LA  STORIA  DI  ISRAELE

Questa  lezione  è  stata  curata  dal  Prof. Borgonovo  don  Gianantonio  (docente  di  teologia  biblica  presso  il  Seminario  Arcivescovile  di  Milano)

 

Saranno cinque  le lezioni che avranno come argomento il Primo Testamento.  L'argomento di questa prima lezione è la "storia di Israele". Aprendo la Bibbia, dalla prima pagina fino ad almeno la conclusione del secondo Libro dei Re, si ha l'impressione di essere davanti alla narrazione di una storia continuata; addirittura dall'inizio fino al momento di cui Avil-Marduk - secondo il testo biblico Evil-Merodàch - riabilita il re Ioiachìn nella corte di Babilonia, nel 562 a.C. Sembra dunque di essere davanti ad una storia continuativa e curata nei particolari. Del resto non si parla forse di "storia della salvezza"? Che cos'è dunque la storia della salvezza? Queste domande, a mo' di provocazione iniziale, sono cariche di problemi. Perché magari qualcuno con i capelli bianchi, potrebbe ricordare che prima del Concilio l'accostamento alla Bibbia veniva fatto dai pastori o dai catechisti più illuminati proprio come una presentazione della "storia sacra" (per quelli di voi che hanno qualche conoscenza in più ricordo l'opera dell'abate Giuseppe Ricciotti); quasi che la trama storica sia per se stessa rivelatrice della Parola di Dio. Lo sconcerto nasce dal fatto che questa "storia" (intesa come sacra) non sia "storia" (intesa come risultato delle disciplina storiografica scientifica). Ci si accorge che la distanza dagli accadimenti è notevole, per molte parti: ma allora che storia della salvezza è? È forse ideologia? Sono molti i problemi che dobbiamo affrontare, per mostrare la porta di apertura ad un testo che si presenta in riferimento alla storia di un popolo: il popolo di Israele, nel contesto dei popoli dell'antico vicino Oriente e nel contesto di tutta l'umanità (se si guarda fino ai primi capitoli di Genesi). In realtà bisogna comprendere nel giusto modo il significato di tale "storia", per evitare di essere smarriti, delusi, se non addirittura sconcertati dalla differenza che abbiamo tra Bibbia e la storia conosciuta da una ricostruzione - magari più critica - sulla base di altri elementi. Che tipo di storia abbiamo tra le mani? Che senso ha parlare di storia della salvezza? Certo è una storia che narra la salvezza di Israele e la sua identità in rapporto al Dio dell'Esodo. Ma quanto è storia e quanto è ideologia? Per fare questo cammino sarebbe necessario affrontare un corso dedicato a tutti i singoli episodi della storia di Israele per ricostruirli in maniera appropriata. Noi non possiamo fare ciò, ma ci basterà capire almeno alcuni problemi di fondo, ed è quanto faremo nella prima parte del nostro discorrere; in seguito darò un esempio soltanto: tra tutte le possibili pagine è conveniente, penso, guardare al momento in cui si narra dell'arrivo di Israele in terra di Canaan- Vorrei articolare la prima parte in questi quattro punti:

1- che cosa significa fare Storia? Questo punto di riflessione ci porterà a trovare un baricentro da cui partire. E spiegherò perché: perché la storia ha il bisogno di un punto prospettico da cui guardare il proprio passato e quindi, dopo aver chiarito il "fare storia", ci chiederemo dove è il baricentro della storia di Israele e da quale, punto prospettico leggerla.

2- Il rapporto tra storia e finzione, fra storia e narrazione.

3- La storia come confessione di fede, come testimonianza: essa ha una caratteristica sua peculiare, perché il testimone vale per la sua veridicità, il testimone parla perché vuole attestare la sua esperienza.

4- La "verità" della storia.

Finita questa prima parte ci dedicheremo ad un esempio in concreto, come già detto, il momento in cui Israele arriva in terra di Canaan.

