L'IMPREVEDIBILE  E'  ACCADUTO IN

GESU'  DI  NAZARETH

 

Lo sconcerto della Rivelazione

 

 

Il liberatore: un uomo crocifisso

 

Titolo se vogliamo molto familiare in quanto per noi la rivelazione è avvenuta in Cristo secondo la fede, ma insieme provocatorio perché sembra voler dire che Dio, se diventa il Dio che parla, che intrattiene con noi un dialogo aperto nel quale rivela a noi il suo segreto, la profondità del suo mistero, non possa essere che un Dio che si rende presente in un uomo crocifisso. La rivelazione nel senso proprio suppone che Dio si lasci cogliere, medi la sua presenza attraverso l’unica realtà che c’è nel mondo a noi conosciuto capace di raccogliere in se stesso l’infinito; deve quindi passare attraverso un uomo, l’unico che pur nella sua limitatezza è capace d’infinito. Questo in breve ciò che abbiamo svolto fin qui.

Ora facciamo un passaggio ulteriore, quasi sconcertante: un uomo crocifisso; un uomo fallito. Noi ci aspetteremmo a priori che la rivelazione di Dio, Dio che esce dal suo silenzio, dovesse venire attraverso un uomo rivestito della gloria di Dio, pienamente partecipe della potenza di Dio, un uomo così coinvolto di Dio da irradiare Dio da tutti i pori della sua pelle. Noi ci aspetteremmo che la rivelazione di Dio, per essere credibile debba essere una rivelazione in termini veramente superlativi di gloria, di potenza, di splendore, di onore, altrimenti la rivelazione di Dio non sarebbe adeguata a Lui; se Dio vuole entrare nel nostro circolo, ammesso che lo voglia fare, che voglia essere veramente il Dio della parola, di quella parola che non può essere che l’uomo, quest’uomo può essere soltanto un uomo trasfigurato dalla grandezza di Dio, un uomo che nella storia dovrebbe manifestare nella maniera più tangibile l’irruzione di Dio. E invece forse non deve essere proprio così.

Parliamo sempre della possibilità della rivelazione; è un ragionamento che non dovrebbe essere neanche di carattere teologico, ma propedeutico, filosofico, ragionando in termini di consapevolezza di noi stessi, secondo quello che noi riusciamo a conoscere di noi stessi e rispettivamente a conoscere Dio. In base a questa conoscenza di noi stessi potrebbe anche darsi che la rivelazione di Dio segua ben altre modalità, che avvenga attraverso un uomo, parola autentica di Dio, ma parola non trionfale, parola umiliata, parola non maestosa, ma coperta di fango, parola che secondo il giudizio umano, sembra non tanto parlare di Dio, ma del suo contrario, perché appunto intriso di miseria invece che di grandezza.

 

 

Il liberatore: la sorte del Giusto secondo Platone

 

A questo riguardo c’è un testo molto importante che può essere illuminante ed è un testo di Platone, vecchio filosofo pagano, il quale nella Repubblica, opera di carattere filosofico-politico, si pone un interrogativo singolare:

Se un giorno dovesse venire al mondo un uomo veramente giusto, un uomo nel quale la giustizia non è un fatto superficiale che riguarda alcuni strati del suo essere, ma veramente giusto: quale sarebbe la sorte di quest’uomo nel nostro mondo? (Platone,Politeia II, 361e-362a)

 

Platone si poneva questo interrogativo migliaia di anni fa, tuttavia 1’interrogativo rimane sempre valido ed anche la risposta che ad esso viene data. Platone giunge alla conclusione che la giustizia di un uomo risulterebbe perfetta e provata solo se quest’uomo prendesse su di sè l’apparenza dell’ingiustizia, perché solo allora sarebbe evidente che egli non segue l’opinione degli uomini, non è giusto semplicemente per accogliere l’entusiasmo degli uomini, per essere onorato dagli uomini. Solo allora risulterebbe che non segue l’opinione degli uomini ma sta dalla parte della giustizia unicamente per amore di essa. Platone fa quindi questa ipotesi: un uomo veramente giusto se venisse al mondo dovrebbe essere sospettato di ingiustizia, dovrebbe essere colpito a causa della sua ingiustizia, dovrebbe pagare a caro prezzo il fatto di essere giusto, dovrebbe scontarlo sulla sua pelle, perché altrimenti si potrebbe sempre pensare che egli è giusto solo per amore dell’onore, del consenso, dell’applauso che deriva dalla giustizia. Per Platone quindi il vero giusto deve essere misconosciuto e perseguitato in questo mondo. Platone scrive testualmente:

 

Direte quindi che stando così le cose il giusto verrà flagellato, torturato, gettato in carcere, accecato col ferro rovente ed infine, dopo tutto questo scempio finirà per essere crocifisso. (Platone, ibidem)

 

Questo scrive un pagano 400 anni prima di Cristo, interrogandosi sulla sorte del giusto in questo mondo.

Può essere considerata una sconosciuta profezia del mondo pagano dell’avvento di quel giusto che per noi non è un giusto qualsiasi, ma è il Giusto veramente, ripieno della giustizia di Dio e rivelante la giustizia di Dio. Si può quindi formulare l’ipotesi che se Dio si rivela in un uomo che non può non essere l’uomo giusto per eccellenza, rivelandosi, fa una brutta figura. Era di moda anni fa essere ottimisti, e chi non lo era del tutto veniva dichiarato disfattista, masochista. Oggi i tempi sono cambiati, siamo più sobri su questo punto, però pensiamo che non occorre essere tanto neri per prevedere la possibile sorte del giusto nel nostro tempo. Naturalmente sotto questa affermazione sta una certa valutazione della condizione umana; l’uomo che facilmente sta dalla parte del bene, proclama la bontà dei valori e mostrerà di spendersi per essi fintanto che questo gli è di vantaggio, di tornaconto, qualora però la fedeltà alla giustizia dovesse comportare svantaggi, i propositi di giustizia il più delle volte vanno a farsi benedire.

 

 

La sorte del Giusto nella sapienza di Israele

 

Un altro passo che riguarda la sorte dei giusti nell’umanità noi lo troviamo in un libro sacro, il testo della Sapienza. Non lo cito come libro sacro, ma come un testo che può esserci di aiuto in questa riflessione.

Parlano gli empi, coloro che vivono e giudicano la vita non secondo la verità, ma secondo il proprio tornaconto.

 

La nostra forza sia regola della giustizia, perché la debolezza risulta inutile. Tendiamo insidie al giusto perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni. Ci rimprovera le trasgressioni della legge, ci rinfaccia le mancanze contro l’educazione da noi ricevuta. Il giusto proclama di possedere la conoscenza di Dio e si dichiara Figlio del Signore. E’ diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti, ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita è diversa da quella degli altri e del tutto diverse sono le sue strade. Moneta falsa siamo da lui stimati e schiva le nostre abitudini come immondezze, proclama beata la fine dei giusti e si vanta di avere Dio per Padre. Ebbene, vediamo se le sue parole sono vere, proviamo ciò che gli accadrà alla fine, se il giusto è figlio di Dio, Egli lo assisterà e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Dunque mettiamolo alla prova con insulti e tormenti per conoscere la mitezza del suo carattere e saggiare la sua rassegnazione. Condanniamolo ad una morte infame perché secondo le sue parole il soccorso gli verrà. (Libro della Sapienza 2, 2-11)

 

Tutto è logico, il discorso fila perfettamente in maniera consequenziale. Mettiamo alla prova la sua giustizia, mettiamo alla prova il fatto stesso che ha Dio dalla sua parte, e la cosa più semplice, l’unica seria e radicale per intanto è coprirlo di insulti e di tormenti e poi condannarlo ad una morte infame. Se poi c’è veramente una giustizia che difende i giusti, se la ragione non sta semplicemente dalla parte della forza, allora quel qualcuno al quale il giusto continuamente si appella, quel qualcuno del quale il giusto si riempie la bocca si darà da fare e se non si darà da fare peggio per il giusto, meglio per noi. Questa è quindi un’altra pagina nella quale è delineata dagli empi la fine dei giusti.

