| L'IMPREVEDIBILE E' ACCADUTO IN GESU' DI NAZARETH 
 Attese umane e risposte di Dio | 
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Solo l’amore è credibile
| Per concludere l’argomento della volta precedente Il Rivelatore, un uomo crocifisso, mi riallaccio al testo di Isaia, capitolo 53. L’autore stesso di questo capitolo è consapevole della straordinarietà del suo annuncio. 
 Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? E’ cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza da attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire come uno davanti al quale ci si copre la faccia. Era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che dà salvezza si è abbattuto su di lui. Per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada, il Signore fece cadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca, era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai tosatori e non aprì la sua bocca. Con oppressione e con giusta sentenza fu tolto di mezzo, sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l’iniquità del suo popolo fu percosso a morte. Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori, e quando egli offrirà se stesso in espiazione, vedrà un a discendenza e si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce, il giusto mio servo giustificherà molti, Egli si addosserà le loro iniquità. Per questo gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato tra gli empi mentre portava il peccato di molti ed intercedeva per i peccatori. 
 
Questo testo è forse la pagina più alta 
dell’Antico Testamento. A noi interessa per l’interrogativo che ci ponevamo, 
perché in questo brano la figura del giusto umiliato, condannato, figura 
intravista anche da Platone, viene a caricarsi di un ruolo straordinario. Il 
DeuteroIsaia con questa sua intuizione veramente grande per l’Antico Testamento, 
    che prelude ormai alla Alleanza definitiva, era tormentato 
    dall’interrogativo: come manterrà Dio le sue promesse? in che maniera 
    riuscirà ad imprimere nella nostra storia, storia del popolo d’Israele, la 
    svolta decisiva, quella che era stata annunciata qualche anno prima da 
    Geremia e da Ezechiele. 
Come riuscirà a 
trasformare quel cuore di pietra di un popolo ribelle in un cuore docile? come 
potrà instaurare un nuovo rapporto fra Iahvè e il suo popolo, in modo che questo 
popolo sia finalmente capace di rispondere con convinzione, con generosità, con 
abbandono confidente alle sollecitazioni del suo Dio? E la risposta è data 
proprio in questa pagina. Dio punterà tutte le sue carte per così dire, in vista 
della attuazione del suo progetto, su un uomo, su un giusto, su un servo, Il 
servo per eccellenza, contrassegnato da un destino atroce. Lo strumento di cui 
Dio si servirà per la realizzazione dei suoi disegni sarà un suo eletto, un suo 
amico, un suo profeta, un suo inviato, un suo rivelatore che nella sua sorte 
concreta porterà i segni non della gloria, ma dell’infamia, non della vittoria 
ma della sconfitta. 
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Lo scandalo della sofferenza ingiusta
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L’affermazione ha veramente qualche cosa di 
incredibile per l’Antico Testamento, perché il dolore del giusto, la 
persecuzione, la sofferenza del giusto 
    erano sempre stati un grande enigma per lo spirito di Israele che per lunghi 
    secoli non conosceva un vero e proprio aldilà, una retribuzione 
    ultraterrena: per lunghi secoli Israele si muove nella prospettiva molto 
    ristretta di una benedizione e di una maledizione che sono confinate nello 
    angusto ambito terreno. 
Per Israele l’Oltretomba (Sheol) è un 
regno che accoglie tutti i morti indistintamente in una esistenza insignificante 
dove tutti vengono livellati alla stessa maniera, buoni e cattivi, amici di Dio 
e nemici di Dio. Uno Sheol del quale né gli uomini né Dio si interessano, per 
    questo era tanto più angoscioso l’interrogativo: 
Ma perché il giusto sulla terra 
spesso deve condurre una vita così grama, quando invece il malvagio trionfa? Se 
tutto si gioca nell’esistenza terrena questo interrogativo non poteva non essere 
esasperato. Per questo leggendo i salmi si incontra più di una volta il dramma 
dell’anima di Israele di fronte a questo indecifrabile mistero del dolore 
innocente, e tanto più della sofferenza del giusto perseguitato per la 
giustizia. In questo contesto appunto il DeuteroIsaia si pone l’interrogativo: 
come Dio attuerà il suo progetto? E la risposta incredibile é: lo attuerà 
attraverso l’uomo dei dolori attraverso il suo servo per eccellenza che sarà 
insieme per eccellenza l’uomo della sofferenza innocente ed ingiusta, del tutto 
gratuita e per questo del tutto apparentemente assurda. | 
La vicenda di Geremia
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E’ quando il DeuteroIsaia propone come soluzione 
della storia di Israele o della storia semplicemente, questa figura di servo di 
    Dio così impregnata della sofferenza, quasi certamente il profeta ha davanti 
    a sé e porta in sé il ricordo ancora recente di Geremia, della sorte di 
    Geremia, vissuto pochi decenni prima. Questo amico di Dio è inviato da lui 
    in tempi tristi a un popolo spensierato, a un popolo dimentico della 
    alleanza, coinvolto in una spirale di peccato e di infedeltà, è inviato per 
    annunciare a questo popolo l’imminente rovina, il castigo. 