1. Che cosa significa fare Storia?

La storia non esiste da sé; la storia è una ricostruzione logica che un individuo o un popolo dà del proprio passato, a partire da un momento che condiziona la lettura del passato. Se voi doveste narrare la vostra storia, lo fareste condizionati dal punto in cui siete giunti oggi. Se qualcuno di voi avesse avuto qualche esperienza "nodale" nella sua esistenza che avesse cambiato volto alla sua vita, darebbe una ricostruzione della storia della sua vita che sarebbe molto diversa da quella che avrebbe dato prima: perché è il futuro che illumina il passato, il passato è cieco. Il passato da sé non dice nulla: è soltanto il presente che illumina il passato. Il segretario personale del signor Adolf Hitler non conosceva meglio di noi la storia che stava vivendo. Non sapeva, non aveva la percezione di quel momento. Noi oggi comprendiamo molto di più del segretario di Hitler e del signor Adolf stesso, perché abbiamo la prospettiva capace di evidenziare la linea tendenziale dell'evoluzione di quegli avvenimenti: dove sono andati a finire, che cosa hanno provocato, quale è stato il fatto seguente... Fare storia è creare un'opera logica che mette insieme due o più fatti dicendo che uno è la causa e l'altro ne è l'effetto. Questo non si dà da sé: che cosa sia veramente l'11 settembre non lo sappiamo ancora: noi lo viviamo. Non sappiamo ancora che cosa significhi l'11 settembre; lo vedremo; lo comprenderemo. Il futuro è la chiave interpretativa del passato, e quindi ciascuno legge il suo passato e ciascun popolo legge il suo passato sulla base di un presente, di un momento che diventa, in qualche modo, l'evento catalizzatore per avere quelle prospettive di lettura che riguardano -per la vita personale - il passato dalla nascita fino a quel momento e - per un popolo - il passato dalle sue origini oscure fino ai suo presente. Se non confondo troppo le idee, pensate all'analogia con il Nuovo Testamento: che cosa vuol dire fare una storia di Gesù? Lo vedrete nelle lezioni successive? ma posso anticipare che quella storia è fatta a partire da un punto prospettico ben preciso: l'esperienza del Risorto. Se, per ipotesi, fosse stata fatta una storia di Gesù prima di quel momento, essa sarebbe stata radicalmente diversa. Tornando al nostro caso, qual è il momento cruciale, il momento di catalizzazione che permette a Israele di leggere il proprio passato? Non certo i giorni di Abramo. Non certo quelli dell'esodo. Nemmeno quelli della monarchia, ma quelli del dopo esilio. L'esilio, la catastrofe dell'esilio, ha provocato questo shock nella storia della fede in questo Dio dell'esodo che ha costretto i teologi di Israele - e quindi Israele stesso - a rileggere la propria identità guardando sino alle proprie origini. Non che non ci fossero memorie, scritte da qualche parte oppure legate a qualche istituzione, memorie che parlavano di uno o di un altro dei momenti della storia, ma in realtà si è creata la storia di Israele nel momento in cui si è "fatto" Israele, ed Israele è stato creato, ha trovato la propria identità, in quel momento del dopo esilio. A partire dal quel punto prospettico si è andati all'indietro a cercare le radici, risalendo fino all'alba oscura dei padri, alle memorie vaghe dell'esodo, alle memorie di quanto aveva preceduto l'insediamento nella terra, alle vicende legate di due regni del Sud e del Nord. Di questi, forse, si avevano ancora tra le mani annali, cronache (citate nei libri dei re) per cui si poteva ricostruire con più esattezza sia la cronologia, sia la durata, sia quanto era stato fatto dai re del Nord e del Sud. Questa storia è in realtà una storia che confessa l'identità di Israele, ormai maturo, nel dopo esilio. Leggere questa storia, che parte dalle origini, come se fosse una cronaca di quanto è avvenuto equivale a non comprendere il punto prospettico che è invece quel preciso Israele, quella maturità di fede, che porta con sé, sedimentate, ripensate, le memorie dei padri, le memorie dell'esodo, le memorie dei giudici, le memorie dei re, insomma tutto il proprio passato ormai riletto in chiave nuova.

2. Storia e finzione

Questo discorso ci porta ad un secondo punto di approfondimento: il rapporto che esiste tra la storia e la finzione, tra la storia e la narrazione. Fare storia è creare una finzione, in certo modo; non nel senso di un romanzo storico, ma in quanto si cerca di ridare vita ai personaggi che in questo modo diventano cattivanti per l'attenzione. Se avessimo davanti una ricostruzione del passato di Israele puramente documentaria, con atti notarili di quanto è avvenuto, nessuno sarebbe interessato a leggere questa storia. Essa è invece molto interessante per noi ancora oggi, perché è finzione. Da questo punto di vista la storia e il romanzo storico non sono molto diversi: lo sono principalmente per il dosaggio di alcuni elementi. La storia è una finzione che riduce al minimo l'intervento arbitrario dell'autore, cercando invece di far parlare al massimo i documenti originari in suo possesso. La finzione romanzesca, invece, è un campo libero in cui accanto ad alcuni elementi esattamente ricostruiti l'autore si diverte nel mettere in gioco i suoi personaggi, nel caratterizzarli, nel farli parlare e nel far loro esprimere proprie idee, proprie visioni.

