L'IMPREVEDIBILE  E'  ACCADUTO IN

GESU'  DI  NAZARETH

 

Gesù è veramente risorto

 

 

La morte come sintesi dell’esistenza

 

Ritorniamo sull’argomento: Gesù crocifisso: veramente quest’uomo era Figlio di Dio. Dicevamo che la morte non è semplicemente l’ultimo momento della nostra esistenza in senso temporale, così come il concepimento non è solo il primo momento.

La morte è in un certo senso - anche se stentiamo ad avvertirlo - sintesi di tutta quanta la vita, è il momento non solo nel quale la vita converge, ma il momento in cui una vita viene totalizzata, viene compendiata.

Secondo la teologia della morte di Karl Rahner, è il momento nel quale l’uomo può porre l’atto della libertà veramente completa liberata dagli impacci, dai limiti che prima gli impedivano di esprimersi sufficientemente.

E’ l’attimo in cui l’uomo può investire tutto il potenziale della libertà per dare, sia pure in rapporto con tutta la vita precedente, dare a se stesso l’impronta definitiva, perché la libertà non esiste semplicemente per scegliere sempre di nuovo questo o quello, ma per una scelta nella quale si consumino, per così dire, tutte le energie della libertà, così che attraverso questo estremo esercizio della libertà, la storia della libertà stessa venga a finirsi non per un intervento esterno, ma perché la libertà sia bruciata in quell’atto che aspettava da sempre per potersi realizzare definitivamente.

Questa è un’interpretazione filosofico - teologica riguardante la libertà, e naturalmente qui sintetizzata in maniera molto rapida. Se questo vale per ogni uomo, vale anche per Gesù il cui morire è l’espressione, il dare l’impronta definitiva, il condensare in un atto veramente totale la propria vita. Per questo, vedete, se presa in un giusto senso la morte é la rivelazione della vita. Nella morte appare quella che è stata la scelta di vita di una persona.

Non si deve applicare questo detto in maniera grezza, tanto da dire che se uno muore agitato muore da empio, perché sono morti agitati dei grandi santi, o per lo meno morti con il terrore della morte. Cito solo un esempio tra parentesi: S.Giovanni della Croce, il grande mistico, che in punto di morte è terrorizzato; un suo confratello, cerca di calmarlo invitandolo a pensare a tutte le buone opere compiute, ma ne è dissuaso da S. Giovanni il quale gli dice: "...Lasciate stare, ditemi piuttosto le mie colpe"; e così Michelangelo, grande artista e grande cristiano, dalla fede difficile, combattuta, in punto di morte si consola facendosi leggere i patimenti di Cristo.

Questo per dire che la morte può presentarsi tutt’altro che sotto il volto della tranquillità, ciò nonostante così può morire un grande santo; mentre uno può morire tranquillissimo e non è detto per questo che la sua comunione con Dio in quel momento sia perfetta. Quindi quando dico che la morte è rivelazione di vita, non intendo offrire pretesti per interpretazioni un po’ banali, certo che presa nella sua profondità questa affermazione è vera: come uno vive, così uno muore.

E’ sulla base di questa intuizione che il centurione può dire: veramente quest’uomo era giusto.

 

 

Che cosa ha visto il centurione nel morire di Cristo?

 

Ma che cosa ha colto nella morte di quest’uomo, quali lineamenti ha riconosciuto?

Non ha visto un uomo che affrontava stoicamente la morte; non ha visto nemmeno un giusto che veniva sopraffatto dall’ingiustizia altrui e accettava con rassegnazione eroica; non ha visto solo un uomo che moriva senza ribellarsi contro quella morte atroce, non ha visto solo un uomo che di fronte all’oltraggio degli avversari tace, un uomo che si lascia andare verso il destino di morte senza abbandonarsi al vittimismo, oppure ostentando chissà quale superiorità morale.

Che cosa ha visto? Ha visto un giusto ingiustamente condannato, perché il centurione probabilmente aveva avuto modo di seguire tutto il processo, aveva visto tutti gli sforzi di Pilato per liberare Gesù, per mandarlo assolto dal momento che non trovava in lui nessuna ragione per condannarlo.

