sin dall'inizio ha destinato al riposo in unione con se
stesso, nella casa del Padre. Perciò, anche il lavoro umano non solo esige il
riposo ogni settimo giorno, ma per di più non può consistere nel solo esercizio
delle forze umane nell'azione esteriore; esso deve lasciare uno spazio
interiore, nel quale l'uomo, diventando sempre più ciò che per volontà di Dio
deve essere, si prepara a quel riposo che il Signore riserva ai suoi servi ed
amici. La coscienza che il lavoro umano sia una partecipazione all'opera di Dio,
deve permeare - come insegna il Concilio - anche le ordinarie attività
quotidiane. Gli uomini e le donne, infatti, che per procurarsi il sostentamento
per sé e per la famiglia, esercitano le proprie attività così da prestare anche
conveniente servizio alla società, possono a buon diritto ritenere che col loro
lavoro essi prolungano l'opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli
e danno un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di
Dio nella storia.
c) Una spiritualità cristiana del lavoro deve divenire patrimonio comune di
tutti.
Bisogna, dunque, che questa spiritualità cristiana del lavoro diventi patrimonio
comune di tutti. Bisogna che, specialmente nell'epoca odierna, la spiritualità
del lavoro dimostri quella maturità, che esigono le tensioni e le inquietudini
delle menti e dei cuori: I cristiani, dunque, non solo non pensano di
contrapporre le conquiste dell'ingegno e della potenza dell'uomo alla potenza di
Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del Creatore, ma, al contrario,
essi piuttosto sono persuasi che le vittorie dell'umanità sono segno della
grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno. E quanto più cresce la
potenza degli uomini, tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità
individuale e collettiva... Il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli
uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dall'incitarli a disinteressarsi
del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo
ancora più pressante. La consapevolezza che mediante il lavoro l'uomo partecipa
all'opera della creazione, costituisce il più profondo movente per
intraprenderlo in vari settori: I fedeli perciò - leggiamo nella Costituzione
Lumen gentium - devono riconoscere la natura intima di tutta la creazione, il
suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio e aiutarsi a vicenda per una
vita più santa anche con opere propriamente secolari, affinché il mondo sia
imbevuto dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella
giustizia, nella carità e nella pace... Con la loro competenza, quindi nelle
discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla grazia
di Cristo, contribuiscano validamente a che i beni creati, secondo la
disposizione del Creatore e la luce del suo Verbo, siano fatti progredire dal
lavoro umano, dalla tecnica e dalla civile cultura.
26. Cristo, l'uomo del lavoro.
a) Gesù Cristo che proclamava il Vangelo del lavoro è stato l'uomo del lavoro.
Questa verità, secondo cui mediante il lavoro l'uomo partecipa all'opera di Dio
stesso, suo Creatore, è stata in modo particolare messa in risalto da Gesù
Cristo - quel Gesù del quale molti dei suoi primi uditori a Nazareth rimanevano
stupiti e dicevano: Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa
che gli è stata data?... Non è costui il carpentiere?. Infatti, Gesù non solo
proclamava, ma prima di tutto compiva con l'opera il Vangelo a lui affidato, la
parola dell'eterna Sapienza. Perciò, questo era pure il Vangelo del lavoro
perché colui che lo proclamava, era egli stesso uomo del lavoro, del lavoro
artigiano come Giuseppe di Nazaret. E anche se nelle sue parole non troviamo uno
speciale comando di lavorare - piuttosto, una volta, il divieto di una eccessiva
preoccupazione per il lavoro e l'esistenza -, però, al tempo stesso, l'eloquenza
della vita di Cristo è inequivoca: egli appartiene al mondo del lavoro, ha per
il lavoro umano riconoscimento e rispetto; si può dire di più: egli guarda con
amore questo lavoro, le sue diverse manifestazioni, vedendo in ciascuna una
linea particolare della somiglianza dell'uomo con Dio, Creatore e Padre. Non è
lui a dire: il Padre mio è il vignaiolo..., trasferendo in vari modi nel suo
insegnamento quella fondamentale verità sul lavoro, la quale si esprime già in
tutta la tradizione dell'Antico Testamento, iniziando dal Libro della Genesi ?
b) L'insegnamento di Gesù si richiama spesso al lavoro umano e trova
corrispondenza nella predicazione di S. Paolo.