3. Storia e testimonianza

Terza osservazione. Quello che noi abbiamo nella Bibbia non è semplicemente una storia di finzione o un romanzo, con alcuni elementi che si radicano in documenti, altri che invece vengono introdotti dalla libertà creatrice dell'autore. Quello che noi abbiamo nel racconto biblico è una testimonianza, o meglio un'auto-testimonianza: Israele che testimonia il proprio passato. La caratteristica del testimone è la veridicità non perché dica esattamente tutto - potrebbe avere anche delle amnesie o confondere delle cose - ma perché la ricostruzione offerta alla fine è attendibile, dice qualche cosa che effettivamente illumina ciò che è successo. Un testimone è tanto più verace quanto più riesce a dare l'interpretazione di ciò che è accaduto. Per fare questo non c'è bisogno soltanto dell'accuratezza dei documenti (è una cosa importante: vuol dire che un testimone è anche preciso, esatto, nella sua ricostruzione); ciò che importa soprattutto per un testimone è la visione d'insieme: la ricostruzione da lui data sia vera, corrisponda alla verità, dica la verità dei fatti. La storia che noi abbiamo nel racconto biblico non è documentaria, sebbene si fondi in alcune parti su documenti precisi, ma è una testimonianza e questo significa che è la sua verità globale ad essere presa e ad essere giudicata; non invece la composizione delle sue singole parti. A un testimone si concede che sbagli qualche dato... D'accordo, qualche memoria sfugge, ma non è questo il fatto più importante; lo è invece il suo afflato nel dire quello che ha vissuto, che ha sperimentato. Il giudizio dato nei confronti di questa testimonianza non è immediatamente sull'esattezza di tutti i dati, che pure sarebbe importante possedere per giustificare - come se fossero delle pezze di appoggio - la ricostruzione, ma è importante il fatto che egli mi dica, mi confessi, alcune realtà, mi dica che la sua vita è stata cosi. Quando questo ipotetico personaggio, questo popolo, mi dice: "Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande forte e numerosa" (Dt 26,5) più che l'esattezza di chi fosse quel padre, di quando avvenne quell'episodio, a me interessa sapere che il popolo consideri le proprie origini in quel modo.

4. La "verità" della storia

Ed ecco ora l'ultimo punto che vorrei presentarvi in questo quadro introduttivo e che è la somma dei tre precedenti: qual è la verità storica? Quando una storia è vera? Noi potremmo avere (facciamo un'ipotesi astratta per chiarimento) due casi estremi. Potremmo avere una storia precisa in tutti i documenti, esatta in tutti i dati offerti e comunque "falsa" nella sua ricostruzione. Oppure potremmo avere, all'estremo opposto, una storia imprecisa in tanti dati, lacunosa per quanto riguarda la documentazione, ma vera perché mi dice effettivamente la linea tendenziale che si è avuta. La contrapposizione è estremizzata per farvi capire la differenza tra esattezza e verità. La verità è qualcosa che non si dà con una documentazione più precisa, ma con una intuizione (come diciamo a livello umano), con una ispirazione (a livello teologico), che mi facciano comprendere l'anima di quanto è successo. Tutto quanto è avvenuto in precedenza ha un senso; che senso ha? Questo senso io lo scopro, e lo confesso, attraverso l'atto di fede che guarda alla storia come teatro dell'opera di Dio. Attravèrso questo atto di fede io dico il "vero" della storia, anche se magari lo dico in modo inesatto. Mentre l'esattezza si può sempre recuperare, la verità è qualcosa di più radicale, più fondamentale: questa non si può averla semplicemente sulla base di una documentazione maggiore, perché quando anche avessi una storia esatta in tutti i suoi particolari non avrei ancora una storia vera. La storia vera è opera di grandi pensatori, e nel caso specifico di persone che non solo hanno pensato profondamente ma che sono state animate dallo Spirito: quello stesso Spirito, il quale lungo i secoli aveva suscitato i grandi personaggi, ora suscita anche degli interpreti capaci di dare un senso a quella Storia. Quello stesso Spirito continua, ancora oggi, la sua opera in mezzo a noi nel momento in cui leggiamo questi eventi non giudicandoli con l'occhio dell'esperto storiografo, cercando in essi l'esattezza, ma con l'occhio del credente alla ricerca in essi della verità.