Ha visto il cedimento morale di Pilato... Il centurione romano ha assistito a tutto questo e non può non averne tratto la convinzione che quell’uomo era innocente, un giusto che andava contro la sorte più ingiusta vedendo in questo destino non un destino contro il quale combattere, ma vedendo in esso una misteriosa disposizione positiva. In questo il centurione ha visto un uomo buono - e che fosse un uomo buono glielo confermavano proprio gli scherni con cui i capi del popolo insultavano Gesù dopo la crocifissione: "ha salvato altri, salvi adesso se stesso" - un uomo buono che non aveva fatto male a nessuno, ma anzi, aveva fatto del bene, era passato beneficando.

Certo, il centurione non poteva sapere tutto, ma dal contegno degli avversari e dal contegno stesso di Gesù durante la passione poteva intravedere molte cose. Mi fermo su alcuni aspetti.

Il modo con cui Gesù si lascia maltrattare proprio dalla soldatesca romana che inscena contro di lui quella burla sadica: è il re dei Giudei? Bene! Vestiamolo di porpora, mettiamogli una canna in mano e poi coroniamolo di spine: è re!

Il centurione ha visto come in tutto questo Gesù era veramente come agnello che veniva condotto al macello senza aprire la bocca, o meglio apre la bocca, ma non per piangere su di sé, per inveire, per maledire, ma apre la bocca per dire alle donne: " Non piangete su di me, ma sui vostri figli". Dimentico dunque di sé, ma preoccupato fino all’ultimo istante degli altri.

Un uomo che in questo senso non si appartiene, lì dove la vita che gli sfugge lo indurrebbe a ripiegarsi su se stesso, a concentrarsi su di sé per cercare di fermare questa emorragia, per trattenere fin che può la forza vitale. E’ un uomo che invece di badare a risparmiarsi, si consuma nel darsi.

Questo il centurione vede. Un uomo mite, paziente, alieno da ogni spirito di rivalsa e di vendetta contro i nemici e gli aguzzini di cui il centurione è il capo, pronto, proteso nel perdono. Il centurione ha sentito le parole:

 

"Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno".

 

E’ un crocifisso che ha il tempo, lo spazio interiore, la disponibilità per offrire perdono, un perdono illimitato, un perdono che non esclude nessuno, che abbraccia tutti, come lo fanno simbolicamente quelle braccia inchiodate sulla croce.

L’umanità, simboleggiata dagli Ebrei e dall’autorità romana, è tutta rivoltata contro di lui, dimostra in quel momento il suo triste volto: meriterebbe soltanto ribrezzo perché è una umanità che si presenta intrisa di ferocia, di ingratitudine, di volgarità, di stupidità, di viltà, di tradimento, di sadismo.

E’ un campionario di tutta la feccia dei sentimenti e degli atteggiamenti che si squaderna davanti a Gesù in quel momento. Bene, di fronte a questa umanità, guardando a questa umanità dalla croce, Gesù dice: Padre perdona loro. Uno che muore così, uno che spira così, chi è mai costui? Che cosa doveva pensare il centurione, quest’uomo veramente onesto, libero da pregiudizi, l’uomo per il quale le ragioni del cuore trovano spazio e accoglienza anche nella ragione? Non poteva non dire: veramente quest’uomo era Figlio di Dio.

Con un atto di fede parziale perché il termine Figlio di Dio detto dal centurione non avrà avuto la pienezza di quello del credo cristiano, era però quella fede incamminata verso una adesione completa, era germinalmente una fede completa.

Noi che sappiamo di Gesù molto più di quanto il centurione potesse sapere, di fronte a questa morte, a una morte nella quale sulla esibizione così generosa della malvagità e stupidità umane in tutti i loro aspetti, trionfa, prevale questo "perdona loro", noi di questo uomo possiamo dire qualche cosa di più di quello che ha detto il centurione, specialmente se teniamo presente che quest’uomo ha già detto prima di se stesso che era il Regno di Dio, la signoria di Dio, il trionfo dell’amore nel mondo, l’espressione dell’amore misericordioso che è più forte del male. Tutto questo dalla morte non viene smentito, ma viene confermato.

Un secondo tratto che il centurione può avere colto nel volto di Gesù morente. Non solo è un uomo che è capace di amare, dimentico di sé, ma quell’uomo veniva condannato a morte perché era stato presentato all’autorità romana come un sobillatore, che pretendeva di essere il Messia.