Geremia è un uomo dall’estrema 
sensibilità, attaccato alla sua patria e alla sua gente, è un uomo dall’animo 
mite, e semplice e proprio lui deve portare alla sua gente da parte di Dio 
questo messaggio: la fine è vicina; e il popolo, cominciando dai suoi capi è 
preso dalla follia, tutto deve andar bene per forza. C’è una legione di falsi 
profeti che cercano di blandire e lusingare l’anima del popolo e cercare di 
convincerlo che non deve temere nulla; e Geremia deve opporsi contrastare questa 
moda e per questo deve subire persecuzioni e dolori senza numero, viene 
imprigionato, torturato, malmenato. E’ un pover’uomo al quale la missione 
    ricevuta da Dio riserva invece che onore e accoglienza, delusione, amarezze, 
    persecuzioni. 
Il DeuteroIsaia, impressionato dalla vicenda di Geremia, deve 
essersi chiesto: ma come è possibile che ancora una volta si sia ripetuta nella 
nostra storia questa tragedia, che l’inviato di Dio venga respinto e maltrattato 
e che il messaggio che lui porta venga irriso e accantonato per una cecità che 
persiste tenace fino al momento in cui gli eventi, l’evento appunto della 
invasione della Palestina e della caduta di Gerusalemme per l’assedio dei 
Babilonesi, e il conseguente esilio, costringono ad apprendere, ma ormai è 
troppo tardi, la verità che Geremia ha annunciato? Perché questa costante del 
rifiuto dell’amico di Dio, dell’inviato di Dio? | 
L’intuizione: la salvezza viene dalla passione del Giusto
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Il DeuteroIsaia deve essersi detto in maniera 
abbastanza lucida: non è possibile che questo destino di persecuzione e di morte riservato all’ inviato di 
    Dio, non abbia nulla a che fare con la sua missione; deve essere anzi il 
    momento privilegiato del suo incarico; ciò che apparentemente è assurdo, la 
    sofferenza dell’amico, dell’eletto di Dio, rappresenta invece il momento 
    decisivo e più prezioso della sua missione. Non è come potrebbe sembrare 
    soltanto il suo fallimento. 
E sulla base di questa 
intuizione, sulla misteriosa preziosità e fecondità del dolore del giusto, 
sviluppando questa intuizione fino alle ultime conseguenze, il DeuteroIsaia 
    giunge alla conclusione che la vicenda umana, la storia umana vive 
    dell’apporto non tanto dell’azione, ma della passione degli inviati. Ciò che 
    risolverà i nodi più angoscianti della storia umana non sarà tanto l’azione 
    degli uomini che Dio invia come suoi missionari ma sarà la loro passione; la 
    passione, in altre parole, è più potente dell’azione, e lì dove l’azione 
    sembra fallire la passione riesce. 
     
Gli schemi umani sono 
    tutti ribaltati. Secondo noi solo l’azione è efficace e dove l’azione 
    dovesse fallire non c’è più alcuna risorsa; secondo noi la passione dice 
    passività e negatività e quindi è assolutamente sterile. Qui invece balza in 
    primo piano la figura di un uomo che è sostanzialmente passione perché è la 
    passione, non naturalmente in se stessa, come tale, ma la passione vissuta 
    con obbedienza, accettata secondo una disponibilità d’amore, a decidere 
    della sorte dall’umanità. 
L’asse della storia umana è data da un uomo 
sofferente, dal giusto che è tutto passione, uomo dei dolori, da quel giusto che 
probabilmente era lui stesso condizionato dalla mentalità comune, secondo cui 
quello che conta è l’agire, ma che a un certo punto condotto dallo Spirito di 
Dio è arrivato a scoprire che quello che conta veramente è l’offrire la propria 
vita in espiazione, come sacrificio che solo libera gli uomini dal male. Il DeuteroIsaia 
    guardando alla storia di tanti profeti che Israele aveva conosciuto e 
    soprattutto guardando a Geremia, conclude che alla fine verrà inviato da Dio 
    un giusto sul quale si abbatterà tutto il cumulo del peccato degli uomini, 
    un giusto che in qualche modo incorporerà in sé, quasi personificandola, 
    tutta la storia della malvagità della decadenza di questa nostra povera 
    vicenda umana. 