5. Storia e "memoria fondatrice"

Dagli studi di Maurice Halbwachs vorrei dedurre la funzione della memoria, con l'intento di meglio spiegare il rapporto tra storiografia moderna e storia narrata nelle tradizioni bibliche. Mi limito qui a mettere in luce quattro dimensioni: a) memoria e istituzione; b) memoria e storia; c) memoria e scrittura; d) memoria ed evento religioso.

a) Memoria e istituzione

Presentando al pubblico italiano, nel 1987, la versione di La mémoire collective, p. Jedlowski sottolineava così il contributo centrale di Halbwachs alla sociologia del maestro Durkheim:

"Passando progressivamente dallo studio della memoria come funzione psicologica a quello delle funzioni sociali della memoria, Halbwachs apre le porte ad una prospettiva del tutto originale. Questa prospettiva è quella secondo cui la memoria stessa può essere considerata come un'istituzione, può venire affrontata cioè come problema delle forme istituzionalizzate che l'immagine del passato assume nella coscienza dei gruppi e dei modi e le forme di questa istituzionalizzazione. Nessun gruppo potrebbe del resto riprodursi nella propria identità senza produrre e conservare un'immagine del passato consolidata, almeno per alcune delle sue linee ritenute fondamentali e valide dall'insieme dei membri".

In effetti, il processo di "istituzionalizzazione" non equivale alla generica"collettivizzazione" dei ricordi, perché se è vero che la memoria collettiva trae la sua forza dal fatto che ha il supporto dell'istituzione, dall'altra parte a ricordare sono sempre gli individui che fanno parte di quel gruppo. La forza sta esattamente in questo reciproco sostentamento tra ricordi comuni e ricordi individuali, in quanto "ogni memoria individuale è un punto di vista sulla memoria collettiva", "questo punto di vista cambia a seconda del posto da me occupato" e "questo posto stesso cambia a seconda delle relazioni che io intrattengo con altri ambienti sociali". La chiave di volta del pensiero di Halbwachs sta dunque nel fatto che il ricordare è l'azione di un gruppo entro cui si colloca anche l'azione del singolo, in una necessaria dialettica: il passato infatti non è qualcosa di stabilito una volta per tutte, ma è una memoria che si conserva nella vita degli uomini, nelle forme istituzionali della loro vita e nelle corrispondenti forme di coscienza.

b) Memoria e storia

In seconda istanza, è di capitale importanza la distinzione introdotta da Halbwachs tra memoria collettiva e storia. Esse sono due figure diverse e complementari per la ricostruzione del passato. Il punto di partenza è la considerazione di due memorie distinte, che si potrebbero chiamare memoria interiore e memoria esteriore; oppure memoria personale e memoria sociale. La scelta terminologica migliore cade su memoria autobiografica e memoria storica:

"La prima sarebbe aiutata dalla seconda, poiché dopo tutto la storia della nostra vita fa parte della storia in generale. Ma la seconda sarebbe, naturalmente, molto più estesa della prima. D'altra parte, essa ci potrebbe rappresentare il passato soltanto in forma sintetica e schematica, mentre la memoria della nostra vita ce ne presenterebbe un tableau molto più continuo e più denso".

Eppure, questa distinzione è ancora superficiale. Per rendersene conto, basterebbe immaginare di dover narrare la propria vita con i riferimenti cronologici e spaziali ad un gruppo di aborigeni australiani (supponendo non vi sia difficoltà linguistica). I nostri ricordi sono collocati in un tempo e in uno spazio condiviso con gli altri del nostro gruppo e hanno senso solo in riferimento alle coordinate del gruppo di cui si è parte. Per di più, i quadri collettivi della memoria non si riducono a date, nomi o formule, ma rappresentano "correnti di pensiero e di esperienza in cui noi ritroviamo il nostro passato solo in quanto ne è stato attraversato" Per questa ragione, l'attribuzione stessa di storica al concetto di memoria diventa problematica per Halbwachs e sarebbe meglio mantenere distinti i due termini e "non parlare affatto di memoria storica". Infatti, storia e memoria collettiva sono divergenti sotto diversi aspetti:

"La storia non è tutto il passato, ma non è nemmeno tutto quanto resta del passato. O, se si vuole, accanto a una storia scritta, vi è una storia vivente che si perpetua o si rinnova attraverso il tempo e dove è possibile ritrovare un gran numero di queste correnti antiche, che erano sparite solo in apparenza. Se non fosse così, avremmo forse il diritto di parlare di memoria collettiva, e quale servizio potrebbero renderci dei quadri che potrebbero sussistere solo allo stato di nozioni storiche, impersonali e spoglie? I gruppi, in seno ai quali si elaborarono delle concezioni e uno spirito che regnarono per un certo tempo su tutta la società, si ritirano rapidamente e fanno spazio ad altri che a loro volta, per un certo periodo, reggono 1o scettro dei costumi e plasmano l'opinione seguendo nuovi modelli".