E il centurione forse aveva portato lui stesso in mano la tavoletta sulla quale in tre lingue: latino, greco ed ebraico, significative dell’universalità delle lingue, era scritto: Gesù Nazareno re dei giudei, motivo della sua condanna.

Ma oltre ad avere in mano questa sentenza, aveva potuto anche assistere al processo e sentire dal processo che Gesù veramente era stato accusato come re, come pretendente messianico regale, l’unica accusa politica che interessava i Romani, e che non aveva smentito davanti a Pilato, aggiungendo soltanto: "il mio regno non è di questo mondo".

Ma anche non avesse pronunciato queste parole il centurione sapeva che Gesù andava verso il Calvario perché accusato di essersi dichiarato re dei Giudei. Il centurione non può non essersi chiesto: come morirà questo re?

Pretende di essere re, come muore un re sulla croce? Ed un re, che essendo riconosciuto come re, all’interno di un regime teocratico, non poteva non avere un particolare rapporto con Dio, un re che doveva essere un eletto di Dio, un re sul quale si riverberava in qualche modo il fulgore della divinità.

Come morirà questo re? Sarebbe crollato quest’uomo al momento della morte, si sarebbe disperato, costretto veramente ad abbandonare ogni illusione per aprire gli occhi alla realtà? Avrebbe forse smentito le sue dichiarazioni sulla sua regalità? Come si sarebbe presentata questa regalità nel momento della verifica suprema, questa regalità così legata al rapporto con Dio? Gesù muore davvero.

Il buon ladrone dice: ricordati di me quando sarai entrato nel tuo regno, che vuol dire: quando avrai veramente preso possesso del tuo strano dominio, quando sarai installato come re, ricordati di me.

E il centurione sente tutto questo.

Il ladrone dunque fa appello alla regalità di Gesù, perché Gesù nel momento della affermazione suprema di questa incredibile regalità, compatibile, secondo il buon ladrone, con la croce, nel momento di questa installazione regale, si ricordi di lui. Gesù cosa risponde?

 

In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso.

 

Parole che per il centurione saranno suonate misteriose, oscure, ma che comunque una cosa dicevano, che quell’uomo moriva da re, convinto fino all’ultimo di essere re. Ognuno di noi quando muore non si porta dietro niente; quell’uomo si era portato dietro il palo della croce e davanti non aveva niente, umanamente parlando: niente.

Bene, quell’uomo che moriva senza portarsi dietro niente, rifiutato da tutti, nell’infamia della condanna a morte, la più obbrobriosa per i romani (Cicerone diceva: tra gente civile non si parla di crocifissione, la condanna è riservata agli schiavi e ai ribelli politici), quell’uomo, in quelle circostanze, dice al ladrone: Mi ricorderò di te nel momento del mio trionfo regale, mi ricorderò di te, oggi, ancora oggi, il trionfo avverrà e tu parteciperai al mio trionfo.

Lo diceva un uomo che non aveva nulla del millantatore e se anche lo avesse avuto non poteva continuare a fare il millantatore in quelle circostanze, un uomo in cui la credibilità regale veniva in quel momento evidenziata dall’estrema dignità di chi muore semplicemente amando. Tutto questo doveva far pensare il centurione. Magari noi leggiamo il vangelo senza pensarci, perché abbiamo carta davanti, ma quell’uomo non aveva davanti carta stampata, ma aveva davanti stampata la morte di Gesù.

Ma non basta. Quell’uomo sente non soltanto l’invocazione del perdono, da questo Padre misterioso, sente la parola dell’abbandono completo in quella situazione, a Dio:

 

Padre, a te affido la mia vita.

 

Quel Padre non poteva essere che Dio, perché solo a Dio si affida la propria vita nel momento in cui la vita ti viene strappata e soprattutto viene strappata per questa coalizione dell’umanità che si mette tutta contro di lui.

In quelle condizioni sente le parole della fiducia suprema di Dio. Condizioni di cui l’enormità viene sottolineata da un grido di Gesù che pare contraddittorio con quello: "Padre nelle tue mani affido il mio spirito", il grido spaventoso: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Certo, noi possiamo dire che quello è l’inizio di un salmo che termina con una grande espressione di fiducia in Dio, ma il centurione questo non lo poteva sapere, il centurione romano poteva soltanto cogliere insieme 1’abisso fra la condizione di Gesù sprofondato in una lontananza estrema da Dio e insieme sentire sgorgare da questo abisso di disperazione le parole: "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito".