Può essere giudicata pessimistica questa pagina, ma credo invece che sia una valutazione realistica della condizione umana. Certo può mettere in crisi certi nostri schemi, certe nostre aspettative, quando ci interroghiamo sul volto che Dio venendoci incontro attraverso un uomo potrebbe assumere, perché la nostra tentazione è sempre quella di ipotizzare per questo Dio che si rivela all’uomo una manifestazione sfolgorante di maestà.

In questo nostro mondo che vive sotto il segno dell’ingiustizia, dove l’ingiustizia sembra costruire la trama della storia, in questa nostra povera umanità dove la prepotenza dell’ingiustizia sembra veramente essere così strapotente da soffocare tutto quello che le è contrario, è tutt’altro che utopistico pensare che Dio venendo nel mondo in un uomo faccia una fine come quella prospettata tanto da Platone come dal libro della Sapienza. Profezie che provengono da versanti diversi, ma che si incontrano nell’individuare per il giusto un destino atroce.

 

 

Lo sconcerto nostro e del precursore

 

Noi non possiamo non ribellarci ad una simile convergenza di profezia pagana ed ebraica. Noi a migliaia di anni di distanza da questi testi, dovendo ancora combattere con gli stessi problemi, dovendo soffrire ancora degli stessi conflitti, non sappiamo e non le vogliamo accettare, perché ci sembra veramente assurdo e indegno che il giusto possa venire schiacciato.

Ma possibile che le cose nel mondo debbano svolgersi in maniera tale da favorire chi meriterebbe di essere spazzato via e distruggere gli unici che avrebbero diritto di esistenza al mondo?

Possibile che debbano essere gli empi, gli ingiusti, i violenti i guerrafondai, gli sfruttatori a dettare legge, e ad avere diritto di esistere? Questo discorso non è mai semplicemente astratto, ma è una domanda, forse un grido disperato, quando questa ingiustizia storica colpisce noi direttamente, colpisce me. Finché colpisce gli altri, si piangerà, ma poi alla fine ci si rassegna, ma quando tutto questo si scarica su di me allora come si fa a non esplodere, a non dire come gli ebrei quando si trovavano in situazioni analoghe: Ma dov’è Dio? Questo interrogativo che si afferma dentro di noi con tutte le nostre forze, anche le forze migliori di fronte al trionfo dell’ingiustizia, questo interrogativo rivela ancora di più quanto di pazzesco ci sia nell’ipotesi che il volto di Dio, la manifestazione concreta di Dio nella storia, il segno unico, tangibile della sua presenza nella storia sia un uomo schiacciato dall’ingiustizia, sfigurato dalla cattiveria dei suoi fratelli, additato a ludibrio come rifiuto dell’umanità, un uomo sul quale il tribunale della supposta giustizia umana uguale per tutti, ma molto più uguale per gli ingiusti, emana il verdetto: no, non è degno quest’uomo di calpestare la nostra terra.

Togliamolo di mezzo e sarà per tutti una grande liberazione, sarà fatto fuori un intruso, sarà eliminato un corpo estraneo, un uomo che con la sua sola presenza non permette al mondo che trovi un assetto definitivo all’insegna dell’ ingiustizia. Quanto è assurda questa ipotesi.

Dio, dove sei? Se ci sei, non puoi muoverti in questa condizione!

Quando rievochiamo questa esperienza la nostra mente brancola nel buio, il nostro cuore viene preso da uno sgomento che disorienta, quando è costretto a confrontarsi con le profezie che abbiamo sentito e sentirsi dire da queste profezie che il volto possibile del giusto, il volto possibile di Dio nell’uomo possa essere il volto di un uomo crocifisso. Le cose quindi non sono semplici, anzi sono alquanto sconcertanti. Non ci meravigli perciò che quando il Rivelatore apparve venne accolto poco bene, e non soltanto dagli ingiusti, dai cattivi, ma venne accolto poco bene proprio da coloro che in seguito ad una lunga storia erano stati preparati ad accoglierlo e la cui coscienza era stata orientata ad intravedere qualche cosa della fisionomia che il Rivelatore avrebbe assunto.