Un 
giusto che veramente come novello Atlante porterà sulle sue spalle e verrà 
schiacciato dal peso enorme e insostenibile di questo ammasso di male. Giusto 
apparentemente maledetto dalla mano di Dio, giusto respinto dagli uomini, 
emarginato dagli uomini e apparentemente condannato da Dio stesso, giusto 
costretto a subire questa sofferenza atroce di sentirsi bandito da consorzio 
umano, di sentirsi così bandito anche da Dio. E questo dice il DeuteroIsaia 
    dell’uomo al cui destino assurdo è legata la sorte di tutta l’umanità. 
E’ l’uomo la cui passione 
    riesce a realizzare il progetto di Dio. Il giusto cade, ma questa sua caduta 
    accettata liberamente, voluta in atteggiamento di disponibilità alla volontà 
    di Dio rappresenta la ripresa dell’umanità. Per questa sua caduta l’umanità 
    viene elevata. 
Abbiamo analizzato questo testo per 
ribadire e approfondire quella intuizione che era già abbozzata in Platone. Ci 
domandavamo: se Dio dovesse rivelarsi, quale sarà il volto dell’uomo attraverso 
il quale Dio si rivelerà? Stando a questa linea di intuizioni in un crescendo 
continuo da Platone fino al DeuteroIsaia, la risposta è abbastanza univoca: sarà 
un uomo sfigurato, abbruttito dal dolore, di fronte al quale l’umanità si 
sentirà autorizzata a dichiarare: 
  
non è lecito che egli continui a calpestare la 
nostra terra 
  
e insieme un uomo che nella sua esperienza si 
sentirà per così dire caricato della sua missione, davanti a Dio, di tutto 
quanto il peso del peccato dell’uomo. E’ un’ipotesi, soltanto ipotesi, molto 
sconcertante. E’ proprio questa la parola di Dio che noi ci aspettiamo quando 
desideriamo che Dio esca dal suo silenzio e si faccia parola? E’ proprio questa 
la nostra attesa, non vorremmo noi piuttosto avere a che fare con un ben altro 
Rivelatore di Dio, se dessimo ascolto a quelle che sono le nostre voci interiori 
più immediate e apparentemente più sicure e vere? Non sentiamo noi tutto sommato 
che la linea presentata dai tre testi è in profondo contrasto con quello che noi 
desideriamo riguardo ad una eventuale rivelazione, a quello che noi desideriamo 
per l’onore di Dio stesso? | 
Le attese umane e la risposta di Dio
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S. Paolo nella lettera ai 
    Corinzi, capitolo 1° v. 22, ha un testo che bene esprime questa nostre 
    attese: I Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza. I 
    Giudei, per dire una categoria dell’umanità, un modo di sentire, una 
    determinata mentalità, i Greci per dire un’altra mentalità, un’altro modo di 
    sentire. I Giudei chiedono i miracoli. 
Questo Giudeo c’è in tutti 
    noi e da Dio si attende che sia il Dio potente e che la rivelazione di Dio 
    sia corroborata dalla potenza; il Dio potente deve trasparire attraverso la 
    personalità concreta del Rivelatore. 
E se il Rivelatore di Dio 
    non parla con la sua figura, non parla di potenza non può essere rivelatore 
    di Dio, che se non è potente non è Dio; una potenza che significhi vittoria 
    facile, trionfo senza tante peripezie, per la via più breve, dominio 
    incontrastato che si impone senza troppe remissività e cedevolezze. Il greco 
    cerca invece la sapienza. 
Anche questo c’è in 
    ciascuno di noi, quel greco che in ciascuno di noi si compiace della 
    sofisticatezza di una sapienza raffinata, quel greco che in ciascuno di noi 
    a livello più semplice, più elementare, vorrebbe che tutto si svolgesse 
    secondo le norme sicure, collaudate del buon senso, sapienza terra a terra, 
    ma veramente decisiva, perché questo greco quando prevede una possibile 
    rivelazione di Dio si attende che l’uomo destinato a rivelare Dio sia un 
    uomo che si impone per lo splendore inconfutabile di una sapienza umana che 
    detta legge, che con piglio sicuro e categorico smonta tutte le obiezioni 
    contrarie e riesce a persuadere, a vincere convincendo, convincere così da 
    vincere attraverso la ponderosità delle sue argomentazioni. 