Dunque, il centurione ha visto morire Gesù in un atto di estrema confidenza in Dio, di speranza assoluta che Dio non lo avrebbe ripudiato come gli uomini; che Dio non avrebbe annientato lui, la sua opera; una sicurezza incrollabile che Dio gli sarebbe stato fedele anche se sembrava in quel momento eclissarsi a lui, fedele fino al punto da assicurargli già in quell’oggi il trionfo definitivo.

Noi abbiamo ben più ragioni del centurione per poter affermare davanti a Gesù in croce: "veramente quell’uomo è Figlio di Dio". Figlio nel senso che ha una ricchezza, una pienezza che il buon centurione poteva solo vagamente intravedere; noi infatti vediamo, sia pure solo attraverso la mediazione dei vangeli, morire così quel Gesù, il quale non aveva dimenticato, per sé, di essere quest’uomo unico ed eccezionale, più grande di Mosè, più grande di Salomone l’atteso da Israele.

E’ l’inviato definitivo di Dio per l’ora ultima di Dio, ora nella quale Dio raccoglie veramente tutti i suoi figli dispersi, l’ora nella quale Dio fa trionfare il suo amore, elimina il male del mondo e così instaura un mondo che è degno di Dio; degno di un Dio la cui potenza è tutta a servizio della bontà.

L’uomo che ha preteso questo, che ha preteso di essere colui che perdona i peccati, che riconcilia i peccatori più ripudiati con Dio come Padre, questo uomo che come sappiamo ha avanzato queste rivendicazioni, che ha compiuto questi atti che lo qualificano come del tutto singolare, incomparabile, quest’uomo nel morire, in quella morte che è la rivelazione della vita, non appare per niente in contraddizione con tutta la sua vita, anzi, la morte fa brillare di luce ancora più vivida tutte le pretese che egli aveva nella sua coscienza.

E ancora dovremmo tenere presente in tutto questo i primi argomenti della rivelazione di Dio: che non può essere che un giusto, quel giusto - secondo Isaia 53 - che viene condotto al macello, mite, muto innocente, perché nel sacrificio totale di sé espii i peccati, porti su di sé tutti i peccati, si lasci scaricare addosso tutti i peccati e così, schiacciato da questi peccati, liberi l’uomo dal male che lo mina nel suo interno, che lo paralizza nella sua libertà, come libertà per amare, libertà per servire nell’amore, come libertà capace di donarsi.

La rivelazione di Dio è questo uomo, la gloria di Dio brilla sul volto disfatto di Gesù, nel dolore della sua passione e nella fine spaventosa della sua morte.

Perché solo l’amore è credibile.

Ed è questo che alla fine il centurione ha capito: solo l’amore è credibile, solo l’amore è regale, di quella regalità che è Dio. E parlare di questo è già parlare di risurrezione.

 

 

La vita consiste nell’amare

 

Mi introduco nell’argomento della risurrezione con questo accenno: l’amore è la vita. Questo noi in qualche modo lo intravediamo, per lo meno quando desideriamo di essere amati, allora intravediamo che la vita è degna di essere vissuta, è bella quando riceve amore, quando si apre alla luce, al calore dell’amore.

L’attimo fuggente che noi vorremmo fermare, come l’attimo della felicità, è l’attimo in cui ci sentiamo investiti dall’amore, dall’amore che inebria, dall’amore che porta, dall’amore che vivifica.

Partiamo quindi da questo punto di vista, dal desiderio di essere amati, di essere colmati da questa aspirazione di antico punto di vista che qualifica il rapporto tra vita e amore, perché non ci si può limitare a domandare amore, a invocare amore, perché se tutti invocano amore e nessuno lo dà, dov’è la vita?

Tutti morirebbero infelici, sarebbe veramente la fine universale perché ci sarebbe solo richiesta di amore, una richiesta essenziale per vivere, quella richiesta che deve essere appagata perché ci sia vita, ma se soltanto si domanda amore, allora la richiesta generalizzata e insoddisfatta in tutti significa veramente l’annientamento generale.