Venne accolto poco bene da tutto il popolo predisposto, proprio il popolo dal quale non solo doveva nascere il Rivelatore, ma nel quale Egli poteva trovarsi a suo agio, poteva realizzare la sua missione. Non venne accolto con la sufficiente prontezza, intelligenza, disponibilità ad ogni possibile sorpresa da parte di questo Dio - che potrebbe assumere le forme più estranee ed estranianti, le forme più ambigue - perfino da gente che era stata inviata proprio per additare come presente ormai nel mondo questo rivelatore. Gente il cui compito era esattamente quello di annunciare che il tempo dell’attesa era ormai compiuto ed era venuto l’inviato ultimo, definitivo di Dio. Mi riferisco alla figura di Giovanni il Battista.

Questa figura, gigantesca secondo Gesù, non è però esente da dubbi, dallo sconcerto di fronte al Rivelatore di cui stiamo parlando. Ne è testimonianza il capitolo 11 del Vangelo di Matteo in quella famosa ambasceria di Giovanni che in carcere, - dobbiamo tenere presente questa situazione particolare: è lì bloccato in carcere, con la spada di Damocle della morte sospesa sul suo capo, che può arrivare ad ogni momento, è lì bloccato per colpa della concubina del re Erode, zimbello anche del capriccio e della lussuria che si traduce in ferocia che non tollera alcuna opposizione a costo di passare sul cadavere di Giovanni - in questa triste situazione manda a chiedere a Gesù: Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo attenderne un altro?

E qui Giovanni non è che intenda distaccare da sè questi discepoli per ormai affiliarli alla scuola di Gesù e pedagogicamente li invii da Gesù perché si convincano che è Lui che devono seguire. No, Giovanni, come appare dalla risposta di Gesù, è lui personalmente in profonda crisi di fronte al Rivelatore; è lui che non capisce più niente, è nello smarrimento totale o quasi; è lui che si pone il problema, e non soltanto perché si trova gettato in carcere, impossibilitato a svolgere la sua missione - e Gesù non muove un dito - ma perché non è soddisfatto di quello che sente dire di Gesù, non lo sente sufficientemente come il messia grande, non può riconoscere in Lui i tratti maestosi della gloria di Dio.

E’ lui che si domanda: ma chi è costui, costui al quale aveva resa pubblica testimonianza dicendo E’ Lui l’agnello di Dio, è Lui che dovete veramente seguire. E adesso si domanda: non mi sarò forse ingannato, non ho preso un abbaglio formidabile? E’ lui veramente l’ultimo o è anche lui soltanto uno dei tanti inviati da Dio che non sono però veramente la rivelazione di Dio?

Perfino il precursore per il quale l’unica ragione d’essere era quella di dire che è venuto il Rivelatore, quando se lo trova davanti ben definito nella sua concretezza storica, nelle sue espressioni così quotidiane, rimane veramente senza fiato e dubita: forse Gesù di Nazareth non è l’ultimo, è troppo un pover’uomo per poter essere lui. Come si fa a buttare tutto su di lui, come sull’ultimo? Ultimo è una parola grande se ci riflettiamo. Ultimo: con lui la storia giunge a compimento, con lui si ottiene la pienezza dei tempi. Con Lui ormai tutto è compiuto . Vedete, non dobbiamo aspettare la morte di Gesù per sentire da parte di amici espressioni piene di sconforto e di delusione. Ricordate i discepoli di Emmaus: se ne vanno da Gerusalemme verso Emmaus delusi e amareggiati, Gesù in persona sostò e camminava con loro, ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Direi che questa frase esprime tutta la problematica. Gesù per certi aspetti così insuperabile, schiacciante, Dio, si rivela, ma l’uomo non ha occhi per vederlo.