Storia e memoria collettiva non sono due campi di indagine sovrapponibili, sebbene non contradditori né totalmente contrari. Per questo, non possono essere studiati con i medesimi strumenti. Se per "storia" intendiamo infatti la serie di eventi di cui la storia critica conserva il ricordo, non sta in essi l'essenziale contenuto di quanto porta in sé la "memoria collettiva". Essa è "una corrente di pensiero continua, d'una continuità che non ha nulla di artificiale, dal momento che mantiene del passato solo quanto è ancora vivo o capace di vivere nella coscienza del gruppo che la conserva". Non si tratta solo di diversi piani di interesse, per cui capita quanto accade per molti romanzi: in molti di essi poco importa che si sappia con precisione in che epoca si svolgono i fatti narrati e se anche fossero trasportati ad altro periodo, non perderebbero nulla della loro rilevanza esperienziale. Mentre la grande storia può e deve essere indagata con la ricerca documentaria, per raggiungere idealmente il massimo della documentazione, la memoria collettiva ha bisogno di gruppi sociali per essere "ricordata" e in essi vige una sorta di legge sociologica, secondo la quale l'interesse dei membri per la memoria del loro passato è inversamente proporzionale all'estensione del gruppo stesso:

"Ciascun gruppo [...] si divide e si aggrega, nel tempo e nello spazio. È all'interno di queste società che si sviluppano memorie collettive originali che conservano per un certo tempo il ricordo di eventi che hanno importanza solo per loro, ma che interessano tanto più i loro membri quanto meno sono numerosi".

In effetti vi sono molte memorie collettive, mentre la storia non può che essere una. E mentre il desiderio dello spirito storico è sempre stato di scrivere una storia universale, non può esistere una memoria universale:

"la storia è interessata soprattutto alle differenze e fa astrazione delle somiglianze senza le quali però non si avrebbe memoria, dal momento che ci si ricorda solo di quei fatti che hanno come tratto comune di appartenere a una stessa coscienza ".

Esattamente all'opposto: quando la storia astrae e semplifica (altrimenti non riuscirebbe a documentare se non brevi frammenti di tempo e spazio), la memoria collettiva indugia, specifica e analizza; quando la storia descrive analiticamente (per stabilire la progressione cronologica esatta e l'esatta ubicazione geografica), la memoria collettiva  passa oltre, confonde e semplifica. Agli occhi dello storico l'acribia del particolare è professata in vista di una messe finale dei dettagli in grado di creare un quadro globale; per la memoria collettiva vale il cammino opposto: dal quadro generale presupposto, si inserisce la memoria del proprio gruppo che ha bisogno di trovare e mantenere la propria identità. Lo sguardo dello storico mira ad essere imparziale ed obiettivo, i1 più universale possibile; la memoria collettiva è sostenuta da un gruppo limitato nello spazio e nel tempo, e mira a costruire (o manifestare) l'identità del gruppo e perciò è necessariamente "di parte".

c) Memoria e scrittura

Vi è una terza dimensione della figura della memoria collettiva tratteggiata da Halbwach, ovvero la sua relazione con la scrittura. Vi sono anche a questo riguardo acute osservazioni meritevoli di attenzione, in vista della creazione della nostra originale funzione. La fissazione della scrittura, in un certo modo, segna la data di morte della memoria collettiva: "la storia comincia là dove finisce la tradizione, momento in cui la memoria sociale si estingue o si decompone". E' pur vero che sarebbe inutile fissare per iscritto un ricordo, se esso fosse ancora vivo in un gruppo:

"Il bisogno di scrivere la storia di un periodo, di una società, ed anche di un individuo sorge quando essi si sono già tanto allontanati nel passato perché si abbia ancora delle chance di trovare per molto tempo ancora attorno a sé molti testimoni che ne conservino qualche ricordo. Quando la memoria di una sequenza di eventi non ha più per supporto un gruppo, quello stesso che vi fu immischiato o che ne subì le conseguenze, che vi assistette o ne ricevette un racconto vivo dei primi attori e spettatori, quando questa si disperde in qualche spirito individuale, sperduto in nuove società non più interessate a questi fatti, in quanto a loro indubbiamente estrinseci, allora, il solo mezzo per salvare tali ricordi, è di fissarli per iscritto in una narrazione coerente, dal momento che, mentre le parole e i pensieri muoiono, gli scritti restano".