Quello al quale si sta assistendo oggi: tutti vorremmo essere amati, riconosciuti, apprezzati, ma troppi cercano di badare solo ai fatti loro, preoccupati soltanto di se stessi, accartocciati su se stessi come una foglia secca, per cui non c’è spirito di solidarietà, per cui non c’è misericordia, comprensione, mano tesa, e allora come va il mondo? Va come lo vediamo andare.

Il mondo - direte - è sempre andato così.

Forse sì, ma oggi va più precipitosamente di come andava una volta, più rabbiosamente, con prospettive più cupe di quelle che di per sé sempre hanno appesantito il cammino dell’uomo. Dicevo che c’è un altro punto di vista che permette di chiarire il rapporto tra vita e amore ed è il punto di vista decisivo: lì c’è vita vera dove uno dona amore, dove uno vive amore, non semplicemente ricevendolo, ma donandolo.

Anche questo non possiamo dire di non averlo capito qualche rara volta almeno nella vita, non è possibile che non abbiamo sentito che certi momenti della nostra vita erano validi solo per questo fatto: perché abbiamo amato, abbiamo donato gratuitamente magari con una gratuità che comportava vero sacrificio, senza aspettarci niente in contraccambio, ma anzi prevedendo che il contraccambio era ingratitudine; abbiamo amato solo perché amare è bello, perché amare è vita, perché amare è vivere e abbiamo avvertito che quello spendersi almeno un pochino, quel lasciarsi andare verso l’altro così da stupidi magari, - ma chi me lo fa fare? - quel lasciarsi andare era vivere, veramente vivere.

Vorrei dire che chi non ha sperimentato questo, non ha sperimentato che cos’è la vita umana, non sa vivere; è un uomo che non ha sperimentato nulla; non può distinguere perché S. Francesco è più grande di Stalin.

Non lo può dire, perché se la vita non consistesse nel donarsi, allora Stalin e Hitler potrebbero avere più ragione di S. Francesco o per lo meno altrettanta ragione di lui. Ci sono degli uomini che lo dicono, oggi, sempre forse, ma soprattutto oggi.

Sul mercato delle aberrazioni umane ci sono degli uomini che dicono che l’uno e l’altro vanno messi alla stessa stregua; importante è esercitare in qualche modo la libertà, per uccidere o per sollevare, per distruggere o per edificare non conta. Basta esercitare la libertà; e l’uomo, qualsiasi cosa faccia, per il semplice fatto che lui la fa, lui arbitro di tutto, lui signore, lui misura di tutte le cose, per il semplice fatto che fa una cosa, è fatta bene.

Il parametro, il metro di ogni valore, è solo l’uomo con la sua libertà: sbudelli uno, sta benone; aiuti uno mentre è sbudellato, altrettanto bene! Vorrei dunque vedere questi filosofi a letto in un ospedale a vedere se per loro l’infermiere che viene e li prende a calci o li ignora, o l’infermiere che invece viene e li medica, è proprio la stessa identica cosa. Chi non ha capito che la vita è dare amore, che è dando che si riceve - come affermava S. Paolo

 

è meglio dare che ricevere;

 

ed ancora S. Francesco:

 

non desidero tanto di essere perdonato, quanto di perdonare; di essere compreso, quanto di comprendere, di essere aiutato quanto di aiutare; perché è dando che si riceve, ...

 

- chi non ha capito questo, ripeto, non ha ragioni in sé per dire che il più grande criminale è diverso nella sua sostanza umana da un santo.

Se dunque il dare amore è veramente vivere, se il dare amore fino al dare la vita nella morte è vivere, anzi deve essere il massimo della vita, allora Gesù, l’amore misericordioso si realizzò pienamente nell’atto della morte quando si consumò sino in fondo, visse di amore.

Le ultime parole di Giovanni Paolo I, pronunciate all’Angelus, nell’ultima domenica della sua vita, terminavano così: "l’Amore vince". E’già la risurrezione; un uomo che muore così, non muore in realtà, specialmente se questo uomo era amore puro, perché è la vita nella purezza, non muore, non può morire. Per cui anche il discorso su Gesù risorto è contenuto in quello che abbiamo detto fin qui, ma rimarchiamo ancora questo argomento: Gesù è veramente risorto.