Un Dio sapiente dunque, di 
    una sapienza che invidiamo di possedere, e se in qualche modo crediamo di 
    esserne dotati ci compiacciamo. Dio se deve rivelarsi, se deve entrare nella 
    storia umana, deve lasciare il marchio della sua sapienza assoluta. Ma 
    quando pretendiamo questo facciamo veramente i conti con il Dio vivo o con 
    un Dio fatto a nostra immagine e somiglianza, ridotto alle nostre 
    proporzioni? Questa domanda ce la possiamo veramente porre. Talvolta quando 
    noi crediamo di pensare in grande di Dio - e di Dio dobbiamo pensare in 
    grande - non è forse riflessa in questo pensiero la logica puramente umana 
    della nostra meschinità? Questo Dio del quale pensiamo di poter prendere le 
    misure e al quale pensiamo di stabilire persino la taglia, è veramente 
    ancora Dio? 
Non ha forse ragione S. Agostino quando afferma 
che se Dio dovesse corrispondere a certe nostre attese, o dovesse conformarsi a 
certe nostre aspirazioni, dovesse essere rinchiudibile in certi nostri schemi, 
non sarebbe più Dio, ma sarebbe semplicemente la nostra misura, un Dio 
grande-piccolo come noi, meschino come noi, rinchiuso nelle anguste prospettive 
che la nostra mente elabora quando, travolta da passioni, da pregiudizi, da 
abitudini, cerca di stabilire modelli di valore che ben poco risentono della 
stessa ampiezza sconfinata su cui l’uomo capace di infinito riesce ad 
affacciarsi? Dio deve rimanere Dio. Qualsiasi ipotesi noi formuliamo sulla 
possibile rivelazione di Dio, una cosa dovrebbe rimanere chiara e condizionante 
per tutto il discorso: 
  
che Colui che si rivela è inaccessibile a noi. 
  
Dio rispetto alla nostra possibilità di 
percezione è il Dio del silenzio e solo per una libera, sovrana, inesplicabile 
decisione diventa il Dio della parola. Quindi non dovremmo lasciare troppo 
spazio alle nostre fantasie riguardo al Rivelatore di Dio potente e sapiente, se 
veramente prendiamo sul serio che il Dio che si rivela è il Dio assolutamente 
trascendente, assolutamente inaccessibile, Dio le cui vie non sono le nostre 
vie, i cui pensieri non sono i nostri pensieri, specialmente quando questo Dio 
esca dalla sua inaccessibilità e ci viene incontro, soprattutto quando questo 
Dio rompe il suo silenzio e diventa per noi parola. | 
Il Dio condiscendente
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Perché questo è il punto: la trascendenza di Dio 
non scompare quando Dio realizza nella rivelazione un gesto di condiscendenza 
verso di noi. Il Dio che ci viene incontro è un Dio veramente condiscendente nel 
senso etimologico del termine, che discende alla nostra portata, si lascia 
coinvolgere in un movimento che lo porta lì dove noi siamo. Discendenza che 
termina alla nostra esistenza creaturale come pure con la nostra condizione di 
peccato. Ma guardiamo pure il primo aspetto: la nostra condizione creaturale 
    impone a Dio una condiscendenza quando diventa per noi il Dio che si accosta 
    per rivelarsi, per diventare per noi tangibile, percettibile, compagno di 
    viaggio, solidale con noi nel nostro cammino. In questa condiscendenza Dio 
    rimane trascendente, non cessa di essere trascendenza. 
Il miracolo di questa 
    condiscendenza non incrina, ma vorrei dire esalta la trascendenza, 
    l’assoluta superiorità, incommensurabilità di Dio. Ogni discorso, ogni 
    ipotesi sulle modalità concrete di questa condiscendenza deve prendere prima 
    sul serio il fatto che Dio nel condiscendere non sminuisce affatto la sua 
    trascendenza. 
Questa trascendenza dà il significato ultimo alla condiscendenza perché quello 
che conta è che nel Rivelatore ci sia veramente presente l’Assoluto, il 
Trascendente, che nel rivelatore abbiamo a che fare semplicemente con uno di 
noi, ma con uno di noi che porta in sé la pienezza del tutt’altro da noi, quello 
che conta in questa condiscendenza è che Dio rimanga se stesso: il Trascendente. 