Proprio su questo punto, mi sembra che ci possa essere un fecondo complemento alle considerazioni di Halbwachs. L'estremizzazione della dialettica tra storia e memoria collettiva ha forse fatto dimenticare una terza via, più frequente nelle società antiche che non in quelle evolute del nostro momento storico: ovvero la scrittura della memoria collettiva, per ragioni religiose e/o politiche. In questo quadro sociale, la scrittura del proprio passato non sarebbe un passaggio alla storia, ma - pur rimanendo congruente alla figura della memoria collettiva - l'opera scritta diventerebbe il medium che segna il passaggio a un nuovo momento storico, sociale e culturale di quel gruppo, che s'identifica in quell'identità "trovata" nel proprio passato e nel "patto costituzionale" sancito per il proprio futuro.

d) Memoria e fatto religioso

Ci sarebbe da studiare più a fondo l'opera di Halbwachs dedicata ai luoghi religiosi della Terra Santa. Ma basti rilevare le due leggi circa l'evoluzione della memoria collettiva in campo religioso, messe bene in evidenza dallo studio di J.C. Marcel e L. Mucchielli:

1) la legge della parcellizzazione: più eventi sono localizzati nel medesimo luogo; oppure un luogo può duplicare la memoria con l'aggiunta di altri eventi. Ad es., la grotta di Betlemme con il luogo della nascita e della mangiatoia. In questo modo, il ricordo si rafforza e non corre il rischio di affievolirsi;

2) la legge (inversa) della concentrazione: nel medesimo luogo o nei suoi dintorni si concentrano diversi ricordi. Sul monte Sion (cristiano) a Gerusalemme si concentrano il Cenacolo, la Dormizione, la tomba di Davide, la casa di Caifa, il quartiere esseno... La concentrazione permette di abbracciare con una sola celebrazione diversi ricordi.

Ciò significa che quanto più i ricordi diventano importanti, tanto più si staccano dal passato. La nuova memoria li trasforma e li stravolge, cambiandone la cronologia o la localizzazione. Ma ciò significa anche che non è possibile affrontare la memoria collettiva con la stessa metodologia della storiografi a documentaria, perché

"la società religiosa vuole persuadersi di non aver cambiato, mentre tutto si trasforma attorno ad essa. Essa non vi riesce che a condizione di ritrovare i luoghi, o di ricostituire attorno a sé un'immagine almeno simbolica dei luoghi in cui essa si è dapprima costituita. I luoghi partecipano infatti della stabilità delle cose materiali ed è fissandosi su di essi, richiudendosi nei loro limiti e piegando la propria attitudine alla loro disposizione, che il pensiero collettivo del gruppo dei credenti ha la maggiore chance di immobilizzarsi e di durate: è proprio questa la condizione della memoria".

Potrei prendere come punto di partenza per il mio contributo la figura di memoria collettiva già elaborata da Maurice Halbwachs. Ma, senza alcuna presunzione da parte mia e scusandomi in anticipo dell'affermazione, la considero incompleta, soprattutto in quanto gli interessi sociologici di Halbwachs sono lontani dalla mia competenza e quindi dalla finalità di costruire una funzione che possa essere utilizzata per meglio comprendere le dinamiche messe in azione dalla scrittura di un testo biblico. Senza stare a riprendere l'analisi sin qui svolta, vorrei aggiungere qualche particolare - che non ritengo affatto marginale - per rendere più fruibile, da parte mia, le sollecitazioni del sociologo francese. In effetti, mentre l'interesse di Halbwachs è centrato su una serie di equazioni che forniscono gli strumenti per pensare sociologicamente il problema dell'identità del singolo che partecipa contemporaneamente a più memorie condivise, il mio interesse è l'applicazione della figura della memoria collettiva alla tradizione biblica e, in particolare, al momento in cui questa assume la forma di attestazione scritta. Il concetto che vorrei qui introdurre, partendo da Halbwachs, è la funzione di memoria fondatrice. Si noti che in quanto vado discorrendo, vi sono tre concetti da calibrare:

a) la "funzione": si tratta di una "funzione", e non semplicemente di "figura". Essa infatti deve entrare in gioco in determinati momenti (ad es., quando la legge diventa scrittura) e, a partire dai parametri sociologici, storici e teologici, deve risolvere i problemi che quel momento specifico presenta;

b) la "memoria": è il concetto che Halbwachs ha contribuito a formulare in modo magistrale. Si tratta di memoria, e non semplicemente di ricordo: è il passato che viene plasmato, perché la ricostruzione di ogni passato corrisponde alle esigenze, agli interessi, ai problemi e alle attese della società presente. Ogni società costruisce per sé un passato in sintonia con il pensiero dominante della società stessa. È questo, in effetti, il contributo originale di Halbwachs:

"La conservazione del passato è sempre un fenomeno dinamico. Ora, questa dinamica non esclude il conflitto. Di fatto, l'idea forse più fruttuosa che si può ricavare da Halbwachs è proprio quella che il passato, oggetto di ricostruzioni successive e suscettibili di modifica, sia una sorta di posta in gioco fra interessi e gruppi contrapposti".

