L'IMPREVEDIBILE  E'  ACCADUTO IN

GESU'  DI  NAZARETH

 

La morte di Cristo e la fede

 

 

Il significato dei miracoli

 

I miracoli sono segni potenti dell’amore misericordioso. Veniamo al significato dei miracoli, di questi gesti pieni di potenza compiuti da Gesù il quale con questi interventi non mira mai a mettersi in mostra, non vuole mai ostentare le sue qualità taumaturgiche, non vuole dunque attirare su di sé con procedimenti spicci l’attenzione, non vuole meno che meno imporre dall’alto questa sua potenza taumaturgica, imporre la fede in lui, strappando quasi il consenso dell’uomo nei suoi confronti.

Che cosa sono i miracoli se noi li mettiamo nell’economia globale della vita di Gesù, della missione di Gesù? Gesù ci dà la risposta a questo interrogativo perché lui stesso ha dovuto, costretto anche dagli avversari (spesso sono proprio gli avversari a costringere a puntualizzare il proprio pensiero e le proprie intenzioni) a offrire la sua interpretazione dei miracoli. L’episodio è riportato in Matteo 12,28 e rispettivamente in Luca 11,20.

Gesù scaccia il demonio.

L’interpretazione che danno a questa guarigione è molto semplice e tremendamente maliziosa: lui scaccia i demoni perché è alleato di Belzebùl. Si vede che nella gerarchia dei demoni, secondo la mentalità ebraica, Belzebùl occupa il posto più alto. Non ha nessuna difficoltà Gesù ad imporsi a qualche demonietto piccolo perché è in combutta col capo dei demoni. Bella bravura! E accusarono Gesù di alleanza con Satana, accusa che già da sola comportava per sé nella prassi ebraica la condanna a morte di quell’uomo. Quindi Gesù quando lo attaccano sa che destino lo aspetta se, i suoi avversari potranno, coerentemente con la loro intenzione, sviluppare un’azione penale contro di lui.

Gesù come risponde a questa insinuazione che egli considera un travisamento completo del significato del gesto da lui appena compiuto? Risponde così:

 

"Se io caccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio è dunque giunto a voi il Regno di Dio."

Luca nel testo parallelo dice:

 

"Se io caccio i demoni con il dito di Dio è giunto a voi il Regno di Dio".

 

Che cosa sono dunque questi interventi di Gesù: la cacciata dei demoni, i diversi generi di guarigioni, che cosa sono? Sono segni del Regno di Dio, sono manifestazioni potenti del fatto che Dio in Gesù è all’opera nel mondo, per libera re il mondo dalla possessione diabolica che non è semplicemente confinata o relegata in alcuni casi individuali.

Questa possessione diabolica che pesa nella storia umana! Gesù dice con queste parole che i miracoli sono semplicemente espressione della signoria di Dio che interviene nel corso delle vicende umane per affermare i diritti di Dio che sono insieme la promozione dei diritti dell’uomo, diritti conculcati, soffocati, umiliati dalla presenza e dalla prepotenza di tanti fattori umani dell’uomo.

Quindi dove Gesù arriva, lì arretra il dominio del demonio. E così concretamente si afferma nel mondo la signoria benefica di Dio, signoria che è per l’uomo, che gli permette di ritrovare tutte le sue energie in modo da potersi realizzare veramente. In Luca questa idea viene espressa subito dopo queste parole che ho appena citato e ci offre l’interpretazione che Gesù dà dei suoi miracoli. In Luca subito dopo troviamo una parabola: la parabola del più forte, bene armato, che fa la guardia al suo palazzo. Tutti i suoi beni stanno al sicuro.

Gesù non spiega chi sia questo uomo forte, così spavaldamente sicuro della sua situazione. Ma aggiunge Gesù: ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via l’armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino.

Allora quell’uomo è finito, quell’uomo forte che credeva di non avere nessuno sopra di lui e più potente di lui, che potesse scalzarlo dal trono, si scontra veramente con uno che riesce a farlo fuori.

Da quel momento, privato dell’armatura con la quale poteva difendersi, viene anche spogliato della sua preda. Chi era questo più forte? E’ Lui il più forte, venuto a spodestare colui che si riteneva il dominatore incontrastato e invincibile, il maligno.