Questo fatto da solo ci impedisce di correre ipotesi di rivelazioni troppo 
familiari alla nostra immaginazione, alla nostra logica umana. Tanto più - e 
questo è il passaggio decisivo - che questa condiscendenza è solo fenomeno 
d’amore, è dall’inizio alla fine manifestazione d’amore. 
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La Rivelazione Evento d’amore
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E’ espressione di bontà, non può essere 
diversamente: Dio che si rivela, Dio che attinge alle sue riserve inesauribili 
d’amore, e si concede come amore. La rivelazione e rispettivamente il 
Rivelatore, proprio perché si tratta di un’uscita di Dio da se stesso per venire 
a noi, ha il suo orizzonte di intelligibilità e categorie di interpretazione 
meno inadeguate nel fenomeno dell’amore e della bontà. Non può presiedere alle 
riflessioni sulla modalità della rivelazione e sul rivelatore un tipo di 
pensiero che è comandato da categorie di potenza, da termini di dominio, di 
vittoria, da categorie di sapienza e di gloria che si impone dall’alto. Ogni 
fenomeno ha bisogno per venir rivelato di un approccio che sia conforme 
all’entità del fenomeno. Se voglio conoscere l’identità fisico-chimica uso il 
metodo elaborato da Galilei in poi, che è un metodo guidato dal pensiero 
    matematico; ma a un fenomeno d’amore non mi accosto con un criterio fisico e 
    una lista di formule. Se la rivelazione è condiscendenza, condiscendenza 
    nella quale Dio rimane il Trascendente, la rivelazione fenomeno d’amore, il 
    Dio trascendente dovrà essere il Dio che ci trascende, che ci supera in 
    quanto è amore, in quanto è potenza sì, ma potenza d’amore, in quanto è 
    sapienza sì, ma sapienza d’amore. 
La rivelazione è un fenomeno d’amore. Questo - dicevo - è un punto decisivo, lo 
dice la Dei Verbum al n.2: Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se 
    stesso e far conoscere il mistero della sua volontà. Piacque: dipende dalla 
    sua libera scelta, assolutamente insindacabile, che ha la sua ragione 
    d’essere soltanto in Dio e in questa sua compiacenza di rivelare se stesso e 
    il suo atteggiamento verso di noi, rivelare se stesso così come Egli è per 
    noi. 
     
Nella sua bontà: la prima 
    parola che viene usata è quella della bontà. La sapienza stessa che 
    giustamente subito dopo viene citata, é una sapienza relativa alla bontà; e 
    il Concilio poteva anche aggiungere, ma non l’ha fatto per non prestare 
    fiato a certi equivoci, poteva aggiungere anche nella sua potenza, ma anche 
    se avesse aggiunto tale parola, anche questa dovrebbe venire ricondotta alla 
    bontà. Continua poi il Concilio: Con questa rivelazione, Dio invisibile nel 
    suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi 
    per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Sono parole che 
    meriterebbero veramente di essere approfondite. Amore, amici; la rivelazione 
    instaura un rapporto di amicizia, deriva dalla volontà di Dio di aprire se 
    stesso in un atto di amore agli uomini, trattandoli come amici. La 
    rivelazione è quindi un fenomeno di amicizia, e non potrebbe essere 
    diversamente. 
A chi io rivelo me stesso, 
    se qualche volta rivelo me stesso? A chi apro il segreto della mia intimità 
    umana, a chi faccio dono di me stesso confidando me stesso in questa 
    profondità, se non ad un amico? Questa è l’esperienza umana, molto familiare 
    a tutti noi, e sappiamo che è questo valore che dà all’amicizia la sua 
    particolare bellezza e preziosità. Essere amici significa aprirsi l’uno 
    all’altro, per farsi dono l’uno all’altro ed accogliersi. 
La rivelazione è inscritta 
    in questa logica: Dio se si rivela lo fa semplicemente per aprire se stesso 
    all’uomo, per donare veramente se stesso in questa confidenza, in questa 
    condiscendenza che porta Dio accanto all’uomo, che lo porta dentro l’uomo, 
    perché la tensione dell’amore sta nel tentativo di trasformarsi l’uno 
    nell’altro rimanendo se stessi per poter godere di donarsi all’altro e di 
    ricevere il dono dell’altro. 
Guai infatti se dovesse 
scomparire l’alterità che è condizione indispensabile perché ci possa essere la 
    fusione reciproca dell’amicizia e l’apertura con la quale ci si abbandona 
    tendenzialmente l’uno all’altro per essere l’uno nell’altro. 