c) il valore "fondatore": ma proprio a questo punto i miei interessi si separano da quelli del sociologo e si ricongiungono invece a quelli dello storico delle religioni e di coloro che studiano l'archetipologia simbolica. Per Halbwachs, le rappresentazioni collettive non sono preesistenti alle coscienze dei singoli e non posseggono alcun potere coercitivo; esse sono piuttosto il risultato di una dialettica tra soggetti e gruppi, il cui esito non può essere stabilito a priori. Giustamente, quindi, la figura istituita è stata da lui chiamata memoria collettiva. Per il mio tipo di interesse, invece, è importante ricuperare il senso "fondatore" della memoria di un gruppo, analogamente al mito fondatore. Il mito esprime in modo eccellente la sua realtà ontologica, perché esso "si identifica con l'ontologia: parla solo di cose reali, di ciò che è realmente accaduto, di ciò che si è manifestato totalmente". Anche la memoria può e deve assumere un'analoga valenza fondatrice, nel senso che essa è sempre espressa da un gruppo o da una società che non solo costruisce il proprio passato a partire dagli interessi del presente, ma anche - in un circolo ermeneutico non vizioso - si trova ad essere guidata dal passato a determinare le attese e le prospettive del proprio presente.

IL BARICENTRO DEL MOMENTO DEUTERONOMICO (=DTN)

La scrittura del Deuteronomio, che colloco immediatamente dopo il "ritorno" dall'esilio babilonese (521 a.C. con Aggeo e Zaccaria abbiamo le attestazioni di ripresa della vita amministrativa in Gerusalemme) ovvero nel momento della costruzione del cosiddetto "secondo tempio" (520-515 a.C.), è il momento in cui nasce l'"Israele" della fede. E questo il momento in cui entra in gioco la funzione di memoria fondatrice di cui ho parlato poco sopra: il ricordo del passato viene messo per iscritto e diventa la "costituzione" dell'identità del popolo di JHWH. Sotto questo punto di vista, si potrebbe ricuperare il valore di ricapitolazione per il quinto libro della Tórà: la scrittura del libro è infatti un momento di creazione e insieme di obbedienza, come esige la memoria fondatrice, per coloro che si riconoscono in questo Israele. Non rinnego quanto ho avuto già modo di scrivere, definendo il libro del Deuteronomio come proto-nomio, in quanto nocciolo originario che dà forma all'intera Tórà di Mosè e punto generatore da cui essa nasce, come opera letteraria scritta. Piuttosto, vorrei ricuperare il senso della deuterosi di P. Beauchamp, sia pure con la categoria di ricapitolazione, ovvero il momento cruciale in cui la memoria fondatrice che ha generato l'"Israele" della fede si fa scrittura. Come ho già cercato di mostrare altrove, l'efficacia performativa della legge DTN non riguarda solo alcuni aspetti della vita di Israele, ma propriamente pone in essere l'entità stessa di "Israele" attraverso la scrittura del séper hat-tórà. Ciò cui si assiste in questo momento è qualcosa di veramente unico e decisivo: non si tratta solo di una revisione o di una ri-scrittura di alcune leggi, e nemmeno di una parziale riforma che mira a riadattare a nuove situazioni qualche istituzione o qualche marginale elemento della tradizione. Il discorso fatto in quel contesto, tuttavia, merita di essere completato. L'impressione che si potrebbe evincere dal mio studio precedente è troppo unilateralmente dominata dall'aspetto dell'innovazione. Senza negare questo aspetto di autentica novità, bisogna tuttavia sottolineare anche il legame con il passato. Tale novità fu infatti vissuta come un atto di obbedienza nei riguardi del proprio passato e delle proprie origini. Se è vero che il Deuteronomio è il momento in cui la memoria fondatrice d'Israele diventa scrittura, tale memoria pone in essere, da una parte, una riforma radicale e un'entità "Israele" che fino ad allora e in quei termini teologici non era ancora propriamente esistito. Ma, dall'altra, la medesima figura di memoria fondatrice attribuisce a quel momento creativo un carattere di "obbedienza" rispetto al passato. Non si tratta di imposizione "ideologica", ma di "riconoscimento" delle proprie origini e di accettazione della propria "identità"; come un figlio che, pur progettando la vita futura in piena libertà, non nasconde, ma anzi va alla ricerca delle proprie origini e poi pubblicamente le confessa, indicando coloro che lo hanno generato. In questa luce rileggerei l'ancoraggio nel passato ricercato nella cosiddetta "riforma di Giosia", come caso di autentica memoria. Da un lato, con tale richiamo al passato, la radicale innovazione poteva essere accolta con minori riserve, dal momento che si presentava come riedizione o completamento di una riforma del passato. D'altro lato, quanto veniva istituito dalla legge deuteronomica di fatto era in questo modo un atto di obbedienza che confessava le proprie origini. La funzione della memoria fondatrice dice esattamente queste due dimensioni che legano il presente del momento deuteronomico al passato di Giosia e al futuro della costituzione di Israele, che da quel momento prende forma. Più che parlare di "peso ideologico della novità", parlerei quindi della  dialettica propria della figura della memoria che sono andato enucleando. Anche i quattro capisaldi dell'identità introdotta dalla riforma DTN andrebbero riletti alla luce della medesima dialettica istituita dalla memoria fondatrice. Per ciascuno di essi, si tratterebbe di mostrare, insieme all'effettiva discontinuità dell'innovazione, la radicazione in una memoria del passato di fronte alla quale colui che sta scrivendo non si sente "padrone", ma "servo".