Non possiamo ridere su queste cose, tanto il maligno c’è anche se ci ridiamo addosso. Più forte è Gesù che sconfigge colui che si riteneva insuperabile. Lutero commentando questa parabola ne sintetizza la morale in una frase semplicissima: Christus maior Satana (Cristo è più grande, più potente, più forte di Satana).

Cristo, nonostante tutte le apparenze in contrario è il vittorioso.

Vittorioso non per se stesso o per la sua gloria, per la sua affermazione, ma vittorioso per noi perché è tutto propter nos homines et propter nostram salutem, tutto è per noi.

Vittorioso come colui che umilia questo potente così sicuro di sé per strappargli il bottino, restituire la libertà ai prigionieri. L’unico che poteva sfondare le porte del carcere nel quale noi eravamo rinchiusi, per permettere a noi tutti, insieme con lui, di realizzare la grande evasione verso la terra di Dio, verso il futuro della libertà.

Questo il significato dei miracoli: segni del regno, della signoria di Dio, della vittoria di Dio nel contesto oscuro di questo mondo, in una situazione di male apparentemente insormontabile.

Se le cose stanno così, appare che cosa sia il Regno; questo Regno di Dio è la causa di Gesù, è la causa di tutta la sua vita, è lo scopo di tutta la sua missione, ma più ancora, questo Regno di Dio è alla fine Gesù stesso in persona, perché in Gesù la missione coincide con la sua esistenza, la causa coincide con la persona.

Se i miracoli sono segni del Regno, del Regno di Dio, questo regno è pienezza di vita umana, è esaudimento di ogni aspirazione autentica dell’uomo, vorrei dire di più: è qualche cosa che va al di là dell’esaudimento delle aspirazioni dell’uomo.

S. Paolo direbbe: ciò che viene a colmare non soltanto le attese dell’uomo ma i sogni - assurda, paradossale affermazione -, i sogni che l’uomo è riuscito a concepire. Anche quando noi in questa nostra vita, così limitata e così povera, abbiamo momenti belli, essa non cessa di essere una vita segnata dalla contingenza, dalla provvisorietà. In questa vita così limitata e povera certo aspiriamo spesso ad un modo diverso di vivere, a una qualità diversa di vita.

Aspiriamo ad una qualità diversa della vita, ma nei nostri sogni più accesi riusciamo a concepire dei desideri che corrispondano veramente alla pienezza della vita, la vita che Dio, affermando la sua signoria in favore dell’uomo, è disposto a darci?

Tutti i nostri sogni sono su misura umana, mentre la vita che il Regno di Dio, la signoria di Dio, vuole introdurre nel mondo non è una vita su misura umana, è una vita da contenuto divino, a livello divino, una vita autenticamente divinizzata.

I piccoli segni, come granelli di senape, che Gesù pone, sono rivelazione profetica, anticipatrice del Regno di Dio che non solo colma le attese del cuore umano, ma va al di là dei sogni più ardenti che l’uomo possa sognare.

 

Là, dove Dio afferma la sua signoria, l’uomo vive.

 

Questa frase è molto importante nel contesto secolarista e di umanesimo ateista che oggi pesa su tutti noi, del quale noi tutti siamo vittime e in un certo senso, senza rendercene probabilmente ragione, protagonisti. Là dove Dio afferma la sua signoria - dicono i miracoli di Gesù - l’uomo vive.

La parola d’ordine e il motto dell’umanesimo, dell’ateismo umanistico voluto, promosso in favore della liberazione dell’uomo e dell’esaltazione dell’uomo, il motto dell’ateismo contemporaneo, è che lì dove Dio vive, l’uomo muore.

Se sull’uomo si stende l’ombra di Dio, l’uomo intristisce e finisce male. Dunque bisogna che Dio muoia perché l’uomo possa vivere.

Il grido che dice: Dio è morto è tutto un grido nel quale si esprime l’esaltazione dell’uomo che finalmente è sicuro di aver ritrovato l’accesso alla vita, di poter disporre finalmente in maniera autonoma della vita piena.