 

 

Gesù è veramente risorto

 

Può risuonare anche come una affermazione scandalosa, tanto scandalosa che essa incontra protesta, scetticismo, sorrisi di commiserazione negli altri e in noi. Paolo ci dice nella prima lettera ai Corinzi (15,12):

 

"Se non esiste risurrezione dai morti, nemmeno Cristo è risuscitato".

 

Non dice: se Cristo non è risuscitato, nemmeno i morti potranno risorgere, ma dice ai Corinzi, che non credevano nella risurrezione dai morti: se i morti non risorgono non è risuscitato nemmeno Cristo, perché Cristo non ha significato per se stesso, è tutto per noi, e se i morti non dovessero risorgere è segno veramente che Cristo non è risuscitato.

Questo è un test abbastanza efficace per misurare la consistenza della nostra fede nel Cristo risorto, questa fede così insidiata, minacciata, che è poi il cuore della fede, e non c’è da meravigliarsi se le pallottole dell’attentatore mirano verso il cuore, perché se l’attentatore vuole far fuori la nostra fede, mira al centro della nostra fede: Cristo risorto.

Non c’è da meravigliarsi che questo dogma centrale della fede venga irriso spesso dai non cristiani, e dai cristiani accantonato quando talora non sia da essi stessi ripudiato. Paolo, 1 Corinzi 15: "Se Cristo non è risorto, vana - cioè senza consistenza, senza significato, stupida, futile - è la nostra fede", e noi come cristiani saremmo i più disgraziati, i più illusi tra gli uomini perché fondiamo la nostra vita su Cristo risorto, nella ipotesi che non sia veramente risorto.

Fin d’allora erano state inventate storie o scuse per eliminare la realtà della risurrezione, fin d’allora si diceva che Gesù non era veramente morto sulla croce, ma poiché era una fibra veramente forte, la sua era stata una morte apparente, poi essendo stato unto con aromi e posto in un sepolcro fresco, scavato appunto nella roccia, si sarebbe rianimato e in qualche modo poi venuto fuori.

Ma del resto già nel vangelo troviamo queste cose: Gesù era stato portato via dai suoi discepoli che lo avevano nascosto e che avevano poi sparso la voce che era risorto. Oggi l’obiezione principale è molto più sottile: Cristo veramente non è risorto, ma la sua risurrezione consiste nel fatto che i suoi discepoli hanno creduto in lui e nella forza salvifica della sua morte.

Cristo è morto, è diventato polvere come tutti gli altri uomini, solo in una cosa si differenzia dagli altri: un gruppo di uomini proclama il messaggio che Gesù è risorto e con questo si vuol dire che la morte di Gesù, Dio l’ha offerta al mondo come grande proposta di riconciliazione, come grande proposta di salvezza.

Gesù è morto; e risurrezione significa solo che egli è stato creduto Salvatore di tutti attraverso la morte. Un’altra interpretazione della risurrezione di Gesù: sì, Gesù è risorto, però la sua risurrezione ha ben poco a che fare con il corpo che è stato messo nel sepolcro, a tal punto che se un giorno dovessero anche scoprire quel corpo, la fede non avrebbe nulla da temere, nemmeno la fede nella risurrezione, perché Gesù risorto come uomo non avrebbe nulla a che fare con il corpo che è stato messo nella tomba.

Se non è negazione della risurrezione, siamo lì sul filo del rasoio. Un’altra teoria: Gesù è risorto, ma la realtà di questa risurrezione non si è mai manifestata veramente in fatti percettibili. Gesù è risorto, ma i suoi che ne annunciano la risurrezione ne hanno fatto l’esperienza in un evento tutto interiore, al quale per loro non corrispondeva esternamente nulla di un Gesù che veniva loro incontro, che si manifestava. L’esperienza di Gesù risorto fatta dai discepoli è confinata tutta in un’esperienza interiore e non in un Gesù che veramente loro appare.

 

 

(per un’integrazione che risponda alle obiezioni qui in maniera sintetica formulate e approfondisca il significato della risurrezione di Gesù si rinvia a C. M. Martini, Nuovo Dizionario di Teologia Dogmatica, voce Risurrezione; e F. Ardusso, Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente Ed.San Paolo 1996, pp 141-144,161-167,169-175)

 

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