Conclusione

Quello che abbiamo nel racconto biblico è una testimonianza che Israele dà della propria identità, nel senso che quell'Israele del dopo esilio non aveva la precisione documentaria dei nostri archivi. Probabilmente i dati assunti dagli autori nel momento in cui scrivevano, facevano riferimento a iconografie, a raffigurazioni, oppure a stele o poco più, non avevano dei grandi documenti che già narravano quelle vicende. Il popolo riconosce in quel passato il proprio passato, confessa in quel Giosuè il proprio antenato, dice che quelli che sono entrati in terra di Canaan sono i suoi antenati. Per noi questa testimonianza è più importante della ricostruzione esatta di qualsiasi storiografia. Non solo: se vogliamo davvero valorizzare il racconto biblico, non dobbiamo ridurlo ad una trama storica: magari essa è imprecisa, come appunto nel caso dell'insediamento. Il racconto biblico non è una storia che va raccontata, è un mondo narrativo che va letto, nel quale bisogna entrare, lasciarsi conquistare, perché è esattamente nel mondo narrativo di questa storia che si rivela Dio. Da un punto di vista propriamente storico non si riuscirà mai a confermare la "irruzione" di Dio nella storia. Ciò che è essenziale nel racconto biblico è la confessione che quel Dio dell'esodo è entrato dentro nella vita di Israele, ha parlato con Giosuè, e prima ancora con i padri e soprattutto con Mosè. La Storia della salvezza non è dunque un modo di fare storia, ma è una confessione di fede che crea il mondo nel quale si confessa che Dio è vivo" che JHWH è davvero "Colui che c'è".

 

PER APPROFONDIRE

P. BEAUCHAMP, L'uno e l'altro testamento; Saggio di lettura (=Biblioteca di Cultura Religiosa 46), Brescia, Paideia Editrice, 1985; ID., L'uno e l'altro testamento. 2. Compiere le Scritture, Introduzione di A. BERTULETTI, Traduzione di M. L. Milazzo, Revisione di L. ARRIGHI - R. VIGNOLO (=Biblica 1), Milano, Glossa, 2001.

M. HALBWACHS, La memoria collettiva, Nuova edizione critica a cura di P. JEDLOWSKI - T. GRANDE, Postfazione di L. PASSERINI (=Mappe dell'Immaginario 6), Milano, Edizioni Unicopli, 1987.

J. ASSMANN, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Traduzione di F. DE ANGELIS (=Biblioteca Einaudi 2), Torino, Giulio Einaudi Editore, 1997.

P. RICOEUR, La memoria, la storia, l'oblio, Edizione italiana a cura di D. IANNOTTA (=Saggi 28), Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003.

M. LIVERANI, Oltre la Bibbia. Storia antica d'Israele (=Storia e Società), Roma - Bari, Editori Laterza, 2003.

G. BORGONOVO, "Dio-Legge-Popolo. Il Deuteronomismo come attuazione "ideologica" di un rapporto di esclusività", in "Deuteronomismo e Sapienza: la riscrittura dell'identità culturale e religiosa di Israele. Atti del XII Convegno di Studi Veterotestamentari (Napoli, 10-12 Settembre 2001)", a cura di S. BARBAGLIA, Ricerche Storico Bibliche 15,1 (2003) 25-64.

G. BORGONOVO, "La memoria fondatrice. Storia e ideologia, identità e costituzione di un popolo. Il caso della "ricapitolazione" deuteronomica", in "Verità storica, memoria e identità", [dossier], La Scuola Cattolica 133 (2005) 327-54.