I miracoli di Gesù ci attestano esattamente il contrario: lì invece fiorisce la vita dove arriva Dio. Per questo i miracoli sono una prefigurazione profetica del mondo che verrà.

I miracoli ci dicono che il mondo che verrà, che il mondo che Dio prepara per i suoi eletti, la vita che Egli ha in serbo per coloro ai quali dirà venite benedetti, questo mondo, questa vita, sarà il trionfo e la pienezza di tutte le dimensioni della nostra esistenza. Saranno l’attuazione insuperabile di tutti gli aspetti della nostra vita, non soltanto dell’aspetto, del momento spirituale ma anche del mondo terreno, materiale, cosmico.

La redenzione ha uno spessore cosmico altrimenti non sarebbe veramente redenzione, liberazione dell’uomo.

Egli è stato inviato nel mondo per compromettere Dio con tutta la realtà del mondo, perché Dio si sporchi con tutto quello che nel mondo c’è e la cosa sporca nel mondo non è certo la realtà materiale che non è per niente sporca.

Di questa S. Paolo dice nella lettera ai Romani che è stata sottoposta alla schiavitù in seguito al peccato dell’uomo. La cosa più sporca del mondo non è la materia come pensavano i manichei, la cosa più sporca del mondo è il cuore umano.

Questo cuore è inevitabilmente malvagio sotto il dominio del male se non viene liberato dal più forte. Così i miracoli sono espressione di Gesù, manifestazione del mistero di Gesù.

Non lo diremo mai abbastanza: la redenzione non è avvenuta per un passaggio di Dio che ha sfiorato col lembo del suo manto la polvere della nostra terra. La redenzione è avvenuta attraverso l’immersione di Dio nel fondo cupo, limaccioso della nostra esistenza. Gesù non ha toccato esternamente il calice della nostra vita (calice nella sacra Scrittura è la sorte che ognuno ha), l’ha preso e l’ha bevuto fino in fondo.

I miracoli di Gesù sono segni sì, questi, di Gesù che così interviene, potente, vittorioso, ma di una potenza che è la potenza dell’amore, che è misericordia, una misericordia che si fa talmente partecipe e solidale - dice Giovanni Paolo II - da diventare essa stessa la misericordia di Dio personificata.

La misericordia di Dio in Gesù ad un certo punto diventa nella sua potenza amorosa così debole da mendicare misericordia: la misericordia di una parola di conforto, la misericordia di una goccia d’acqua, la misericordia di un Cireneo che porta la croce insieme, la misericordia di uomini che non si accaniscano contro il Salvatore, interpretando come manifestazione di potere diabolico quelle che invece sono le espressioni dell’ amore misericordioso.

 

 

L’amore lascia liberi

 

"Scaccia i demoni nel nome del principe dei demoni".

 

Qui appare nella maniera più chiara, più sfolgorante come i miracoli non impongano la fede, non sopprimano quello che c’è di più prezioso nella risposta dell’uomo a Dio, la libertà; nulla conterebbe per Dio il nostro sì se non fosse un sì libero.

A Dio non interessano gli schiavi, a Dio interessano dei figli che gli si donino nella libertà, accettandone la liberissima paternità. E’ possibile di fronte a un miracolo di Gesù rimanere indifferenti, è possibile restare ostili fino al punto di fraintendere il significato? Come è possibile chiudersi a questi segnali di Gesù, a queste manifestazioni che Gesù pone non per dispensare dalla fede, ma per sollecitare alla fiducia, all’apertura, alla confidenza, all’abbandono fiducioso? I miracoli non sopprimono la libertà, non dispensano dalla fede, i miracoli sono manifestazioni personali di Gesù, il regno in persona che fortemente e delicatamente interviene nel mondo umano per manifestarsi come amore misericordioso.

Gesù che nei miracoli agisce con un’autorità veramente unica, in nome proprio, a differenza dei miracoli compiuti nell’Antico Testamento dai profeti e nel Nuovo Testamento dagli apostoli e da altri discepoli che fanno intervenire il nome di Jahvé.

A differenza degli uni e degli altri, Gesù agisce per autorità propria.

 

"Giovanetto, - al figlio della vedova di Naim - Io ti dico: Alzati!"