Nei libri dell'Antico Testamento non mancano molteplici riferimenti al lavoro
umano, alle singole professioni esercitate dall'uomo: così per es. al medico al
farmacista, all'artigiano-artista, al fabbro - si potrebbero riferire queste
parole al lavoro del siderurgico d'oggi -, al vasaio, all'agricoltore, allo
studioso, al navigatore, all'edile, al musicista, al pastore, al pescatore. Sono
conosciute le belle parole dedicate al lavoro delle donne. Gesù Cristo nelle sue
parabole sul Regno di Dio si richiama costantemente al lavoro umano: al lavoro
del pastore, dell'agricoltore, del medico, del seminatore, del padrone di casa
del servo, dell'amministratore, del pescatore, del mercante, dell'operaio. Parla
pure dei diversi lavori delle donne. Presenta l'apostolato a somiglianza del
lavoro manuale dei mietitori o dei pescatori. Inoltre, si riferisce anche al
lavoro degli studiosi. Questo insegnamento di Cristo sul lavoro, basato
sull'esempio della propria vita durante gli anni di Nazareth, trova un'eco
particolarmente viva nell'insegnamento di Paolo Apostolo. Paolo si vantava di
lavorare nel suo mestiere (probabilmente fabbricava tende), e grazie a ciò
poteva pure come apostolo, guadagnarsi da solo il pane. Abbiamo lavorato con
fatica e sforzo, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Di qui
derivano le sue istruzioni sul tema del lavoro, che hanno carattere di
esortazione e di comando: A questi... ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù
Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace, così scrive ai
Tessalonicesi. Infatti, rilevando che alcuni vivono disordinatamente, senza far
nulla l'Apostolo nello stesso contesto non esita a dire: Chi non vuol lavorare,
neppure mangi. In un altro passo invece incoraggia: Qualunque cosa facciate,
fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che quale
ricompensa riceverete dal Signore l'eredità. Gli insegnamenti dell'Apostolo
delle Genti hanno, come si vede, un'importanza-chiave per la morale e la
spiritualità del lavoro umano. Essi sono un importante complemento a questo
grande, anche se discreto, Vangelo del lavoro, che troviamo nella vita di Cristo
e nelle sue parabole, in ciò che Gesù fece e insegnò.
c) Insegnamenti del Concilio sul giusto significato del progresso.
In base a queste luci emananti dalla Sorgente stessa, la Chiesa sempre ha
proclamato ciò di cui troviamo l'espressione contemporanea nell'insegnamento del
Vaticano II: L'attività umana, invero, come deriva dall'uomo, così è ordinata
all'uomo. L'uomo infatti quando lavora, non soltanto modifica le cose e la
società, ma perfeziona anche se stesso. Apprende molte cose sviluppa le sue
facoltà, è portato a uscire da se e a superarsi. Tale sviluppo, se è bene
compreso, vale più delle ricchezze esteriori che si possono accumulare...
Pertanto, questa è la norma dell'attività umana: che secondo il disegno e la
volontà di Dio essa corrisponda al vero bene dell'umanità, e permetta all'uomo
singolo o come membro della società di coltivare e di attuare la sua integrale
vocazione. Nel contesto di una tale visione dei valori del lavoro umano, ossia
di una tale spiritualità del lavoro, si spiega pienamente ciò che nello stesso
punto della Costituzione pastorale del Concilio leggiamo sul tema del giusto
significato del progresso: L'uomo vale più per quello che è che per quello che
ha. Parimenti tutto ciò che gli uomini fanno per conseguire una maggiore
giustizia, una più estesa fraternità e un ordine più umano nei rapporti sociali,
ha più valore dei progressi in campo tecnico. Questi, infatti, possono fornire,
per così dire, la materia alla promozione umana, ma da soli non valgono in
nessun modo ad effettuarla. Tale dottrina sul problema del progresso e dello
sviluppo - tema così dominante nella mentalità moderna - può essere intesa
solamente come frutto di una provata spiritualità del lavoro umano, e solamente
in base a una tale spiritualità essa può essere realizzata e messa in pratica.
Questa è la dottrina, ed insieme il programma, che affonda le sue radici nel
Vangelo del lavoro.
27. Il lavoro umano alla luce della Croce e della Risurrezione di Cristo.
a) La fatica del lavoro è una conseguenza della maledizione per il peccato, e
annuncia la morte di ogni essere umano.
C'è ancora un aspetto del lavoro umano, una sua dimensione essenziale, nella
quale la spiritualità fondata sul Vangelo penetra profondamente. Ogni lavoro -
sia esso manuale o intellettuale - va congiunto inevitabilmente con la fatica.
Il Libro della Genesi lo esprime in modo veramente penetrante, contrapponendo a
quella originaria benedizione del lavoro contenuta nel mistero stesso della
creazione, ed unita all'elevazione dell'uomo come immagine di Dio, la
maledizione che il peccato ha portato con sé: Maledetto sia il suolo per causa
tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Questo
dolore unito al lavoro segna la strada della vita umana sulla terra e
costituisce l'annuncio della morte: Col sudore del tuo volto mangerai il pane.
finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto.... Quasi come
un'eco di queste parole, si esprime l'autore di uno dei libri sapienziali: Ho
considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo
durato a farle.... Non c'è un uomo sulla terra che non potrebbe far proprie
queste espressioni. Il Vangelo pronuncia, in un certo senso, la sua ultima
parola anche a questo riguardo nel mistero pasquale di Gesù Cristo. E qui
occorre cercare la risposta a questi problemi così importanti per la
spiritualità del lavoro umano. Nel mistero pasquale è contenuta la croce di
Cristo, la sua obbedienza fino alla morte, che l'Apostolo contrappone a quella
disubbidienza, che ha gravato sin dall'inizio la storia dell'uomo sulla terra. É
contenuta in esso anche l'elevazione di Cristo, il quale mediante la morte di
croce ritorna ai suoi discepoli con la potenza dello Spirito Santo nella
risurrezione.
b) Il sudore e la fatica offrono ad ogni uomo la possibilità di partecipare
all'opera redentrice del Cristo.