La condiscendenza del Dio 
    trascendente quando si rivela è una condiscendenza che tende all’immanenza, 
    una immanenza che naturalmente non annulla la trascendenza di Dio, ma porta 
    la trascendenza di Dio dentro di noi. Tutto questo o è amore, amore 
    infinito, oppure è del tutto inesplicabile, è puro accostamento di parole 
    senza significato. 
Solo l’esperienza 
    dell’amore, solo a partire da questa esperienza dell’amore e dell’amicizia, 
    noi riusciamo ad intravedere cosa significhi rivelazione di Dio, Dio che si 
    rivela, l’uomo al quale  Dio si rivela. Accettato questo presupposto, 
    che la rivelazione è dall’inizio alla fine un fatto d’amore, allora anche le 
    modalità della rivelazione, l’espressione storica concreta della 
    rivelazione, il rivelatore, deve portare non l’immagine della potenza e 
    della sapienza, ma il carattere dell’amore. 
Il rivelatore non può 
    essere semplicemente una personalità sfolgorante di potenza e di sapienza, 
    ma deve essere una personalità sfolgorante di amore; deve essere la 
    personificazione dell’amore, la sostanza pura dell’amore: amore al servizio 
    del quale vengono mobilitate tutte le altre energie, potenza e sapienza 
    comprese. Per questo solo l’amore è credibile, per questo solo la 
    rivelazione e il rivelatore che portano i tratti dell’amore, che sono 
    sostanziati d’amore, sono credibili. Non è credibile una rivelazione, un 
    rivelatore che avvenisse solo all’insegna della sapienza e della potenza. 
     
La rivelazione è credibile solo se 
porta l’immagine dell’amore. Solo l’amore è credibile come forma, come modalità 
storica di un’autentica rivelazione di Dio. Solo un uomo che sia amore può 
essere autentico portatore nel mondo della rivelazione di Dio. Solo nello spazio 
dell’amore di Dio pianta le sue tende nel mondo. Solo se dalla presenza del 
rivelatore si irradia amore, il rivelatore merita di essere preso in 
considerazione come possibile rivelatore. Se invece un uomo dovesse portare solo 
una logica di dominio, si dovrebbe a priori escludere la possibile 
manifestazione di Dio. Forse avevano ragione gli uomini come Platone, come il 
libro della Sapienza, come il DeuteroIsaia, quando proponevano, come massima 
    espressione della presenza del Giusto, giustificante gli altri, appunto un 
    uomo crocifisso, per dire l’uomo della sofferenza. Perché l’uomo crocifisso? 
    Perché solo l’amore è credibile. 
     
Ma - direte - perché deve 
    essere crocifisso? Perché questo amore deve assumere queste forme 
    raccapriccianti? Perché l’amore in questa forma umiliata, calpestata? La 
    risposta, penso, non é difficile: se la rivelazione è condiscendenza, fino 
    all’immersione nella nostra situazione umana, immersione che lo porta a 
    trasformarsi per essere autentico rivelatore, per essere autentica parola, 
    come potrebbe scendere nella nostra storia, grondante lacrime e sangue, 
    fatta di dolore, fatta di angoscia, fatta spesso di disperazione, se non 
    diventando amore sofferente? Non dunque un amore qualsiasi, ma un amore che 
    nell’impatto con questo mondo di male, di morte, diventa amore 
    misericordioso che condivide, che partecipa, si inserisce nel gioco, nel 
    dramma dell’esistenza umana. 
     
Perché, dice Giovanni Paolo II, 
    misericordia è il nome che assume l’amore, è la natura stessa dell’amore 
    quando si imbatte nel male, nel dolore, nella morte per cercare di vincerli, 
    di superarli, di trasfigurarli dal di dentro, non per contatto superficiale, 
    non con un tocco di bacchetta magica, ma dal di dentro. 
Solo così la rivelazione è pura condiscendenza di Dio nella 
nostra  condizione di peccatori, devitalizzati, condannati alla morte non 
solo fisica. Se l’amore porta Dio ad essere dove noi veramente siamo, 
l’atterraggio di Dio non può essere un atterraggio morbido, lo deve portare a 
compromettersi fino in fondo con il nostro dramma umano. Il rivelatore è un uomo 
crocifisso, perché solo l’amore è credibile, ma un amore nella nostra condizione 
umana è credibile solo se è l’amore misericordioso che fa sua la miseria umana. |