 

Io ti dico. Sempre questo io, questo che può sembrare altezzoso, arrogante, invadente anche se tale non è, anche se è un io diverso da tutti gli altri io. Ma non come è diverso l’io di ciascuno di noi, no, è diverso per una qualità totalmente diversa.

Anche nei miracoli come nella parole si esprime come la personificazione di Dio, egli agisce con l’autorità di Dio che non invoca come se gli dovesse venire per benevola largizione di Dio; egli sente di possederla come dono di Dio ma dono stabile che costituisce l’essenza stessa della sua persona, coincide con lo stesso Gesù.

E’ quello che pur volendo questi segni, nulla impone, se non di essere riconosciuto come l’inviato di Dio, la salvezza di Dio; perché così l’uomo riconoscendo che Dio lo visita in Gesù Cristo accolga questa visita, e come Zaccheo, che accoglie Gesù in casa, possa gridare a tutti la gioia della sua liberazione.

C’è un episodio a questo riguardo (Mc 9,14 e seguenti) dopo la scena della trasfigurazione. Gesù scende dal monte e trova nel piano il tumulto. E’ arrivato il papà di un ragazzo epilettico, ha chiesto ai discepoli che liberino il figlio suo da questa malattia che veniva attribuita alla possessione diabolica. Essi non riescono a guarire il bambino; allora, quando Gesù arriva, il papà si rivolge a lui e dice:

 

Dall’infanzia, anzi spesso (il demonio) lo ha buttato persino nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualche cosa, abbi pietà di noi e aiutaci.

 

Ormai non dispera, altrimenti non direbbe queste parole, ma è al limite della disperazione dopo aver provato con i discepoli inutilmente, si aspetta da Gesù, sì e no, l’intervento risolutivo. Gesù gli disse: Se tu puoi!. Potrebbe essere anche un punto interrogativo. Se tu puoi!.

Se io posso, non è questo il punto decisivo; non dipende da me. L’uomo aveva fatto appello a Gesù come se tutto dipendesse da Gesù.

Gesù dice - niente affatto, non dipende da me -. La soluzione che tu ti aspetti non è sospesa con incertezza al mio comportamento, alle mie possibilità. E Gesù continua: tutto è possibile a chi crede. Da te dipende; la mia possibilità è fuori questione; ma la guarigione che tu invochi, il miracolo che tu invochi dipende da te.

Forse mai come qui appare che Gesù con il miracolo si rivolga alla fede, a una fede germinale, per stimolarla, per sollecitarla a una maggiore generosità,

 

"tutto è possibile a chi crede".

 

Allora il padre è quasi terrorizzato da questa parola di Gesù che fa cadere su di lui tutta la responsabilità della situazione. La guarigione non dipende tanto da Gesù quanto dalla fede dell’uomo in Gesù.

Il padre si sente schiacciato da questa responsabilità. E se la mia fede non basta, se la mia fede è insufficiente, allora questa mia fede carente condannerà mio figlio a una vita infelice? No, allora non solo commovente, ma illuminante, perché così esistenzialmente vera, è l’altra parola di questo padre, una delle più belle preghiere del Vangelo.

Il padre del fanciullo rispose ad alta voce (grida): Credo, Signore, aiutami nella mia incredulità. Credo, voglio credere, aiutami nella mia incredulità. Sarebbe da tradurre alla lettera: aiutami nonostante la mia incredulità. Credo, ma insieme sento che la mia fede è debole, che la mia fede potrebbe non bastare a portare la responsabilità della situazione. Ho paura che questa fede sia troppo precaria e fragile e allora, Signore, credo, sì credo...

 

 

Gesù, l’Uomo Crocifisso. "Veramente quest’uomo era Figlio di Dio"

 

Avevamo cercato di rappresentare come potrebbe essere la modalità di rivelazione di Dio e avevamo ipotizzato che probabilmente questa rivelazione di Dio, doveva - o per lo meno poteva in maniera privilegiata - avvenire attraverso un uomo, ma non un uomo trionfale, ma un uomo sconfitto, perseguitato, l’uomo dei dolori.

Ora introduco questo tema nella riflessione apologetica, cioè nella presentazione dei motivi, dei fondamenti ragionevoli della nostra fede.