Il sudore e la fatica, che il lavoro necessariamente comporta nella condizione
presente dell'umanità, offrono al cristiano e ad ogni uomo, che è chiamato a
seguire Cristo, la possibilità di partecipare nell'amore all'opera che il Cristo
è venuto a compiere. Quest'opera di salvezza è avvenuta per mezzo della
sofferenza e della morte di croce. Sopportando la fatica del lavoro in unione
con Cristo crocifisso per noi, l'uomo collabora in qualche modo col Figlio di
Dio alla redenzione dell'umanità. Egli si dimostra vero discepolo di Gesù,
portando a sua volta la croce ogni giorno nell'attività che è chiamato a
compiere. Cristo, sopportando la morte per noi tutti peccatori, ci insegna col
suo esempio che è necessario anche portare la croce; quella che dalla carne e
dal mondo viene messa sulle spalle di quanti cercano la pace e la giustizia ;
però, al tempo stesso, con la sua risurrezione costituito Signore, egli, il
Cristo, a cui è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra, opera ormai nel
cuore degli uomini con la virtù del suo spirito.... purificando e fortificando
quei generosi propositi, con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere
più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra.
c) Mediante la fatica si partecipa all'annuncio dei nuovi cieli e di una terra
nuova.
Nel lavoro umano il cristiano ritrova una piccola parte della croce di Cristo e
l'accetta nello stesso spirito di redenzione, nel quale il Cristo ha accettato
per noi la sua croce. Nel lavoro, grazie alla luce che dalla risurrezione di
Cristo penetra dentro di noi, troviamo sempre un barlume della vita nuova, del
nuovo bene, quasi come un annuncio dei nuovi cieli e di una terra nuova, i quali
proprio mediante la fatica del lavoro vengono partecipati dall'uomo e dal mondo.
Mediante la fatica - e mai senza di essa. Questo conferma, da una parte,
l'indispensabilità della croce nella spiritualità del lavoro umano. d'altra
parte, però, si svela in questa croce e fatica un bene nuovo, il quale prende
inizio dal lavoro stesso: dal lavoro inteso in profondità e sotto tutti gli
aspetti - e mai senza di esso.
d) Nella sollecitudine a coltivare questa terra cresce la nuova umanità che
prefigura il nuovo mondo
É già questo nuovo bene - frutto del lavoro umano - una piccola parte di quella
terra nuova, dove abita la giustizia?. In quale rapporto sta esso con la
risurrezione di Cristo, se è vero che la molteplice fatica del lavoro dell'uomo
è una piccola parte della croce di Cristo? Anche a questa domanda cerca di
rispondere il Concilio, attingendo la luce dalle fonti stesse della Parola
rivelata: Certo, siamo avvertiti che niente giova all'uomo se guadagna il mondo,
ma perde se stesso (cfr. Lc 9, 25). Tuttavia, l'attesa di una terra nuova non
deve indebolire, bensì stimolare piuttosto la sollecitudine a coltivare questa
terra, dove cresce quel corpo dell'umanità nuova che già riesce ad offrire una
certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba
accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del Regno di
Cristo, tuttavia nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l'umana
società, tale progresso è di grande importanza per il Regno di Dio. Abbiamo
cercato, nelle presenti riflessioni dedicate al lavoro umano, di mettere in
rilievo tutto ciò che sembrava indispensabile, dato che mediante esso devono
moltiplicarsi sulla terra non solo i frutti della nostra operosità, ma anche la
dignità dell'uomo, la fraternità e la libertà. Il cristiano che sta in ascolto
della parola del Dio vivo, unendo il lavoro alla preghiera, sappia quale posto
occupa il suo lavoro non solo nel progresso terreno, ma anche nello sviluppo del
Regno di Dio, al quale siamo tutti chiamati con la potenza dello Spirito Santo e
con la parola del Vangelo. Nel concludere queste riflessioni, mi è gradito
impartire di vero cuore a tutti voi, venerati Fratelli, Figli e Figlie
carissimi, la propiziatrice Benedizione Apostolica.
Questo documento, che avevo preparato perché si pubblicasse il 15 maggio scorso,
nel 90° anniversario dell'enciclica Rerum Novarum, ha potuto essere da me
definitivamente riveduto soltanto dopo la mia degenza ospedaliera.
14 settembre 1981