Dio viene incontro, viene accanto, si fa compagno di viaggio, si mette a parlare, condivide realmente la nostra strada e noi molte volte non siamo capaci di intravedere chi sia quello sconosciuto compagno di viaggio; non abbiamo occhi per vedere. E’ possibile che Dio si riveli? Quali modalità Dio assume quando si rivela?

 

 

Se Dio si rivelasse, avrò occhi per riconoscerLo?

 

Ma forse nemmeno questa domanda è importante quanto quella che ci occupa adesso: ma quando anche Dio si rivelasse a questo povero uomo che sono io con i miei pregiudizi, con i miei schemi prefabbricati, con le mie convinzioni consolidate, con la mia voglia di dettare legge su tutto e su tutti, di stabilire come Dio deve rivelarsi, avrò mai gli occhi per riconoscerlo? I loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Per fortuna però non si fermano lì, ma non si fermano lì per merito dello sconosciuto che è andato alla ricerca di quei due poveri discepoli scoraggiati. Ed Egli disse loro: Che sono questi discorsi che state facendo durante il cammino? Si fermarono col volto triste. Uno di loro di nome Cleopa gli disse: ma tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non conoscere ciò che è accaduto in questi giorni? Gesù domandò: Che cosa? Gli risposero: tutto ciò che riguarda Gesù di Nazaret che fu profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo, come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi lo hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele, ma ormai sono passati tre giorni da quando queste cose sono avvenute.

Ma non occorrerebbe nemmeno aspettare fin qui per sentire degli amici di Gesù fare tali considerazioni così tetre e sconsolate: abbiamo sentito fin dagli inizi della vita pubblica di Gesù un amico di Gesù che nell’impatto concreto con questa singolare apparizione rimane veramente sgomento, portando dentro di sè un enigma che da solo non riuscirebbe a risolvere: Sei tu colui che deve venire? E a questo pover’uomo in crisi Gesù manda a dire la parola: Beato colui che non si scandalizza di me. Beato colui per il quale io non sono pietra di inciampo; beato colui che non sbatte la testa contro di me; beato colui che nonostante tutte le contraddizioni che vengono dalla mia persona, dalla mia attività, riesce a riconoscere in me l’Ultimo.

La problematica è grande; anche se Dio si rivelasse, chi mai lo prenderà sul serio?

Qual è l’uomo che può familiarizzarsi con la pazzia di un Dio così impazzito da entrare in un mondo stravolto, contraffatto dalla miseria sì da uscirne a sua volta ancor più contraffatto? Chi mai potrà sintonizzarsi con una simile rivelazione? C’è una canzone che è bella, ma insieme non è teologicamente delineata: Nella Chiesa del Signore, tutti gli uomini verranno, se bussando alla sua porta solo amore troveranno.... E’ venuto uno pieno di amore, ma non sembra affatto che la gente sia accorsa a frotte da Lui. Si possono cantare queste cose, ma non sono vere, ottimismo stupido riguardo all’umanità che corre lì dove c’è amore.

Se fosse così, Gesù si sarebbe trovato sommerso come il miele dalle mosche. D’accordo: se nella Chiesa del Signore si troverà molto poco amore, questo sarà motivo per cui gli uomini quando bussano alla sua porta torneranno via delusi.

Però quand’anche la Chiesa del Signore fosse talmente piena d’amore da esplodere come una polveriera, forse noi per primi non accorreremmo a questa Chiesa. Questo per dire la problematicità della rivelazione.

 

 

La sorte del giusto servo di Jahvè

 

Vorrei fare un passo indietro e tornare ad un altro testo ancora più singolare per quello che riguarda questa ipotesi di Dio che si rivela attraverso l’uomo.

C’è una profezia, questa, vorrei dire, è ben più teologica e per questo anche più ricca, per questo anche più ardua, una profezia che rappresenta forse l’espressione più alta della coscienza d’Israele. E’ lì come punto luminoso e oscurissimo insieme, segnale di passaggio della storia di preparazione al compimento di questa storia: siamo in Isaia 53.