 

 

La morte del Giusto, argomento apologetico?

 

So che normalmente non figura nell’apologetica. Il tema della morte di Gesù apparentemente fa a pugni con l’assunto del l’apologetica che - ripeto - presenta i motivi di ragione per cui si giustifica la fede in Gesù come Figlio di Dio incarnato, come il Messia costituito nella pienezza del potere divino nei confronti della storia umana.

Ora la morte sembra dire tutto il contrario; la morte sembra sconfessare Gesù come il rivelatore di Dio, come il segno vero di Dio nella presenza del mondo, come il Messia, come l’inviato; Gesù morto potrebbe essere l’argomento principale per dichiarare che ormai di questo uomo ci si può occupare soltanto per dire che è stato un imbroglione o un esaltato, un allucinato, comunque un fallito. Ancora oggi, più di quel che si creda, la morte di Gesù è pietra di inciampo, scandalo nel cammino di fede verso Gesù.

Ma sembrerebbe veramente del tutto sconveniente voler fare dell’argomento della morte di Gesù un argomento di credibilità in favore di Gesù anche sul piano della riflessione razionale.

 

 

L’inituizione del centurione

 

Nonostante queste perplessità penso che abbia ragione il centurione romano dal quale, secondo i vangeli, sono prese le parole citate nel titolo di questa conversazione: "Veramente quest’uomo era Figlio di Dio" (Mt. 15.39). Il centurione romano è non soltanto un ufficiale pagano che si sarebbe detto del tutto impreparato a quell’evento, a vivere e intravedere la portata dell’avvenimento nel quale lui si era trovato coinvolto come colui che comandava il plotone di esecuzione contro Gesù.

Proprio quell’uomo, vedendolo spirare così - testualmente il Vangelo di Marco -, "vedendolo morire", non "vedendolo risuscitare", ma "vedendolo spirare così", disse battendosi il petto: "Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!" In Luca la formulazione risuona così

 

"Visto ciò che era accaduto, il centurione glorificava Dio: veramente quest’uomo era giusto".

 

Significato molto più ricco di quello che eventualmente poteva avere sulla bocca del centurione. Egli probabilmente avrebbe detto: quest’uomo era giusto, era amico di Dio, era vero uomo di Dio, era intimo di Dio, eletto di Dio: Figlio di Dio dunque in senso ampio.

Vedendolo spirare così disse: era veramente il Figlio di Dio quest’uomo, questo crocifisso. Quest’uomo era veramente giusto, perseguitato, vittima della ingiustizia umana, vittima di quella giustizia che tantissime volte è ingiustizia legalizzata, ma si aureola di giustizia.

 

 

La morte di Cristo come ostacolo alla fede

 

L’apologetica dovrebbe tenere le distanze per puntare solo sulla risurrezione perché di fronte alla morte di Gesù si sono squagliati i discepoli di Gesù, anche i più deboli.

Ricordiamo i discepoli di Emmaus (Luca 24): Speravamo che fosse Lui a liberare Israele. Ormai sono passati tre giorni da quando sono accadute queste cose. Tutto è finito, la nostra speranza è svanita, abbiamo sperato fino all’ultimo, ma una volta che interviene la morte non c’è più niente da sperare.

La speranza è veramente l’ultima dea che lascia il sepolcro. E il centurione stesso che dice: "quest’uomo é veramente Figlio di Dio", aveva sentito poco prima da Ebrei, che avevano sempre la Scrittura in mano, come sotto la croce avevano apostrofato Gesù:

 

I passanti lo insultavano e scuotendo il capo esclamavano: Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni salva te stesso scendendo dalla croce. Ugualmente anche i sommi sacerdoti.

 

Veramente contro di lui si fa l’unificazione del genere umano. E’ una cosa raccapricciante e raggelante, così era e così è perché il Vangelo è sempre attuale.

 

"Così gli scribi, facendosi beffe di lui, dicevano: ha salvato altri, non può salvare se stesso!"

 

Ha salvato altri, l’ammissione è veramente notevole, ma in un contesto, in una chiave di scherno: non può salvare se stesso. Il Cristo, il re d’Israele scenda ora dalla croce perché vediamo e crediamo. Se si schioda da quei due travi, se compie questo gesto di bravura, allora gli crederemo. Questo sarà l’argomento che eventualmente ci convince, ci impone la fede in lui, quella fede che non sarebbe fede se fosse veramente frutto di un intervento del genere.

Il centurione aveva sentito tutto questo, e, contrariamente alla teoria, alla filosofia, alla teologia contenuta in questi improperi, lui poveretto abituato a un lavoraccio tutt’altro che esaltante e nobilitante, vedendolo spirare dice: Costui era veramente Figlio di Dio.

Per il centurione la morte di Gesù è una rivelazione in senso lato, ma è una rivelazione. Per lui quello che è avvenuto sotto i suoi occhi non è stato soltanto fallimento e annientamento.

Chissà con quale sguardo, con quale acume interiore lui è riuscito a leggere in quell’evento che parlava soltanto di sconfitta e di sfacelo, un segno della presenza di Dio. Vedendolo spirare così ... Quando quel centurione raccolse quell’ultimo alito di Gesù non si sentì investito dal soffio glaciale della morte, si sentì scavato dentro e penetrato dentro da una forza di vita che lo fece trasalire e gli fece sentire vicino Dio.

In quell’amico di Dio sconfitto, in quel giusto così calpestato e umiliato egli avvertì la presenza di Dio che aveva un rapporto privilegiato con quell’uomo. Il centurione aveva l’animo sgombro da pregiudizi, per lo meno da un pregiudizio che condividevano tutti gli ebrei lì presenti, tranne Maria, il pregiudizio che il Messia dovesse essere una figura circonfusa di vittoria e di gloria. Quell’uomo non aveva certo la spiccata religiosità di Israele e della religiosità di Israele si occupava ben poco. A lui premeva solo che gli Israeliti, presi da messianismo politico e terreno, non creassero dei disordini e non mettessero in pericolo l’autorità romana in Palestina.

Che il Messia potesse essere un giusto umiliato e sconfitto questo era fuori completamente dai suoi calcoli. Per questo in un certo senso era più libero che non tutta quella cerchia di dotti. E se il centurione non riesce a penetrare fino alle profondità l’evento che si compie in quell’ora, però certo ne intravede la grandezza: quell’uomo era figlio di Dio, era giusto.

Il centurione non afferra tutto il mistero, però si avvicina al cuore del mistero più di tanti altri che sono presenti in quei momenti sul monte Calvario. Nel giusto così perseguitato e sconfitto, nel Figlio di Dio misconosciuto, il centurione fa come l’esperienza, mediata dal crocifisso stesso, del Dio vicino.

Vedendo spirare in quel modo Gesù, egli in quel tipo di morte sente che è all’opera Dio, che non si può morire così se non si è in qualche modo posseduti e invasi di Lui. Per cui il contatto con quella morte diventa per quell’uomo contemplazione di Dio presente nella morte di Gesù, rivelantesi nella morte di Gesù, di una rivelazione misteriosa fin che si vuole, ma reale.

Il volto di Gesù sfigurato dal dolore, diventa per il centurione il volto attraverso il quale per lui concretamente, in quel momento, si manifesta Dio.

Vedendo morire l’amico di Dio quell’uomo capisce in qualche modo chi è Dio amico di quel crocifisso, amico di quel maledetto. Dunque, dovremo dire che per il centurione almeno quell’evento, così come lui è riuscito a interpretarlo ed accoglierlo, certo illuminato e sostenuto dalla grazia, dall’amore misericordioso del crocifisso stesso, per quel centurione, quell’evento ha avuto veramente un valore apologetico.

Ha difeso veramente Gesù davanti a lui, mentre tutti lo sconfessavano, lo ha difeso, lo ha attestato come Figlio di Dio e come giusto.

E’ strano tutto questo, può sembrare inconcepibile per una apologia razionalistica, cioè per quella mentalità che è impermeabile alle vere ragioni del cuore, a quelle ragioni che forse la ragione da sola non è capace di conoscere, ma che viene però ad intravedere e ancora di più a rispettare, se rimane ragione aperta, disponibile all’ampiezza sconfinata del mistero o per lo meno all’ineffabile complessità della vita; se rimane ragione veritiera perché umile.