Isaia è un libro che passa con uno stesso nome, ma contiene vaticini di due autori, forse tre e di diversi secoli, e la parte che adesso consideriamo riguarda lo stesso autore che è uno sconosciuto dell’epoca dell’esilio, dopo la distruzione di Gerusalemme, quindi nel V secolo a.C. Questo autore ha anche lui un suo problema. Il problema è questo: Dio ha fatto promesse così grandiose al suo popolo, ha annunciato un’era di una salvezza piena ed effettiva, di una pace che significa veramente benessere totale. La realizzazione compiuta dei desideri umani, ha assicurato ad Israele che dopo la disperazione e l’esilio lo raccoglierà di nuovo in una Gerusalemme ricostruita, sfolgorante di gloria e di bellezza, traboccante di giustizia e di santità, ha preannunciato che avrebbe rinnovato il suo popolo dall’interno trasformando il cuore, l’anima di Israele in modo che questa porzione di umanità da lui eletta sia capace veramente di seguirlo, di obbedirlo, di amarlo, aveva promesso che avrebbe sostituito il cuore di pietra con un cuore di carne, docile alle sollecitazioni del suo Dio.

Addirittura con Ezechiele aveva promesso di rendere possibile questo miracolo della perfetta sintonia fra il popolo e il Dio con il dono dello Spirito, avrebbe per così dire infuso la sua intimità, avrebbe concesso quello che di più profondo aveva Dio dentro di sé, in modo da poter realizzare l’ideale dell’alleanza: Io sarò il tuo Dio e tu sarai il mio popolo.

Dio aveva fatto queste grandi promesse e Isaia si domanda: come farà Dio ad attuare tali simili promesse? Quali vie sceglierà per realizzare la trasformazione di Israele, che anche nel periodo dell’esilio, benché purificato da questa dolorosa esperienza continuava ad essere un popolo insoddisfatto, contestatario? Il profeta per certi aspetti sarebbe incline alla disperazione, Israele è il simbolo dell’umanità che è troppo lontana, col suo cuore di pietra, da Dio per trovarsi in comunione con lui.

Dio sarà sempre un Dio troppo grande, con le sue esigenze di santità, rispetto alla meschinità di Israele. Un’alleanza sarà impossibile. Il profeta, guardando al suo popolo ed anche nel suo cuore sarebbe inclinato ad affermare che le promesse di Dio resteranno lettera morta. Ma è proprio riflettendo a queste cose, riflettendo a tavolino ma non fuori dall’influsso di Dio che egli ha una grande intuizione sulla modalità di intervento di Dio che riuscirà finalmente a modificare il cuore di Israele e quindi il cuore di tutti gli uomini. Qual è questa scoperta? Qual è il possibile volto di Dio, del Dio che si rivela?

Quel Dio che incontrando la concretezza storica deve fare i conti con la miseria, con il peccato, con l’irresponsabilità, con la volgarità, con lo spirito di ribellione con la smania di autonomia, con lo spirito, diremmo oggi, secolarizzato e laicistico di questa umanità? Piantando la sua tenda in mezzo a questa umanità così scontrosa, diffidente nei suoi confronti, come farà a stabilire un rapporto che non sia destinato all’insuccesso di un dialogo sempre aperto, ma rifiutato, di una mano tesa e non accolta, di un cuore aperto ma sempre ignorato?

L’intuizione che ha il profeta è espressa nel capitolo 53 del libro di Isaia. Questo capitolo inizia così:

 

Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?

 

E’ il carme che riguarda la misteriosa figura del servo di Dio.

 

E’cresciuto come un virgulto davanti a Dio e come una radice in terra arida, non ha apparenza nè bellezza per attirare i nostri sguardi, non ha splendore per trovare in lui diletto

 

E’ l’antitesi di tutte le nostre attese.

 

Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia tanto era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima

 

L’uomo dei dolori, reietto, uno di fronte al quale si chiudono gli occhi tanto è grande il ribrezzo: per noi sono parole, niente più che parole. Cosa dovrebbe fare lo Spirito di Dio per disseppellire queste dal di sotto del cumulo di macerie che le coprono così da renderle per noi esistenzialmente inaccessibili?

 

Sommario