Alludo al famoso detto di Pascal: il cuore ha spesso delle ragioni che la ragione non conosce; un detto da usare con molte cautele, perché se è applicato rigidamente introduce nell’uomo una dicotomia insanabile e paurosa tra cuore e ragione, una spaccatura nell’intimo dell’uomo.

La ragione refrattaria alle ragioni del cuore, la ragione che non è capace di accettare le ragioni profonde del cuore, la ragione che è convinta di poterle ridicolizzare, non è la vera ragione.

Vera ragione è quella che si inserisce nel tutto dell’esistenza umana con il suo ruolo insostituibile ma non conclusivo.

La ragione che combatte le ragioni del cuore è ragione infatuata di sé: quando superbamente pretende di essere la suprema istanza del sapere, e per questo non può tollerare alcuna oscurità, non è vera ragione. Questa ragione aveva il povero centurione.

Le ragioni del cuore e le ragioni della ragione si possono armonizzare lì dove c’è un cuore sano, nella cui sanità vive anche la ragione che è ben lieta di poter consentire al cuore, dove il cuore offre le ragioni che non sono contro la ragione, ma la arricchiscono.

Il centurione, grazie a Dio, aveva la ragione tarata alla maniera giusta, ed è per questo che per lui lo spirare di Gesù diventa motivo anche ragionevole di credere in Gesù come un uomo giusto, e battersi il petto. La stessa identica ragione che non é all’opera nei discepoli di Gesù, non è all’opera nei sommi sacerdoti, non è all’opera nei dottori della legge.

Qui verrebbe da domandarci: ma cos’è questa ragione, e soprattutto chi è questo Gesù che viene riconosciuto da questa gente?  Sono interrogativi di fronte ai quali veramente noi intellettuali ci sentiamo quasi arrabbiati. Eppure l’interrogativo rimane lì, a meno che non vogliamo togliere dal vangelo certe righe, che valgono più di intere biblioteche scritte dagli uomini.

Il centurione che aveva quella ragione poté intravedere il mistero della gloria di Dio sulla faccia deforme dell’uomo dei dolori del venerdì santo. Adesso potremmo domandarci: cosa vide quell’uomo quando vedendolo spirare dovette dire, non per una coercizione esteriore, ma per una necessità del suo cuore: quest’uomo era veramente Figlio di Dio?

Che cosa vide che gli altri non videro? Intuì in quell’uomo il giusto, il Figlio di Dio, l’unico Dio, l’uomo con cui Dio intratteneva un rapporto tutto particolare di intimità e di familiarità per cui lui si sentì investire, lui che aveva messo le mani sulle carni di quell’uomo e lo aveva crocifisso, si sentì investire non dalla morte, ma dalla vita che quell’uomo portava dentro di sé come amico di Dio.

Ma come poté intuire, grazie a quali indizi, quello che intuì, sia pure illuminato dalla luce di Dio; lui centurione, braccio della giustizia romana che aveva assistito a chissà quanti processi e diretto chissà quante esecuzioni capitali, in base a quali indizi ha intuito in Gesù il giusto, l’eletto, il Figlio di Dio? Qui bisognerebbe fare una piccola riflessione sulla morte, un argomento macabro, ma inevitabile. La morte non è semplicemente l’ultimo istante in senso temporale della nostra vita. La morte è anche questo, ma non è solo questo, non è soprattutto questo.

Non è quel taglio con il quale la nostra vita viene recisa in un determinato momento che è l’ultimo. Come del resto neppure il concepimento nostro è semplicemente il primo momento temporale della nostra vita. E’ anche questo, ma è molto di più.

Chi riducesse il concepimento al primo attimo temporale di una esistenza che poi decorrerà nel tempo farebbe veramente uno sproposito. Il concepimento è il momento nel quale viene impostato un nuovo uomo, che comincia una storia. Il concepimento è quell’attimo estremamente ricco nel quale prende avvio una nuova esistenza con la sua originalità, con la sua irripetibilità, col suo destino unico. Non è solo il primo momento temporale, è questo nuovo concentrarsi d’essere grazie al quale sgorga una nuova vita umana.

 

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